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La seconda volta [Bursa, moschee e castagne caramellate]

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Bursa è la quarta città della Turchia per numero di abitanti, un centro industriale dalla posizione strategica, che ha avuto un’enorme crescita, dilagando a macchia d’olio dalla Cittadella nella piana ai piedi dell’Uludag. Avrei dovuto tenere meglio presente questo dato pianificando la visita, ma arriviamo invece ormai a tarda sera da Istambul, con il traghetto che collega il porto dello Yenicapi con un approdo non meglio specificato sulla riva meridionale del Mar di Marmara, un traghetto preso del tutto casualmente, ultimi posti disponibili o restare a terra.

Così, seguendo meccanicamente la folla, disorientati dal buio, esaliamo su di un autobus che dovrebbe andare a Bursa. Ma è grande Bursa, la quarta città della Turchia! Questa prima sera è un vagare dall’autobus alla metropolitana a un taxi alla città vecchia, finalmente, dove si trova l’albergo.

Se ci arriviamo, infine, è solo merito di un ragazzo che incontriamo in autobus, un’apparizione provvidenziale in una giornata di caos e disorganizzazione. Abbiamo parlato molto, durante il viaggio, perché da quando gli chiediamo aiuto per orientarci nella mappa della città, Aydin ci prende sotto la sua protezione: dall’autobus ci porta alla metropolitana, ci fa entrare con la sua carta magnetica e rifiuta tassativamente di prendere i soldi dei biglietti, ci indica la fermata a cui dobbiamo scendere, che è quella dopo la sua. Finge di dimenticare, ne sono fermamente convinta, di scendere alla sua fermata, e quindi scende alla nostra e ci accompagna fino al parcheggio dei taxi, dove dà indicazioni al tassista, che non spiccica una parola d’inglese, e si dilegua nella notte.Bursa, ingresso alla Ulu CamiEppure abbiamo camminato per una giornata intera a Bursa, visitato la Cittadella e i mercati storici del Kapali Carsi, la Yesil Camii e la Yesil Türbe con i loro arabeschi in maiolica e oro e i tappeti verticali di ceramiche verdi e turchese, fra il pigolare delle scolaresche: ma ricordo adesso solo quell’incontro e, il giorno successivo, ore passate nell’ombra fresca della Ulu Camii, immenso spazio coperto da venti cupole ruotante attorno al riflesso azzurro della fontana di marmo.

Non finisce di meravigliarci la vita palpitante delle moschee, che quando non è l’ora della preghiera sembrano prive di trascendenza. L’entrata filtra un poco il fluire della vita quotidiana: bisogna togliere le scarpe, e chi entra per pregare si lava alle fontane all’ingresso, ma una volta all’interno ognuno declina la propria permanenza in una gamma di atteggiamenti che hanno poco di rituale.

C’è chi prega e chi dorme, disteso in un angolo; c’è un gruppo di donne che ascoltano, sedute a terra, la spiegazione della guida. Ci avviciniamo pur non capendo niente della spiegazione. Una bambina, da poco deve avere imparato a camminare, prende in mano un tasbih e ondeggia instabile ruotandolo sopra la testa, girandosi verso la madre con piccoli gridi estatici. Come in una piazza, la gente va e viene. Mi piace l’odore polveroso dei tappeti, il contatto dei piedi nudi con la loro superficie soffice e calda. I passi non fanno alcun rumore, nello spazio vuoto della moschea, e risuona dunque più limpido, eterno e senza sosta, lo zampillo dell’acqua nella fontana.Bursa, Ulu CamiBursa, Ulu CamiBursa, Ulu CamiBursa, Ulu CamiBursaPersa la cognizione del tempo nella sospensione irreale della moschea, corriamo all’otogar per ripartire alla volta della prossima tappa. Afferriamo al volo un pugno di kestane sekeri, la specialità dolciaria di Bursa: castagne caramellate e rivestite di cioccolato.

