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In cammino, 9. Da Tosantos a Cardañuela

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06.07.2016

Ci svegliamo tutti di malumore, fa freddo e il vento, maligno, vaporizza gocce di pioggia. Facciamo colazione al buio, seduti a terra nel giardino dell’albergue, una pesca ammaccata riemersa dal fondo dello zaino e del formaggio a fette che trasuda tristezza.

Arrivare al bagno è già stata un’impresa: il piede fa un male cane, il riposo notturno è servito a poco. Fa male ad appoggiarlo, fa male ad alzarlo da terra, trafitto da mille spilli.

Ci aspetta, oggi, l’ascesa ai Montes de Oca, un dislivello non impegnativo a dire il vero, ma che adesso, nella situazione in cui mi trovo, non mi sembra affatto banale. Già, perché a cena i miei sintomi sono stati valutati, soppesati e analizzati nel dettaglio. Il verdetto, accolto dalla tavolata con sguardi definitivi e compassionevoli, è stato unanime: tendinite. Dicono che l’unico rimedio sia fermarsi. Fermarsi!

Un’altra alba di solitudine in mezzo ai campi. Per la prima volta dalla partenza, canto. Canto forte con la voce rotta dalla fatica, per farmi coraggio. Do fondo ad un limitato repertorio di canzoni di Battisti e Guccini, sempre le stesse, come un mantra. Piano piano, scaldandosi, il piede mi dà tregua, quanto basta per poterlo appoggiare a terra e mettere avanti l’altro, ma appena mi fermo la magia svanisce.

Lasciando Villafranca Montes de Oca, la strada imbocca subito, senza ipocriti mezzi termini, una ripida salita sterrata. Mi fermo mille volte. Vecchi edifici abbandonati, dalla funzione ormai irriconoscibile. Appoggiato ad un muro, in mezzo alle erbacce alte fino alla vita e a bottiglie di birra, c’è un ramo, che qualcuno ha tagliato a misura di bastone, fasciandone con del cerotto un’estremità per fare una sorta di impugnatura. Quel qualcuno doveva essere parecchio più alto di me: sarà per quello, o sarà per la birra, mi immagino un qualche bellimbusto nordeuropeo; però ha dimenticato il suo bastone lì, e gliene sono molto grata. Se lo incontro, forse glielo renderò.

I Montes de Oca, un tempo, erano uno di quei luoghi che i pellegrini attendevano con trepidazione: boschi solitari e selvaggi, rifugio di briganti e covo di lupi. Quando si scorgeva, oltre le fronde, il campanile del monastero di San Juan de Ortega, era segno che il peggio era passato. Ci si poteva fermare, allora come oggi, per riposare e mangiare. Io entro nella chiesa, spoglia e metafisica, accendo un bastoncino di incenso e riparto. Non voglio che il piede si freddi.

Il cammino prosegue in piano per qualche chilometro prima della prova successiva: la Sierra di Atapuerca. Il nostro quartetto si ritrova ad Agés per pranzo, e decidiamo di affrontare anche Atapuerca e fermarci per la notte di là della sierra, alle porte di Burgos. Ci diamo appuntamento, prima di ripartire, al municipale di Cardañuela: nessuno di noi ha voglia di passare la notte in città.

Si dice che il cervello dimentichi con facilità i dolori troppo intensi, per evitare di bloccarsi nell’empasse: io di quella salita non ricordo assolutamente niente, se non lo scorrere dei sassi bianchi sotto i sandali e un indistinto turpiloquio che mi frullava in testa.

Ad un tratto, so solo che il sentiero si è spianato, e davanti si è aperto per la prima volta il paesaggio della Castiglia, un orizzonte infinito, maestoso e placido allo stesso tempo: “no ha gozado de vista más hermosa como esta“.

In cammino, 8. Da Santo Domingo de la Calzada a Tosantos

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05.07.2016

La pioggia che ha accompagnato l’ingresso a Santo Domingo de la Calzada è ancora là ad attenderci al mattino.

Dopo tanto sole, tanto caldo, tanta polvere e sudore, adesso camminare fra i campi e le spighe mature con l’impermeabile addosso e la faccia umida, in un repentino ma fugace autunno, ha un che di paradossale. Per tutta la mattina, mi diverto a guardare il mondo dall’altezza delle spighe di orzo che si perdono a destra e a sinistra, interrotte solo da qualche albero isolato e solitario.

