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Vasco Pratolini, “Lo scialo”

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Vasco Pratolini - Lo scialoNon c’è la freschezza rumorosa della vita di quartiere, le storie di amicizia e amore o la dolce amara vendetta de Le ragazze di San Frediano nelle pagine de Lo scialo di Vasco Pratolini, la seconda parte dell’affresco storico dal titolo Una storia italiana, che prende avvio alla fine dell’Ottocento con Metello  e si conclude al termine della Seconda guerra mondiale con Allegoria e derisione.

In una Firenze su cui si allungano le ombre del trionfante Fascismo, cupa e quasi priva di scampo, il romanzo intreccia le vite di personaggi di diversa estrazione sociale, contadini, politici, villani arricchiti, nobili decaduti, bottegai e artigiani. In questo ampio racconto corale, che abbraccia due decenni, filo conduttore sono le vicende di Nella e Ninì, e delle rispettive famiglie.

Due donne profondamente diverse per storia e inclinazioni, ma entrambe percorse da un tormento interiore serpeggiante e implacabile, che si acuisce dolorosamente con la progressiva presa di coscienza del passare del tempo, delle occasioni irrimediabilmente perdute, della mediocrità dell’ambiente piccolo e medio borghese di cui fanno parte, e che le conduce là, nel gorgo. Esse vedono l’abisso verso cui si dirigono, ma non vi si sottraggono, in un estremo tentativo di rivolta al destino che altri – la famiglia, la società, l’educazione – hanno scelto per loro.

“La vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele.” 

Pratolini inanella questi triti, li incatena gli uni agli altri, in una prospettiva a spirale che tende all’infinito e in cui manca la luce dell’avvenire, o il bagliore dell’ideale: l’amore tragico di Ninì per la giovane contadina Maria, che finisce per inabissarle entrambe, e quello incondizionato di Adamo per la stessa Ninì, che non verrà da lei mai corrisposto nonostante il matrimonio, la vita familiare apparentemente irreprensibile di Nella (ma quel neo che cresce sulla guancia del marito Giovanni, con gli anni, e che sì, si rivela infine quel che è in realtà, un’orribile verruca!), e il fuoco che la travolge nell’incontro con Folco, subito spento dalla fatalità di una morte enigmatica, la miserabile tresca di Giovanni con Erina, che si conclude in una grottesca beffa: ogni cosa, anche l’amore, anzi sopratutto l’amore, si incenerisce nelle mani dei personaggi, o per lenta e inesorabile consunzione, o per troppo improvviso deflagrare.

I destini singoli fluttuano legati al ritmo minaccioso del respiro della Storia, che sullo sfondo compie la sua lenta parabola: la Prima guerra mondiale, la Marcia su Roma, l’impresa di Fiume, l’omicidio di Spartaco Lavagnini, le retate degli squadroni e le purghe ai dissidenti…

È possibile essere felici mentre accade tutto questo? Pratolini conduce i suoi personaggi ognuno nel proprio inevitabile gorgo, dando con decisione una risposta. E oggi, è possibile essere felici mentre accade tutto questo?

In bianco e nero – La Pieve di Gropina

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Ormai il giorno sta per terminare, e piove, piove incessante e ostile, senza un attimo di tregua.

Non minaccioso, mai: il cielo è uniforme e bianco, senza profondità e senza violenza. Non si accanisce, ma come da una vasca troppo piena, inevitabile, la pioggia continua a riversarsi sulla nostra auto e sui nostri sopralluoghi.

Scorre sull’erba, come un fiume calmo, e proseguiamo a piedi, nonostante gli inviti a tornare indietro. Eppure, non vorrei essere altrove. L’ombrello da cacciatore di colui che ci conduce sul posto, di quelli grandi e verdi, di tessuto a trama un po’ larga, col manico che sembra sgrossato a mano, mi fa così tenerezza. Fragile e nodoso quest’uomo, come lo sono gli anziani. Un abbagliamento studiato nel dettaglio, e adatto al luogo e al clima, i suoi stivali di gomma, il berretto pesante: come retaggi di un passato che non può appartenergli più, come attaccamento al se stesso di un tempo.

E infatti, lui vorrebbe abbandonare l’impresa, ma siamo due e siamo determinate ad arrivare. Non vorrei essere altrove: ogni cosa mi sa di antico, di vecchie abitudini e di avventura. I miei gesti si fanno quasi meccanici. Mi basta stare qua, in un posto che non conosco, ad assaporare la pioggia.Melo giapponeseUna pioggia così, finisce con l’appiattire nella scala di grigi tutti i colori: resiste ancora un poco il rosa caldo dei meli giapponesi, unica macchia viva in un paesaggio come sotto incantesimo. Alla fine, ritornando verso Firenze, ormai all’imbrunire, compare lungo la strada, fra il verde argenteo degli olivi, la mole della Pieve di San Piero a Gropina.