Il paesaggio muta insensibilmente, nei sobborghi urbani già irrompe l’altopiano anatolico nei contadini che trasportano a dorso di mulo sacchi e fascine: il cioccolato si scioglie fra le dita prima ancora che in bocca.
OtogarKestane sekeri


Fotografie di Janos Agresti©

La seconda volta – [Perché Ankara?]

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L’avvicinamento ad Ankara, dai finestrini dell’autobus, è un passaggio repentino dalle sconfinate e solitarie piane anatoliche, dalla terra riarsa, dagli alberi annodati, dai cieli che si incontrano con l’orizzonte a distanze incommensurabili, ad una periferia onirica e dilagante, dove nel volgere di una notte sembrano essere sorti abnormi grattacieli, paradigmi del mondo nuovo, attuale, baluardi contro quell’altopiano che segna la memoria di un passato rurale troppo vicino ancora, e che la moderna Turchia in piena ascesa economica forse desidera dimenticare.

All’apparenza, di questi grattacieli la maggior parte sembra ancora del tutto disabitata. Quale urgenza dunque ne ha determinato la nascita, è difficile e insieme spaventoso da dire. È un paese che di terra ne ha così tanta, basta allontanarsi un poco dalle città per vedere dispiegarsi un paesaggio che ha il respiro delle carte geografiche e confini apparentemente illimitati.

Eppure, la terra si consuma velocemente. Quale Turchia sarà fra cinque, dieci, venti anni?Altopiano anatolicoAltopiano anatolicoPeriferia di AnkaraPerché Ankara?

In Cappadocia ce l’hanno chiesto tutti, un po’ increduli. Per fare uno scalo, sulla via di ritorno per Istambul?

Perché andare a visitare questa strana enorme città, che ha spodestato solo nel 1923 Istambul come capitale della Turchia? Prima di allora, Ankara era solo uno dei tanti agglomerati urbani che costellano gli altopiani dell’Anatolia centrale, situata peraltro in uno dei luoghi più aridi e inospitali del paese. È a seguito della guerra greco-turca, che sancisce la caduta dell’Impero Ottomano e la nascita della Repubblica, che Ataturk innalza Ankara ad un ruolo che forse non era scritto nel suo destino. Istambul ha il prestigio innegabile, l’antichità, la grandiosità della capitale, il suo innato atteggiamento regale. È stata capitale, nei millenni, di paesi così diversi, e nonostante sconvolgimenti epocali: nonostante le crociate, nonostante la caduta dell’Impero bizantino, nonostante i sultani. Ankara, al confronto, è solo un punto sulla carta, il semplice centro geografico di un paese che desidera essere nuovo.

Mustafa Kemal Ataturk. Questo nome è la chiave del mio desiderio di visitare Ankara. In ogni angolo del paese, c’è un tributo per il fondatore della Turchia moderna. Controverso, certo, un personaggio pericolosamente in bilico fra il volto del tiranno e quello confortante del benefattore, nell’epoca dei totalitarismi incentrati sul culto della personalità del leader.

Ataturk, policromo in mezzo ad una polverosa rotonda stradale, che parla con i contadini; Ataturk, che ti fissa con sguardo imperioso dalle vetrine di souvenirs, ora calamita, ora tazza, ora quadernetto; Ataturk, un poster che assapora il profumo del pane dai muri di ogni panetteria; Atatuk, busto bronzeo in mille giardini diversi.

A volte, sorridiamo dell’ingenuità, così tremendamente al limite fra celebrazione e irrisione, dei tributi che la Turchia offre al suo eroe. Non ne ridiamo, mai, non solo perché in Turchia recare offesa all’immagine o alla persona di Ataturk è un reato, ma perché questa presenza ha un mistero sincero da sondare.