Passiamo il paese di Grañón, uno dei luoghi simbolo della rinascita del pellegrinaggio jacopeo a partire dagli anni ’70 e ’80, conosciuto per l’ospitalità semplice e calda offerta nell’albergue parrocchiale. Percorrendo adesso il Cammino sembra che tutto sia così da sempre, le conchiglie, le frecce gialle, gli albergue per tutti i gusti che si incontrano in ogni paese. Eppure, dopo il periodo di massima fioritura nel XII e XIII secolo, a partire dal Quattrocento con lo svilupparsi di una diversa spiritualità, ma anche a causa del grande numero di pellegrini in viaggio, non sempre con intenzioni del tutto limpide, e dei conseguenti episodi picareschi che ne derivavano, le stesse autorità religiose iniziarono a sconsigliare di mettersi in cammino per la tomba dell’Apostolo. La Riforma e le guerre di religione del Cinquecento interruppero quasi del tutto il flusso dei pellegrini, certo non consono poi alla razionalità dell’Illuminismo, e solo nel Novecento alcuni visionari hanno messo mano alla vernice gialla e hanno iniziato a riscoprire percorsi, sentieri, luoghi di sosta, un intero mondo di storie sepolte.

Ma certo non possiamo fermarci a Grañón alle otto del mattino, e dunque proseguiamo fino a Belorado e oltre, fermandoci per la notte a Tosantos.

Occupato il posto nell’ostello, salgo all’Ermita de Nuestra Señora de la Peña, un minuscolo edificio dalla pianta del tutto atipica, in parte scavato nella roccia sedimentaria, e poi più su, fino alla sommità della collina. Da qui si domina tutta la vallata, un verde acerbo e brillante su cui trascorrono quiete le nuvole, modificando provvisoriamente la geometria dei campi.

Cerco solitudine stasera. Abbiamo scherzato tanto, con i compagni, sul fatto che sul Cammino non passa giorno che tu non abbia qualcosa: ti fa male una gamba, poi ti passa ma ti fa male una spalla, poi ti passa e ti viene uno sfogo rosso sulla pancia, poi ti passa e rifà male la gamba e poi ti scopri delle strane punture biancastre su un braccio, poi non vai in bagno e poi vai troppo in bagno e ti rifà male la spalla, ti vengono le vesciche sotto un piede ti passano ti tornano all’altro piede, ti fa male la testa ti fa male lo stomaco… e via di nuovo.

Questo tema è uno dei grandi spunti di conversazione durante il Cammino, e vi ho quindi partecipato di buon grado, come si partecipa a tutti quei rituali che cementano i gruppi umani, se non vuoi apparire un completo asociale.

Ma in realtà, a parte quel ginocchio i primi tre giorni, mi sono sentita un leone, con l’unico desiderio di divorare la strada insieme a tutte le gabbie, ai miei limiti e alle mie insicurezze. Ho avuto gambe e ho avuto fiato per tutte le salite. Ho visto gente ungersi i piedi di vasellina, chi al mattino e chi è meglio la sera, mettere cerotti per la notte e cerotti diversi per il giorno, piangere nonostante qualunque accorgimento, ho scoperto i mille modi di bucare le vesciche con o senza filo, ma per fortuna o per grazia divina sempre da spettatrice.

Ora però, dopo otto giorni il dolore è arrivato. Ancora confusamente, sento che qualcosa non va nel piede sinistro, quando lo appoggio a terra. Posso trascurarlo ancora e andare avanti, come oggi, che mi ha accompagnato nell’ultima parte della giornata, facendosi sentire ogni metro un po’ di più, ma qualcosa mi dice che adesso si apre una pagina nuova del mio cammino.  

In cammino, 4. Da Uterga a Estella

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01.07.2016

In pochi si fermano a Uterga, un pugno di case senza pregio perse fra i campi, in mezzo alle ben più attraenti Pamplona e Puente la Reina. Così, l’alba ti raggiunge sul cammino in una solitudine completa, come un compagno di viaggio che silenziosamente si avvicina alle spalle per poi sorridere nell’affiancarti.

Mettersi in cammino quando ancora è buio e le frecce gialle, per quanto frequenti, si vedono appena, non è una cosa che piace a tutti. Si corre il rischio di perdere la strada, la si perde in effetti, ma si capisce poi l’errore, e la si ritrova. Anche questo è il bello di non avere nessun impegno da rispettare, nessuna tabella prestabilita, nessuna prenotazione.