Varcando la soglia, si allontana lo stillicidio della pioggia e con esso ogni rumore. L’incantesimo per cui siamo qui è così completo: l’interno della chiesa è silenzio, è in bianco e nero. Scende una luce diffusa dalle finestre strette e sottili, come feritoie, chiuse da lastre diafane di alabastro, innervato di calde tonalità brune. Non si capisce se sia ancora possibile respirare, in quest’aria densa eppure fredda.

Sarà vero che il nome del borgo, Gropina, deriva dell’etrusco Krupina? Certo è che questa pieve, eretta nel 1016, sorge sui resti di almeno altri due edifici, uno paleocristiano, risalente al V secolo, e uno longobardo, del IX, e che negli scavi eseguiti negli anni Sessanta del ‘900 durante il rifacimento della pavimentazione, sono emersi resti sicuramente di epoca romana.

Le pievi romaniche che si snodano come torri di avvistamento contro i pirati, lungo le pendici del Casentino, con la loro enigmatica antichità, sembrano ponti verso un passato ancora più remoto. Luoghi da sempre santi, di una sacralità innegabile e riconosciuta da una generazione dopo l’altra. Pieve di Gropina internoIn luoghi come questo, con la mente vuota e rimbombante, accendo sempre una candela, che resti ancora un po’ lì ad ardere danzando, quando me ne sarò andata.

Ogni capitello, diverso dai compagni, cerca di narrare una storia diversa, ma la sua voce è così arcaica, così lontana, così arcana, che sembra cantare una melodia senza suono. I codici figurativi che conosco sono spade senza filo e senza punta. Eppure cantano, la scrofa che allatta i piccoli, le sirene del pulpito, le aquile e i pesci e le onde in cui si rincorrono.

Non c’è simmetria, né prospettiva o profondità, in questi intagli di pietra che hanno il calore del legno, eppure ogni dettaglio di questo complesso mondo simbolico, che racchiude i segreti della fede, della vita e della morte, ha la raffinatezza estetica, la purezza, dell’alba del mondo.

Cantano per sé soli, perché non li comprendiamo, mentre due colonne si fondono in un abbraccio.PulpitoPieve di Gropina

La cupola, la città. Quando tutto sembra in bilico

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Santa Maria del FioreSolo la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore è alta come un palazzo di sei piani, ardita come tutta l’incredibile creazione di Brunelleschi, “erta sopra e’cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani”. La guardo contro luce, volute e rosoni di marmo un po’ scomposti, il sole che filtra ancora, pur guizzando da dietro le colline, attraverso le vetrate porpora e oltremare. Mi volto ancora verso il parapetto: la città è distesa là sotto, la città amata, le strade conosciute, i palazzi con i loro inconfondibili lineamenti, i giardini e le corti nascoste che solo da questa altezza si svelano.

Ma tutto sembra in bilico.

Guardo accanto a me i profili delle mie amiche. Ci attardiamo nel freddo, al tramonto, senza parlare ormai, dopo aver giocato a lungo a indovinare l’identità degli edifici che si distendono sotto di noi, per un inespresso desiderio comune di fermare questo momento. Il gioco ci ha consentito di non parlare di quello che proviamo davvero oggi, ma insieme scava già come un solco di nostalgia.

Un tramonto che ci appare carico di significato. I capelli biondi dell’una e i ricci indomabili dell’altra. Occhi chiari entrambe ma così profondamente diversi: dolci e pacati gli uni, guizzanti di energia gli altri. Siamo diventate amiche abbastanza da adulte da serbare nei nostri rapporti, per quanto quotidiani e intensi, un velo di riserbo che ci impedisce di superare un segno, di sciogliere l’emozione nel gesto.La lanterna di Santa Maria del Fiore

Ancor più che all’interno della cattedrale, quando le scalette claustrofobiche si sono improvvisamente aperte in alto sulla vista della cupola affrescata dal Vasari con la sua immaginifica teoria di demoni infernali, e sul geometrico ordito bianco e nero del pavimento giù in basso, le proporzioni fra le cose sembrano prive di senso. Le persone, giù indicibilmente lontane, si fondono nell’indistinto. Sembra che la città esista indipendentemente da loro e, ovviamente, anche da noi, anche se le nostre mani posate sul ferro freddo della ringhiera sono più concrete delle ombre che tracciano percorsi sui marciapiedi, in basso.

Oggi, anche se siamo qua travestite da turiste, combattiamo sordamente. Una battaglia inutile, ne sono certa, ma che restituisce un po’ di senso alla fatica, allo scoraggiamento, all’impotenza, alla rabbia e alla frustrazione così spesso provati negli ultimi due anni. Evidentemente, c’è qualcosa per cui vale la pena resistere. Quando le proporzioni si perdono, e quando ciò che sembra certo vacilla, è più facile scoprirlo.