Così, diciamo che andiamo ad Ankara per fermarci una notte, e da lì raggiungere Hattusa, l’antica capitale ittita. Essere un archeologo può talvolta fornire un valido alibi per le proprie stranezze.Ankara, la CittadellaAnkara, la cittadellaIn ostello, abbiamo due posti in camerata da sei: passiamo del tempo, prima di notte, nel gazebo tappezzato di erba artificiale, un puntino in mezzo ai grattacieli di Kizilay, a raccontare e ascoltare storie. Una coppia di belgi è arrivata in treno da Teheran, un tragitto infinito lungo un giorno intero, ci fanno sognare nuove mete; un finlandese che viaggia solo, beve un sacco di birra e non si capisce che cosa stia cercando, forse solo di infrangere le barriere della propria educazione; due iraniani che passano la loro giornata in camera, sdraiati a osservare il soffitto, in attesa di documenti che non arrivano. Lo so che gli Ittiti aspetteranno. Già la prima sera decidiamo di restare una notte in più.

La Cittadella sembra sia l’unica cosa da vedere ad Ankara, oltre al Museo delle Civiltà Anatoliche, ma le sue stradine rileccate, i muri in cui sono incastonati in modo apparentemente casuale antichi marmi romani, i restauri sfacciati delle palazzine ottomane, stuccano velocemente. Dall’alto, non si vede il confine della città, i grattacieli si dispiegano inafferrabili uno dietro l’altro, sotto un cielo ambiguo che ha l’opacità dello sviluppo non controllato. Gli attimi di verità sono quando lo sfondo si strappa, e contro il paesaggio della modernità si staglia una vecchia casa abbandonata, rannicchiata in se stessa sulle travi imbarcate, o da una porta si intravedono le galline che razzolano in una corte, mura di fango tirate su alla meno peggio in dieci diverse tecniche edilizie tutte ugualmente instabili.Anit KabirCenotafio di AtaturkKemal AtaturkE infine, il viale fiancheggiato da leoni ci conduce fino all’immenso piazzale dell’Anit Kabir, il mausoleo di Kemal Ataturk, circondato da un porticato a pilastri rettangolari, di nitido rigore geometrico, come un antico tempio egizio. Il sole, benché sia mattina presto, riverbera implacabile sull’impiantito di travertino, e il cambio della guardia deve essere un tormento per i giovani che lo compiono, i marinai in un’immacolata divisa bianca, su cui gocciola il sudore dai loro volti congestionati dal caldo e dal laccio dell’elmetto.

Ce ne sono, ovviamente, di turisti, ma i più sono volti di scolaresche e famiglie turche, una paziente processione laica che lambisce in silenzio il cenotafio di lucida pietra nera. Mi torna alla mente la visita antropologica al santuario di San Giovanni Rotondo e alla salma di Padre Pio, ma allora le donne piangevano, il pianto rituale delle prefiche, mentre qua si osserva, si saluta e si omaggia, prima di scendere nelle viscere della macchina celebrativa, nel museo dove diorami e cimeli narrano le gesta del padre della Turchia.

Aspettino, gli Ittiti. Ormai, aspettano da millenni. Guardiamo sfilare i volti. Non sappiamo quanto durerà: molte cose, da un anno, sono già cambiate.Cambio della guardiaCambio della guardia


Le foto dell’Anit Kabir sono di Janos Agresti©

La seconda volta [In Cappadocia, il respiro dell’alba]

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Palloni aerostatici in CappadociaPoco prima dell’alba, quando i nuovi raggi del sole spazzano via le ombre rincorrendole in fretta giù lungo i declivi, un brulichio occulto attraversa le valli della Cappadocia: enormi autotreni si inerpicano sui crinali, per raggiungerne i punti più elevati e propizi. Di giorno si nascondono, esseri notturni e schivi, e li trovi addormentati come draghi nelle pieghe confuse di agglomerati pseudourbani ormai estesi a livello incontrollabile, ma al mattino si destano per svolgere pazientemente il compito loro affidato, trasportando i palloni aerostatici alle basi di lancio e dar vita a quello spettacolo-Cappadocia, in vendita a presso ormai relativamente accessibile a tutti gli angoli di strada.