Si deve partire senza colazione, perché i negozi e i bar sono ancora chiusi, oppure si mangia un qualcosa di improbabile scovato in una tasca dello zaino, sui gradini dell’ostello o su una panca davanti a una chiesa. Avvolto nel buio, nell’aria fredda, il paesaggio è fitto di mistero. Capisco che non piaccia a tutti andare senza sapere cosa c’è attorno, nel silenzio della natura al termine della notte. Ma per me, quel momento incredibile in cui il vento si alza lieve ad annunciare l’inizio del giorno e le stelle appassiscono controvoglia mentre il cielo si tinge di rosa, è un dono che ogni volta mi scuote nel profondo delle fibre e mi lascia lì, a piangere sul sentiero in mezzo al palpito dei campi, finché le ombre non hanno smesso di danzare fra i cespugli. Per vivere quel momento perdo il sonno ogni notte.

Decidiamo di compiere una non breve deviazione nel mare di spighe per raggiungere la romanica ermita di Nuestra Señora di Eunate, di fondazione templare, con il suo portico ottagonale abitato di facce che si nascondono giocosamente fra i capitelli. Percorriamo quindi pochi chilometri del Cammino aragonese, che attraversa i Pirenei al Passo di Somport ed era storicamente il più percorso dai pellegrini italiani provenienti da Ventimiglia attraverso Arles e Tolosa, per ritrovare il Cammino francese a Puente la Reina: y desde aquí todos los Caminos a Santiago se hacen uno solo. Qui la rete di vie che innervava l’Europa del Medioevo, proveniente dalla Francia, dall’Italia, dall’Impero Germanico, dalla Polonia e da paesi ancora più lontani converge in un unico grande fiume che scorre placido fino all’Oceano.

Attraversiamo con religioso rispetto il ponte sull’Arga, considerato una delle architetture civili romaniche più belle del cammino francese, con i suoi archi a tutto sesto e gli archetti che alleggeriscono il peso della struttura e offrono una via ulteriore alle acque in caso di piena. La leggenda vuole che un uccellino si prendesse cura di un’immagine della Virgen del Puy detta anche del Txori (uccellino, in basco) che si trovava in una torre costruita in mezzo al ponte, rinfrescandole il volto con le ali bagnate dell’acqua dell’Arga.

Ci allontaniamo con in mente questa delicata immagine, per affrontare un interminabile saliscendi che conduce a Estella, sotto un sole che ha perso lo sguardo benigno del mattino. Il Cammino jacobeo si sovrappone per alcuni tratti ad una via romana secondaria che da Pompaelo scendeva verso l’Ebro, e camminiamo per la prima volta sui basoli ancora segnati dal passaggio del carri, in questo lembo di terra in cui a lungo la resistenza dei Celtiberi si oppose all’avanzata romana. Ancora nel 50 a.C., fra le Asturie e la Cantabria c’era chi non si rassegnava al corso della storia.

Gli ultimi chilometri a Estella sono un ricordo confuso di sentieri eternamente in salita e caldo ormai insopportabile.

All’ingresso in città, poco dopo la chiesa gotica del Santo Sepolcro, una vecchia porta in legno testimonia il passaggio indifferente dei secoli nella costellazione simbolica delle sue borchie di ferro: le stelle, richiamo alla Via Lattea che di notte sembra una perfetta proiezione in cielo del Cammino nel suo svolgersi da Est a Ovest, e la conchiglia di San Giacomo, quel segno confortante che incontriamo così spesso, ancora più delle moderne frecce gialle. Undici raggi che convergono verso un centro, Santiago e la tomba dell’Apostolo.

Il centro? La meta? O forse, più semplicemente, quel luogo, qualsiasi esso sia, in cui lasciare che le cose ci conducano dove dobbiamo arrivare?

 

In cammino, 3. Da Larrasoaña a Uterga

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30.06.2016

Mentre il sole alla sera tramontava, nel patio dell’Albergue Municipal di Larrasoaña, abbiamo condiviso una cena improvvisata, una pastasciutta al pomodoro che ha girato tutti i tavoli, un’insalata e una scatoletta di legumi freddi, per poi fantasticare un po’ sull’ingresso, il giorno successivo, a Pamplona, capitale della Navarra. Dopo tre giorni di solitudini arboree e montane, abbiamo convenuto che dormire in città avrebbe potuto essere un piacevole diversivo, insieme a cose come mangiare una cena vera e fare due passi fra la gente prima di collassare nella branda.