Un sollievo si diffonde. La mia passione, che credevo morta, respira ancora. Aggiorniamo continuamente la pagina internet. Piano piano, la petizione raccoglie firme mentre l’ombra della cupola si allunga ancora come un immenso gnomone, divora angoli di strade, si affievolisce infine e scompare. Tramonto su Firenze

Storia di un sognatore, Frederick Stibbert

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Frederick Stibbert in armatura per il corteo storico del DuomoC’è una fotografia, un’albumina forse a giudicare dai toni cromatici, che mostra Frederick Stibbert con indosso l’armatura “inglese del 1370” con cui partecipò al solenne corteo per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1887.

È in piedi, leggermente di tre quarti, accanto al cavallo riccamente bardato, e ne tiene con la mano sinistra il morso. Dietro di loro, un grande portale aperto che li inquadra come una quinta teatrale. Forse la ripresa è stata fatta nel giardino della Villa di Montughi, perché di lato si intravedono arbusti e foglie. Quello stesso giardino in cui oggi, dopo la pioggia, perle di cielo rotolano sulle grandi foglie di Stelizia. A terra, è posato l’elmo dall’inconfondibile cimiero – un angelo che si stringe le braccia al corpo – che Stibbert aveva fatto realizzare per l’occasione.
AcquaAllora, non aveva ancora cinquant’anni, se la fotografia non è stata ripresa a posteriori, eppure sembra un uomo molto più anziano. Volge con naturale sicurezza il volto verso la macchina fotografica, piegandolo appena sulla spalla sinistra. Socchiude gli occhi, come a schermarli dalla luce o a soppesare chi ha di fronte, ma guarda fisso in camera, senza sorridere.

Non si sorrideva in verità, nel 1887, guardando un obiettivo.

Immagino che la maggior parte delle persone si sentisse allora piuttosto imbarazzata a mettersi in posa davanti a un apparecchio fotografico, e infatti spesso hanno sguardi tesi, opachi, o forzati. Forse si sentono in qualche modo giudicati, o messi alla prova. Forse tentano semplicemente, in uno sforzo disperato, di tenere gli occhi bene aperti, di non sbattere le palpebre, vanificando così la seduta di posa, per il tempo necessario a imprimere l’immagine sulla lastra di vetro.

Non Frederick Stibbert. Lui guarda fisso in camera, senza esitazione e senza tentennamenti. Soppesa noi, che lo guardiamo a distanza di più di un secolo dalla sua morte. Non dimentichiamo che era un uomo di mondo.

Lo chiamano sognatore. Lo chiamano eccentrico. Un riccone eccentrico con la morbosa fissazione per le armature antiche, per le chincaglierie esotiche, per spade e fucili.

Ma chi era davvero? Quello sguardo penetrante si fa beffe delle etichette che gli vengono attribuite.Cavalcata dettGuerrieri giapponesiCavalcata dett 2Frederick Stibbert eredita giovanissimo, alla morte precoce del padre, una enorme fortuna. Studiare non gli piace. O almeno non gli piace seguire i percorsi consueti. I suoi tutori pensano che presto dilapiderà il suo patrimonio. E in effetti, il giovane spende. Spende per acquistare oggetti meravigliosi in giro per il mondo. Eppure le fosche profezie non si avverano. Frederick Stibbert non è un avventato.

Pian piano prende forma l’idea di una creazione personale grandiosa, a cui dedica tutta la vita, senza diaframmi: la sua casa è il museo, il museo è la sua casa. La Villa di Montughi viene accresciuta, ristrutturata, adeguata alle proporzioni di una collezione che si arricchisce per decenni. Nuove passioni sbocciano con il tempo, e Stibbert le coltiva tutte, le asseconda tutte. I mezzi non gli mancano. Le sale si susseguono, non fredde sfilate di oggetti, ma ambientazioni, atmosfere, come frammenti di vita un tempo vissuta, congelata in un istante che mai sfiorisce.

Il progetto prende la sua forma definitiva alla sua morte, l’atto finale che suggella scelte consapevolmente perseguite. Stibbert lascia la sua casa, la sua collezione, il “suo museo”, come amava definirlo, con i suoi 56000 oggetti, oltre a un patrimonio in denaro di 800 lire, corrispondente oggi a qualcosa come 2 milioni di euro, alla Gran Bretagna, paese di origine del padre, con la possibilità di recesso a favore della città di Firenze, che ne entra in possesso nel 1908. A quale condizione? Che il “suo museo” sia aperto al pubblico, e resti per sempre così come lui l’ha ordinato.
Soffitto StibbertUn sognatore, sì. Un visionario, forse. Ma non chiamiamolo eccentrico. La sua visione era guidata da una volontà ferma, dalla traiettoria pulita e ineluttabile come una freccia scagliata contro un bersaglio. Questo dicono i suoi occhi a chi lo guarda dietro l’obiettivo.