I palloni, con il tramestio che comporta il loro solo apparentemente etereo innalzarsi in aria, hanno cacciato i piccioni che risiedevano stabilmente nelle valli. È la prima cosa che ci racconta il proprietario dell’alberghetto, quando arriviamo stanchi da una camminata infinita nella Valle di Ihlara e vorremmo solo salire e fare una doccia. E invece ci fa sedere, ci fa il tè, e ripete come una nenia ossessiva la storia dei piccioni, e del prezzo del benessere.

Eppure, se ti svegli per tempo, quando il cielo da pervinca si fa rosa e poi rifulge di energia, sembra che tutto si svolga in un silenzio lirico e irreale. Sembra quasi che questo insensato rituale sia una costante del paesaggio. Apparenza.

Ma il silenzio è davvero totale, senza vento. In mezzo alle guglie appuntite, animati dal respiro caldo e costante del fuoco, lentamente i palloni si scuotono dal sonno, tremano un po’ ma si dispiegano infine donandosi fiduciosi all’aria. Balleranno dolcemente su e giù con grazia stanca per il breve volgere di un’ora. Fa freddo sulla terrazza mentre i galli cantano in lontananza, ma l’abbraccio in cui sembra di stare sprofondati è troppo magico per riuscire a staccarsene.

Eppure, siamo della razza che rimane a terra, contenti di osservare le piroette altrui, in cerca di altre forme di poesia.

Palloni aerostatici in CappadociaPalloni aerostatici in CappadociaPalloni aerostatici in Cappadocia Palloni aerostatici in Cappadocia Palloni aerostatici in Cappadocia Palloni aerostatici in Cappadocia Palloni aerostatici in Cappadocia


Fotografie di Janos Agresti©

 

La seconda volta – [Tre giorni in Cappadocia]

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Per chi voglia visitare la Cappadocia, Göreme è probabilmente il posto più comodo per fare base, visto che si trova praticamente al centro della regione, ed è collegato comodamente tramite dolmus alle altre cittadine: UçhisarÇavusinÜrgüp, Ortahisar, Avanos, Zelve, molte delle quali d’altra parte si possono anche raggiungere a piedi in giornata, distando pochi chilometri, magari prendendo un passaggio per il ritorno.

A lungo abbiamo esitato, nel programmare il viaggio, se andare davvero in Cappadocia, temendo di ricevere una grande delusione: dopo il primo incredibile viaggio ormai abbiamo elaborato una nostra personale idea platonica di Turchia, in cui la possibilità di condividere un paesaggio mozzafiato con orde di turisti russi in maglie fluo che scattano selfie con selfiestick (con tutto il rispetto, ma la poesia ne risente davvero) non trova facilmente posto.

Ma alla fine ci andiamo, in Cappadocia. Scegliamo, per puro spirito di contraddizione, e anche per mantenere basso il budget giornaliero in uno dei luoghi più turistici del paese, l’hotel più scrauso che sia possibile reperire su Booking.com. In questo non veniamo delusi affatto: la camera è circa sei metri quadrati, il letto è incastrato in una nicchia e stando sdraiato puoi aprire graziosamente la finestra con l’alluce. Il bagno – che pure è presente, per quanto incluso nei sei metri quadrati – è chiuso da una tenda da doccia, con buona pace della privacy.

Da qui possiamo partire per i nostri trekking improvvisati, dopo aver fatto sulla splendida terrazza la tipica colazione composta di pomodori e cetrioli, muniti di una cartina totalmente inadatta a rappresentare la complessità degli intrichi geologici della zona. L’incoscienza ci sospinge come sempre.CappadociaIl primo giorno ci dirigiamo decisi verso il Museo a Cielo Aperto di Göreme, patrimonio dell’Unesco, un complesso imperdibile di chiese, cappelle e monasteri scavati nella morbida roccia, collegati da scalette e affrescati. La coda irta di selfiestick che si presenta alla biglietteria ci convince in circa 5 secondi ad abbandonare il progetto. Dunque, che fare con la nostra ridicola cartina? Saltiamo semplicemente il guardrail, ci allontaniamo dalla strada lungo sentieri segnati nella sterpaglia, e via. Ci dirigiamo, seguendo da un certo punto – imprecisabile – in poi, improvvisati cartelli scritti con la bomboletta su cartone, verso la Valle delle Rose (Güllüdere), una delle mete indicate anche dalla Lonely Planet.