Con questa idea ci mettiamo in cammino all’alba, in mezzo alle ginestre, sotto il cielo opaco di un’umidità che non riesce a trasformarsi in pioggia. Poche ore di cammino per attraversare il Puente de la Magdalena, che segna l’arrivo in città, e riprendere lentamente contatto con il mondo. Ma incontrare di nuovo persone, pulite e vestite normalmente, in giro per compiere gli atti usuali (fare la spesa, accompagnare il cane, andare dal medico o alla posta…), quegli atti anche nostri da cui solo tre giorni prima ci siamo distaccati, è uno shock difficilmente prevedibile poche ore prima. Solo tre giorni di cammino fra le montagne ci separano da loro. Eppure… eppure mi sorprendo a guardarli come esseri straordinari, e mi sembra un po’ di provare ciò che provarono gli Incas quando videro per la prima volta in vita loro i Conquistadores spagnoli.

Ma la sorpresa, a dire il vero, appare reciproca. Sul ponte, ci soffermiamo ad osservare l’acqua fresca scorrere in basso, e una coppia di anziani si avvicina. Ci prendono le mani, ci chiedono da dove veniamo e ci dicono tutti commossi quanto siamo bravi, che avrebbero sempre voluto fare il Cammino ma alla fine non l’hanno mai fatto. E io mi chiedo, secondo le statistiche ufficiali ogni anno più di 250.000 pellegrini percorrono questa via, solo a giugno ne sono passati 38.000… e questi due riescono ad accoglierci con sorrisi così freschi di sincera ammirazione? E che cosa stiamo facendo mai di straordinario? Stiamo solo camminando, un passo dopo l’altro, verso ovest. Nascondiamo una lacrima, prendiamo quei sorrisi e quelle mani rugose e incerte e li mettiamo in un angolo del cuore, ed entriamo a Pamplona.

La città si sta preparando alla festa di San Fermín e le strade sono già pavesate di bandierine. Ma la piacevolezza che immaginavamo si scontra subito con una diversa realtà, la pressione delle auto, il pigia pigia di fronte ai locali, il caldo che sale inesorabile dai basoli della strada. Il desiderio di restare scolora velocemente, il pensiero di passare qua la notte è inaccettabile, e ci ritroviamo già sul Cammino, via, verso l’Alto del Perdón che si profila con la sua collana di pale eoliche. Meglio un’altra salita, meglio sudore e polvere.
Il sentiero, di un bianco accecante sotto il sole del mezzogiorno, si snoda flessuoso fra le colline, in un mare di grano maturo, a perdita d’occhio, sinché non incontra il cielo. Al di là dei crinali, si affacciano perduti campanili di paesi che resteranno sconosciuti.

Silenzio: assoluto, irreale. Se ti fermi in mezzo alla via, ad occhi chiusi, respirando, incameri tutta l’energia della Terra.

La salita verso l’Alto del Perdón è più clemente di quello che sembra, e in poco tempo raggiungiamo l’altura e il monumento ai pellegrini, donde se cruza el camino del viento con el de las estrellas. Da lì, alle spalle, si scorgono ancora i Pirenei, dove il cammino è iniziato, e qua e là quel nastro bianco appena percorso, che si nasconde fra le pieghe di spighe. Davanti, la strada si distende verso il futuro.

Il vento ti scuote in uno stato di stordimento così piacevole, che non vorresti più andar via.

Ma non è solo questo: la realtà è che sulla cima non c’è niente, se non un improbabile baracchino di panini e bibite, e da qualche parte bisogna arrivare, per dormire. Per farlo, c’è adesso un’infida discesa, il vero nemico, adesso, se hai un menisco incrinato e ogni passo è uno sforzo disumano nonostante la profusione di Ibuprofene. Il Cammino, che altrove è come un grande drago lungo disteso sui campi, adesso si trasforma a tradimento in uno stretto sentiero, un canale, cosparso di grossi ciottoli che rotolano giù appena appoggi il piede. Intorno, cessato il vento, di nuovo caldo e indifferenti colline, alberi sparsi che offrono appena qualche istante d’ombra e conforto. A Uterga, al primo paese, ci fermiamo, sfinite. Ma anche stanotte sogno di camminare, non dormo, e aspetto almeno che siano le cinque per ripartire.