Frederick Stibbert è uno che ha vissuto proprio come ha voluto. Onore a lui. Ha voluto lasciare una traccia duratura del suo passaggio su questa terra, e quella volontà ferma agisce ancora oggi.

Non è incredibile, essere capaci di proiettare così se stessi oltre il più grande degli ostacoli?
Giardino

14_Aldo Palazzeschi, “Sorelle Materassi”

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Sorelle MaterassiSanta Maria a Coverciano, 1918.

Firenze è lontana, non lambisce ancora con la sua espansione edilizia il paese sonnolento ai piedi di Settignano, fra l’Affrico e il Mensola. Nel loro appartatissimo nido, Teresa e Caterina Materassi conducono un’esistenza monotona fatta di ferrea disciplina e duro lavoro. Cucitrici in bianco e ricamatrici, le due sorelle sono riuscite a riscattare gli sperperi e le dissolutezza del padre, e a conquistare un posto rispettabile nella società: davanti al loro cancello stazionano ad ogni ora del giorno le auto delle signore del bel mondo, contesse marchese ereditiere, che si contendono le meraviglie di seta e taffettà che escono dalle loro mani.

Il prezzo da pagare è tuttavia la vita stessa, che hanno completamente sacrificato alla missione che si sono prefisse. Nel loro laboratorio esse sono altere regine, ma del mondo reale sono completamente estranee, cullate dalle loro ridicole ma commoventi fantasie di esperienze non vissute, di incontri mai avvenuti, di uomini inesistenti che non le hanno amate.

Il tranquillo scorrere della loro esistenza sempre uguale, cadenzata dal rumore del telaio, è interrotto soltanto in occasioni precise e strettamente codificate: la domenica pomeriggio, quando osservano il riposo per mezza giornata, che passano ad addobbarsi riesumando da vecchi armadi e cassettoni vestiti delle nonne e lustrini ormai irrimediabilmente fuori moda, la vendemmia, quando sono di malavoglia costrette a presiedere al rito collettivo del taglio dell’uva nel loro terreno, e per la festa di San Francesco a Fiesole.

La morte improvvisa della sorella Augusta, trasferitasi da giovane con il marito ad Ancora, dove conduce ora una squallida esistenza di vedova, fa piombare come un fulmine nella loro vita il nipote quattordicenne, Remo.

Fin dal primo ingresso di Remo nella storia, una sottile inquietudine si distende nell’incolore vita agreste sin a quel momento descritta nel romanzo.

Il ragazzo compare in piedi in mezzo alla camera della madre morente. Non piange. Non piangerà mai. Osserva. Spettatore impassibile in attesa di iniziare ad agire nel percorso della vita. Basta questo per indurre nel lettore un senso di pericolo imminente che non lo abbandonerà più.

Le zie pure fiutano il pericolo, ma il bellissimo giovinetto che porta la luce e la pienezza della vita nella loro casa le strega, le ammalia, le riduce in catene, succubi alla sua volontà. Irradia un fascino a cui quasi nessuno può sottrarsi: la vecchia Niobe, serva delle zie, è una delle prime vittime, ma ne seguono schiere innumerevoli, uomini e donne sembrano gareggiare per conquistare la sua amicizia, la sua considerazione, il suo amore. Ma amore Remo non ne prova, procede semplicemente e ineluttabilmente nel cammino che ha scelto: la vita è semplice è il suo motto, apparentemente innocuo, e senz’altro il denaro delle zie gli apre possibilità che, povero orfano, non aveva neppure immaginato.Remo

Quell’inquietudine, quel senso di pericolo imminente che Palazzeschi insinua nel lettore all’apparire di Remo piano piano si accresce, gonfia, dilaga: perché crescendo, il giovane alza sempre più la mira, le sue marachelle adolescenziali diventano presto veri peccati, bramosia di denaro, raggiri, mefistofeliche macchinazioni.

Remo, dietro la bella fronte, i capelli ondulati, la bocca perfetta in cui splendono i denti bianchi come un lampo di luce paradisiaca, è un demonio privo di sentimenti, di rimorso, di pudore. Le zie, le trascina nella rovina: i suoi piccoli debiti diventano progressivamente salati conti da pagare, spese che infine divengono insostenibili, in un crescendo teso e inesorabile. Quando i soldi non bastano più, le case e le terre vanno ipotecate.

Sola voce contraria, Giselda, la quarta sorella: Remo non la incanterà mai, lei che un matrimonio sbagliato ha gettato in una prigione di odio e risentimento verso tutti ma soprattutto verso i maschi. Remo non la incanta, ma sa volgere a proprio favore anche la sua ostilità, perché Teresa e Carolina in odio alla sorella sembrano impuntarsi a fare tutto il contrario di quello che consiglia.