Se si vuole, una delle cose più assurde della Cappadocia è che le cittadine hanno una densità di bancarelle di ridicoli souvenir, ristorantini e pensioni che nemmeno la Riviera romagnola a Ferragosto, e le strade sono ingombre di torpedoni come S. Pietro la domenica mattina, però basta saltare il guardrail per entrare immediatamente in un’altra dimensione. Non importa inoltrarsi nella boscaglia per chilometri, bastano pochi metri per essere catapultati in uno dei paesaggi più incredibili che abbia mai visto.

Cappadocia 2In tre giorni, abbiamo camminato per circa venti chilometri al giorno, perdendoci continuamente e ritrovando la strada sempre, semplicemente, salendo più in alto e riorientandoci: Uçhisar arroccata sul suo pinnacolo come un castello di sabbia ha un profilo inconfondibile, ed è perciò il punto di riferimento per eccellenza della Cappadocia.

Sui sentieri che si inerpicano fra i camini delle fate e le intricate volute scavate dalle acque nella tenera roccia vulcanica, non troverai molte persone: c’è troppo caldo, e troppa polvere, evidentemente. Deve essere più comodo ammirare il paesaggio dalle mongolfiere, all’alba, e ritenere così di aver visto la Cappadocia. Cappadocia 3

Ogni valle ha le sue caratteristiche geologiche particolari, ed è perciò unica: ci sono quelle in cui i fianchi delle colline sono stondati, bianchi e soffici come nuvole di zucchero filato, e luccicano al sole in mezzo alle viti color smeraldo. In quelle valli non c’è polvere, c’è sempre un gran silenzio, e ci fermiamo a cogliere qualche ciocca d’uva e a mangiarla, pur temendo il classico arrivo del contadino imbelvito, perché abbiamo dimenticato di portare il pranzo.

Ci sono valli invece dai profili acuti e taglienti, tormentati, in cui strati di roccia rossa si sovrappongono a strati di roccia gialla. In quelle valli si cammina su uno strato spesso e finissimo di polvere morbida come talco, che finisce per colorarti i piedi di splendide nuance arcobaleno, sembra che non finiscano mai ed è davvero difficile orientarsi. Ti prende un po’ di sconforto, ti sembra di esserti perso definitivamente, ma poi avvisti in alto, in mezzo a due pinnacoli, un incongruo insieme composto da una tettoia di canne e un tappeto con intorno un divano e due poltrone: là c’è modo di riposare e di bere qualcosa.

C’è una valle (Valle dell’Amore – Görkündere) in cui enormi blocchi di pietra hanno protetto dall’erosione colonne altissime di sedimenti vulcanici, e ti chiedi come facciano ad essere ancora in piedi, così sottili e apparentemente fragili. In altre, in mezzo agli sterpi bruciati dal sole, improvvisamente appare un giardino verde e curato, e c’è un uomo che con la zappa arieggia il terreno intorno alle bietole.

Nella Valle dei Piccioni (Güvercinlik) incontriamo, del tutto inaspettato, un maestoso albero di gelso rosso, carico di more. Sono anni che non ne mangio e, per quanto possa temere l’ira funesta del contadino turco, non resisto, ne afferro qualcuna, le mani, le braccia, la maglia bianca si tingono di succo come fosse sangue: le more di gelso, ormai del tutto mature, si spaccano solo a sfiorarle. Allora mi metto sotto l’albero e stacco i frutti direttamente con i denti, e sanno di sole e polvere insieme quando esplodono in bocca. Ormai, se i passi che si sentono in avvicinamento sono quelli del suddetto contadino, sarà difficile dissimulare la malefatta: mi vedo già al posto di polizia di Göreme.
Cappadocia 4L’attesa del tramonto è un momento magico, sempre. Quando l’ora si avvicina, desidero sempre restare ferma dove mi trovo, e guardare il paesaggio, seppure immobile, cambiare a vista d’occhio al mutare delle ombre, percepire il momento preciso in cui davvero, indipendentemente dall’orologio, con l’inabissarsi del sole il giorno finisce.

E così abbiamo atteso il tramonto nella Valle di Zelve, seduti su un crinale, le ombre che si allungavano a complicare i già labirintici merletti di cenere vulcanica, il vento fresco che si alzava e l’ultimo autobus che partiva, lasciandoci da soli nel silenzio.Cappadocia 5Cappadocia 6

La seconda volta – [La fine del Ramazan nella Valle di Ihlara]

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IMG_8515_FotorAlla fine del Ramazan si celebra Șeker Bayrami, la Festa dei Dolci, tre giorni di festività con cui si conclude il mese del digiuno. È una di quelle occasioni da trascorrere rigorosamente in famiglia, e dunque la Turchia nei giorni precedenti all’inizio della festa ribolle di vitale fermento: tutti si spostano, tornano dalle città al paese d’origine, caricano sugli autobus a lunga distanza, o sui più domestici dolmus, bambini e anziani genitori per andare in visita dai parenti lontani, recando con sé monumentali pacchi di provviste e doni.

Abbiamo notato, in effetti, un certo andirivieni più intenso del solito, ma senza allarmarci eccessivamente; abbiamo viaggiato un po’ stretti ma niente più.

Poi, durante la festa il paese si ferma, come la bonaccia improvvisamente investe la superficie del mare al calare del vento. I negozi sono chiusi, i taxi non circolano, i dolmus dormono negli otogar. Ci dà questa informazione, come fosse un’inconfutabile rivelazione divina ma con un tono fra l’esterrefatto e l’incredulo per la nostra dabbenaggine, il proprietario dell’Akar Pansion di Ihlara, servendo un enorme vassoio fumante di saç tava: il giorno dopo non ci possiamo sicuramente muovere di lì. Il padre si affaccia dalla porta della cucina asciugando le mani nel grembiule, e annuisce gravemente, suggellando la profezia con un lampo degli occhi profondi, nascosti fra sopracciglia color neve sul volto asciugato dal sole.

Ma l’inconveniente sopraggiunto non ci farà modificare il nostro piano: il giorno dopo vogliamo essere a Göreme in Cappadocia, dopo aver percorso la Valle di Ihlara, e ci saremo. La camminata nella valle faceva già parte del programma. Vuol dire che invece di tornare a prendere gli zaini, ce li porteremo dietro, come le lumache portano il guscio. In fondo basta percorrere la valle per circa 14 chilometri per ritrovarsi a Selime, sulla strada per Aksaray, dove in qualche modo si dovrà pur fare.

IMG_8513_FotorLa Valle di Ihlara è già quasi Cappadocia, ma non ancora, incastonata e quasi nascosta com’è fra ripidi fianchi rocciosi, brulli e modellati dall’erosione, ma rasserenata dallo scorrere sul fondovalle del Melendiz Suyu, che crea una inaspettata oasi verde, distendendosi con le sue acque fresche e scintillanti, su cui si allungano come lunghissimi capelli ciuffi di alghe, danzanti nella corrente. La osserviamo dall’alto al calare del sole, mentre una mandria di vacche rosse e stanche, visione campestre di infinita malinconia, incrocia il nostro cammino, e ci sembra in fondo una cosa fattibile.

La mattina successiva, zaino in spalla, ci inoltriamo nella valle deserta. Come ci era capitato altrove l’anno precedente, si ripete l’incanto della biglietteria chiusa e sguarnita, i cancelli aperti, e con un misto di timore reverenziale e di incredulità iniziamo a scendere i ripidi gradini che conducono presto al sentiero di fondovalle, dove gorgoglia il fiume. Quella discesa conduce in una dimensione nuova, ammantata di silenzio austero e potente.