Eppure, anche nel momento della rovina finale, non smettono di amarlo mai, nonostante tutto il male che sa procurare loro con un’indifferenza assoluta per i loro sentimenti. Venite a vedere le mie scimmie ammaestrate dice agli amici quando li invita a Coverciano a casa delle zie.

Bellissimo, non è una lettura indolore, Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi. Tutta l’amara ironia che può riservare la vita si rivela dietro il paravento di una scrittura piana, oggettuale, senza inutili voli, dietro una vicenda apparentemente banale nella Firenze di inizio Novecento. Ti avvinghia alle pagine, ti costringe a divorarle una dopo l’altra, in attesa dell’inevitabile crollo, che già si scorge all’orizzonte dopo il secondo capitolo, ma quando? Dopo quante umiliazioni, dopo quale altro durissimo colpo?SORELLE MATERASSI

Informazioni, nebbia, le vite degli altri

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Quando sono in cammino, a volte mi diverte fermarmi a chiedere informazioni inutili così, tanto per incrociare lo sguardo e la voce di qualcuno, per sollecitare un contatto, per aprire uno squarcio nel mistero di una vita sconosciuta.

Quelle vite degli altri che immagino nell’occhio caldo delle finestre illuminate, da incerti frammenti sconnessi: condensa, ombre, pareti colorate, vecchi incongrui lampadari e sommità di librerie. Finestra lungo la via Vecchia Fiesolana

Vorrei incontrare di nuovo quell’anziano signore a cui oggi ho chiesto, in piazza Mino a Fiesole, se dalla via Vecchia Fiesolana sarei potuta tornare a Firenze. Una trovata di una stupidità sconcertante, con cui l’ho costretto a sollevare il suo sguardo azzurro dalle mani incrociate in grembo e a guardarmi, ferendosi con i raggi bassi ma diretti del sole di dicembre. Mani nodose come quelle di mio nonno, mani antiche, mani di orti e vanga. Una casacca verde militare e, sotto, un maglione ruvido da cui sbucava un’improvvida maglietta di Topolino, capelli candidi e quello sguardo enorme e brillante, indimenticabile.

Raramente il segnale lanciato dalla domanda ingannevole si disperde invano: è assai più frequente che anche l’altro desideri in realtà quel contatto, e colga con un guizzo di empatia la realtà così malamente celata.

Si sposta impercettibilmente in modo da entrare nella mia ombra e ripararsi così dal sole, e il suo sguardo ora divertito accompagna una lunga e articolata spiegazione del percorso, altrettanto inutile quanto la domanda che l’ha sollecitata: perché basta davvero imboccarla, quella strada, e lasciarsi andare giù per la discesa a tornanti, superare Villa Medici e una per una le tante ville che fanno da corolla all’antica strada che univa le due città sorelle, per arrivare a San Domenico e da lì a Firenze, discendendo lungo via Boccaccio.

Ma non è forse bello indugiare a scambiarsi futili informazioni in questa giornata di sole, così in alto sopra il mare di nebbia che copre la vallata?

Vorrei incontrarlo di nuovo per dirgli che aveva ragione, che davvero dopo Villa Medici, dopo quel tornante, dove si dipartono due strade che poco più sotto si uniscono nuovamente, ed è indifferente se prendere a destra o a sinistra, il paesaggio su Firenze è proprio bello. Anche se la città è nascosta dalla nebbia, si indovinano lo stesso i contorni del Campanile e di Santa Maria del Fiore, quelle coordinate così inconfondibili per tutti i viaggiatori che scoprono da lontano la città del giglio, anche così trasfigurata dal bagliore latteo che si sprigiona dal basso.

Una fila di cipressi, il muretto scaldato dai raggi del sole: assaporo in silenzio il piacere di chi, accanto a me, ha avuto la buona idea di portarsi un libro, mentre un sommesso brusio d’insetti sale dall’edera che riveste il muretto, prima di riprendere il cammino.Firenze sotto la nebbia 2

Firenze sotto la nebbia

Lucide nuvole rosa e il Tepidario del Roster

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Ieri l’altro, scendendo l’Appennino per arrivare a Firenze, il cuore mi batteva forte. Che puerilità! Finalmente, a una svolta, il mio sguardo si è tuffato nella pianura e ha scorto di lontano come una massa oscura, Santa Maria del fiore e la sua famosa cupola… Ho guardato sovente tante di quelle vedute di Firenze che la conoscevo già e ho potuto camminare senza guida…

Così Stendhal, nella descrizione dei suoi viaggi in Italia, sintetizza l’emozione condivisa da tanti viaggiatori al momento di incontrare finalmente, ad una svolta della strada, la vista di Firenze, città di sogno carica di promesse, adagiata dolcemente nel nido dei suoi colli all’ombra della cupola del Brunelleschi.

Il viaggio in calesse attraverso l’Appennino, provenendo da Bologna, era particolarmente gravoso: la strada era lunga, difficile e non priva di pericoli, ma la fatica era ampiamente ripagata da quel momento unico, magico, in cui la città si svela all’improvviso, avvolta in una bruma irreale o splendente dei riflessi del tramonto. Una visione che tanti viaggiatori, nel Settecento e nell’Ottocento, cullano a lungo, nei febbrili preparativi preliminari al Grand Tour e lasciando alle spalle, una dopo l’altra, le tappe intermedie; e poi quel batticuore, inevitabile, commovente, che Stendhal si rimprovera ma con una punta di tenera condiscendenza per se stesso, per il suo sognare svagato il cielo sopra Firenze.

Questa visione antica e insieme senza tempo, per chi viaggia oggi in treno o in aereo, è quasi irrimediabilmente perduta; per ritrovarne in parte la suggestione ho percorso tante volte, di notte, via Trento appena sopra al Giardino dell’Orticoltura. Siamo nella parte finale della via Bolognese, nel punto in cui il declivio termina e il ponte sul Mugnone segna uno degli ingressi in città.

Interminabili momenti invernali così, l’odore di vento, la bicicletta in mano, la strada deserta, il cielo scuro e la cupola di Santa Maria del Fiore, il cuore per un attimo acquietato.Tepidario del Roster

Poco sotto, il Tepidario disegnato da Giacomo Roster e inaugurato nel 1880 risplende come un’immensa, delicata lanterna dalle nervature di solido metallo, così sfacciatamente ottocentesco con le sue decorazioni in stile moresco, le nicchie neorinascimentali e una fiducia un po’ ingenua per il progresso che allora era forse impossibile non condividere.

Il modello cui Roster si ispirò, apportando tuttavia significative variazioni ornamentali e strutturali, era il celebre Chrystal Palace, che aveva ospitato a Londra, nel 1851, la prima Esposizione Universale e che finì in una nuvola di fiamme, fumo e fuliggine in una notte del 1936. Un doppio ballatoio sospeso in alto, a sei metri di altezza, consentiva un tempo di ammirare le piante curiose ed esotiche che erano conservate nel Tepidario.Tepidario nell'Ottocento

Dopo un lungo periodo di offuscamento e un’intensa campagna di restauri, oggi il Tepidario e il Giardino dell’Orticoltura sono tornati ad essere un riferimento nella geografia del verde fiorentino: una passeggiata, un momento per leggere un libro sotto le foglie… Due volte l’anno, ad aprile-maggio e il primo fine settimana di ottobre, il giardino ospita una preziosa mostra mercato di fiori e piante, al cui richiamo non è facile sfuggire…

Quest’anno, complice l’arrivo dell’autunno, la mia scelta è caduta su una piccola pianta di Pernettya mucronata, avvolta in una nuvola di bacche lucide dal vivace colore rosa acceso. Si tratta di un piccolo arbusto sempreverde dal portamento cespuglioso e compatto, appartenente alla famiglia delle Ericacee, che predilige una posizione in ombra luminosa o a mezz’ombra, non tollera il caldo ed è resistente al gelo senza bisogno di particolari precauzioni. Va tenuta con il terriccio umido ma ben drenato, con annaffiature più abbondanti in primavera ed estate e diradate durante i restanti periodi dell’anno.

All’ultimo momento è saltato nel vaso un piccolo intruso, riuscite a trovarlo?

Pernettya mucronata var. rosea

9_Alexandre Dumas, “Il Conte di Montecristo”

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Dumas-1Non importa vederla davvero: ovunque tu sia nell’Arcipelago toscano, non potrai evitare di avvertire la presenza muta e inaccessibile di Montecristo, anche quando la sua sagoma inconfondibile non è visibile all’orizzonte, sospesa sopra un velo scivoloso di vapore che la solleva sulla superficie del mare ma solo quel tanto che le impedisce ancora di staccarsene e fluttuare magica a mezz’aria.

Ma Montecristo forse non è davvero un’isola: è una montagna dal cuore di roccia fredda e compressa, ormai dimentica del potere del fuoco; è una piramide, silenziosa e ieratica, che continua ad affondare con il medesimo angolo i suoi fianchi scoscesi nelle profondità del Tirreno, protendendo verso il cielo solo una minima parte della sua reale estensione, o che forse al contrario appena sotto il pelo dell’acqua si scopre priva di radici e capace di galleggiare sulle onde come una barchetta di carta in un’innocua vasca da giardino, tappezzata di ninfee; è un gigante immobile sotto il tepore di un manto d’odorosa macchia mediterranea.

L’esercizio della fantasia è potenzialmente illimitato: Montecristo serba quasi intatto il suo mistero, tanto complesso – per quanto non impossibile – raggiungerla realmente. Solo una volta ho avuto la fortuna di un fugace incontro: appena il tempo di indovinare il ronzio degli insetti fra i fiori, di immaginare Vittorio Emanuele ed Elena del Montenegro fra le arcate sdentate dell’approdo di Cala Maestra, di scoprire impensabili sfumature di verde e blu nell’acqua che si insinua fra gli scogli, e la visione era scomparsa. Ma da allora non ho smesso mai di popolare l’isola di avventure e di storie, dove spesso mi sono trovata intenta in fantastiche e sempre solitarie esplorazioni. E così, negli anni, ho camminato sulle rocce calde di sole, sondandone a piedi nudi le asperità ormai arrotondate dal tempo, ho pescato diafani gamberetti nelle pozze dove il mare arriva solo durante le tempeste, orlate di minuscoli castelli di cristalli di sale, ho rovistato nei bauli che di certo giacciono abbandonati nelle soffitte della Villa Reale, sollevando sbuffi di polvere e traendone pizzi un po’ ingialliti e uno strascico che chissà come è finito qui, dove balli non devono essercene mai stati.

Il Conte di Montecristo è una lettura che ho rimandato per anni, inconsciamente temendo che la finzione narrativa potesse infrangere uno dei miei più preziosi microcosmi immaginari. Ed è stato incredibilmente bello, invece, tornare ancora una volta su Montecristo, un’isola certo diversa dalla mia, alternativa ma non per questo rivale, e scoprire che, molti anni prima delle mie scorribande, è stato padrone di questo minuscolo reame il protagonista del romanzo, Edmond Dantès.

A dire il vero qualche volta ho provato anch’io a cercare il tesoro che le leggende vogliono sepolto sull’isola, smuovendo sassi nelle cavità e nella Grotta di San Mamiliano, ma senza grande convinzione: era altro quello che cercavo a Montecristo, il potere della libertà illimitata. Per Dantès invece, il bisogno di riscatto ma soprattutto la necessità di vendetta sopra coloro che lo hanno privato in un colpo di tutto ciò che l’avvenire gli dispiegava come una promessa, rende questione vitale il ritrovamento del tesoro. Nelle segrete del Castello d’If, dove è stato detenuto per quattordici anni, l’abate Faria gli ha rivelato come entrare in possesso del patrimonio della famiglia Spada, sepolto in un ben nascosto recesso sull’isola, e da quando riesce in un disperato tentativo di evasione, Dantès ha un unico obiettivo: entrare in possesso del tesoro e schiacciare i suoi nemici.

È Montecristo, l’isola magica, che gli offre la possibilità di iniziare una nuova vita, è qui che egli elabora un complesso piano che, in un crescente delirio di onnipotenza, lo conduce, apparentemente inarrestabile, sulle tracce dei suoi avversari: li ritrova riannodando i fili del passato, li riconosce, li osserva da lontano con la pazienza del ragno, li avvicina e infine li stringe sempre più da presso, ne conquista la fiducia per colpirli nei loro affetti, nelle loro ossessioni, nelle loro debolezze, li intrappola nelle spire di un meccanismo perfetto.

Mille volte, nel corso della storia, appare impossibile al lettore che il disegno ordito da Edmond Dantès possa giungere ad una positiva conclusione: come è possibile che nessuno lo riconosca, che la macchia nel suo passato, per quanto frutto di una volgare macchinazione, non riemerga a perderlo definitivamente? Come possono la sua stravaganza, la sua smodata ricchezza, la sua eccessiva condotta di vita non indurlo a commettere un errore fatale? Ma questi non sono I Miserabili, e chi è vinto una volta non è vinto per sempre. La rete si chiude, serrandoli uno per uno, su coloro che l’hanno un giorno tradito. Eppure Dantès è, dal momento del suo arresto e nonostante lo splendore di cui può circondarsi, un uomo morto. I mille raffinatissimi piaceri che il possesso del tesoro può fargli godere: ville, cavalli, barche, opere d’arte, gioielli, divertimenti, libri, cibo, servitori, donne… Tutto è nulla per lui, tutto divora il fuoco della vendetta. Ma il lieto fine c’è, fra misericordia, perdono e, soprattutto, amore.isola-di-montecristo

Perché chiamarla Valle dell’Inferno?

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Timidi frammenti color indaco si riversano fluttuando nelle pozze d’acqua che il nubifragio si è lasciato dietro, la notte scorsa. O sono forse porte improvvisamente aperte, solo per oggi, verso un’altra dimensione, dove il cielo dimora in terra e le nubi si nascondono fra le radici degli alberi?

Coriandoli di foglie argentee orlano la superficie dell’acqua, si ispessiscono sui sentieri trasformandoli in morbidi tappeti, e se apparentemente possono sembrare solo uno scherzo bonario, disteso sul bosco da qualche folletto silvestre, sono in realtà testimoni di una furia degli elementi difficilmente immaginabile, ora che le dita del sole riscaldano le punte delle foglie, sfiorandosi in una reciproca carezza a mezz’aria.

Santa Brigida - Valle dell'Inferno 2Santa Brigida - Valle dell'InfernoGli stessi frammenti di cielo scorrono nel ruscello, si affrettano verso la cascate e si infrangono sulle rocce solo per ricomporsi dopo qualche voluta di danza, là dove i raggi trafiggono il tetto volante degli alberi e si diffondono a terra come in una caverna.

L’aria è spessa nella Valle dell’Inferno, nascosta fra i rilievi preappenninici sopra Santa Brigida, fra il Mugello e il Valdarno, pochi chilometri da Firenze che misurati in termini non convenzionali possono dilatarsi nello spazio e anche nel tempo. È spessa e calda ma senza inganni ed esalazioni oltremondane, solo il tepore quasi palpabile che si sprigiona dal sottobosco, investe l’olfatto, ottunde il rumore dei passi, addormenta i rami e risveglia insieme i riflessi multicolori dei coleotteri.IMG_1450IMG_1460

Dunque perché chiamarla Valle dell’Inferno se ti avvolge come in un nido? La domanda continua a risuonarmi dentro finché l’immobilità dei rami non assume i connotati dell’incantesimo.

Cercherai invano l’uomo, negli sprazzi di sole che infrangono la volta della Valle dell’Inferno. Solo il respiro trattenuto degli alberi, in un’incomprensibile stasi vegetale, e delicate ali di coleottero sotto la loro scorza metallica. Sarà questo il motivo del nome?

L’uomo lo ritroverai più in alto sul crinale, ma solo in segni sparsi e consunti, dove i rovi abbracciano i muri di qualche casolare, e sulla cima del Monte Rotondo, dove il lacerto di muro di un non più ravvisabile castello si protende ancora ostinato, come ad indicare una strada ancora più su. Solo scendendo nuovamente a valle i segni si fanno più concreti, a lato dei sentieri indicati da segnavia spolverati di licheni. IMG_1470IMG_1475Antico segnavia Pontassieve


Il post è stato scritto all’indomani del nubifragio che ha colpito Firenze il 1 agosto 2015

Nel Carnevale delle orchidee

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Orchidea 8Solo strisciando fra cielo e mare sui sentieri dell’Isola d’Elba ho scoperto, lo scorso anno, che con un minimo di allenamento botanico si possono riconoscere le orchidee selvatiche quasi ovunque, nei boschi e nei prati: scoperta mirabile, che nel mio immaginario ha strappato questi fiori al loro altero ed esotico isolamento, per renderli finalmente vicini e familiari.

Come tutte le piante, anche le orchidee hanno il loro carattere: le Serapias e le Ophrys si divertono a nascondersi, in mezzo all’erba e al tripudio dei fiorellini primaverili, come nobili di tempi ormai andati che si aggirino per le strade e in mezzo al popolo, protetti dall’incognito della maschera nei giorni di Carnevale. Mentre le Serapias ammantano di organza rosa i merletti di polline, le Ophrys per attirare gli insetti si vestono di velluto, di ali dai riflessi metallici, di zampe ricoperte di ispida peluria, e per meglio calarsi nella parte si raggruppano in sparuti sciami. Minuscoli palloncini, si librano nel sole quasi dimentiche di quel sottile stelo che ancora le trattiene a terra.

In mezzo alle maschere, tuttavia, può passare talvolta la carrozza della famiglia reale. Le Orchis non si nascondono mai, né potrebbero, ma impongono con semplice naturalezza la loro presenza sui cigli assolati così come nella mezza ombra del sottobosco, improvvisa macchia bianca e porpora contro lo sfondo del verde primaverile.

Ho incontrato qualche settimana fa l’Orchis purpurea sui sentieri del Chianti fiorentino, nella valle del Virginio, in una mattina ammantata ancora di nebbie basse, e sui petrosi rilievi che separano la val di Greve dalla val di Pesa, in un pomeriggio sospeso di silenzio e ormai arso. Grandi foglie verde smeraldo, ovali e carnose, un lungo stelo che sorregge l’infiorescenza di forma conica, come fosse un antico tirso, drappeggiata da festoni di sottili ragnatele: anche da lontano questa pianta non passa inosservata. Ma è avvicinandosi che si apprezzano i colori dei fiori e soprattutto la loro forma singolare. I tre labelli superiori, color porpora, formano una sorta di pudico cappuccio, mentre i tre labelli inferiori, maggiormente sviluppati in ampiezza e dalle tonalità più chiare, si allargano a formare una silhouette grossolanamente umana: i due petali laterali le braccia, mentre quello inferiore si divide a sua volta in due dando vita alle gambe della figura… Tanto che nel linguaggio comune piante appartenenti a specie del genere Orchis possono essere individuate dai nomi Omini nudi oppure Ballerine.

Lascio le ballerine ad ondeggiare al vento e proseguo il mio solitario percorso: la loro presenza mi rassicura un po’.Orchidea 2 Orchidea 4 Orchidea 7