Chiese rupestriSui fianchi riarsi della montagna, apparentemente morbidi come nuvole di zucchero filato, fra i massi erratici che sembrano quasi compagni di viaggio, si aprono carichi di promesse gli ingressi delle chiese rupestri, dai nomi poetici ed evocativi, la Kokar Kilise, la Yilanli Kilise, la Sümbüllü Kilise: la Chiesa Profumata, la Chiesa del Serpente, la Chiesa dei Giacinti. Riecheggiano di storie perdute e incomprensibili, da inventare di nuovo, sempre diverse, una storia per ogni viaggiatore che vi giunga all’interno. Tutte ti accolgono con la stessa penombra lacerata da qualche polverosa striscia di sole, che appena lambisce gli affreschi dai vivaci contrasti.

Teorie di ieratici santi, dagli occhi vuoti e cancellati dalla parentesi iconoclasta, ma di cui si indovinano ancora i tratti volitivi segnati da pennellate compatte, si allineano sulle pareti silenziose, campite di tappeti geometrici che si distendono a coprire ogni angolo. Quella roccia che all’esterno, alla luce del sole, si modula semplicemente nelle tonalità dall’arancio al rosso al bruno, è che come se scavandola avesse liberato un mondo nuovo di colori e figure.Il fiume Melendiz SuyuQuesto silenzio surreale accompagna tutto il percorso: sembra uno di quei giorni in cui l’umanità si è nascosta e la natura è rimasta da sola. Di lontano, volteggia una piccola colonia di rapaci attraverso la stretta striscia di cielo racchiusa fra le cime delle colline. Sembra quasi sacrilego avventurarsi, e il viaggiatore si sente osservato.

Sulla sponda del fiume ci sediamo a consumare frutta secca e acqua prima di riprendere il cammino. I fianchi delle montagne si avvicinano, il fiume scivola in mezzo, basta continuare a seguirlo. Infine, nel pomeriggio ormai inoltrato, il respiro della valle si dilata e ci troviamo al termine del percorso, si scioglie l’incanto nelle voci delle persone che finalmente ricominciamo ad incontrare sul sentiero.

A Selime, come ci era stato predetto davvero non ci sono mezzi.

Per la prima – e unica – volta in Turchia, proviamo la sensazione, con i nostri zaini che denunciano chiaramente il nostro status di stranieri, di essere prede. Ci si avvicinano più persone, a turno, che offrono un passaggio in cambio di soldi, dicendo che tanto non troveremo un modo diverso per muoverci quel giorno. Quando cerchiamo un passaggio sui pulmini turistici, gli autisti ci mettono i bastoni fra le ruote e si rifiutano di farci salire, accampando problemi di assicurazioni e controlli, ridicoli per noi che abbiamo viaggiato seduti nei corridoi degli autobus e nei cofani posteriori dei taxi. Ma in effetti, camminando lungo la strada e provando ad alzare il pollice, la macchine che sfrecciano in direzione di Aksaray rispondono suonando il clacson, gli uomini alla guida alzano le spalle e allargano le braccia, tutte le vetture sono colme di nonni nipoti e animali domestici in corsa verso casa, verso la festa.
IMG_8517_FotorQuando ormai, passate alcune ore di inutile autostop, ci stiamo rassegnando, si fermano due ragazzi su una macchina rossa, musica a palla e finestrini completamente abbassati. Una cabrio, praticamente. Loro, vestiti di jeans attillati e camicie squillanti che dovrebbero essere alla moda, ma ti proiettano invece in una serie tv d’infima categoria. Ci fanno cenno di salire e partono lanciati come folli. Non parlano altra lingua eccetto la loro, non ci parlano ma non parlano nemmeno fra di loro.

Più volte, osservando le nude colline sfrecciare ai lati della macchina e a tratti il tachimetro che segna costante fra i 100 e i 120 km/h, mi chiedo se la mia vita non dovrà finire in un avventato sorpasso mediorientale. Ma poi questi enigmatici ragazzi ci porteranno davvero dove ci hanno detto che stanno andando? Non poter guardare in faccia due persone che ti portano in auto e non ti parlano ha un che di poco rassicurante. Gli incontri del pomeriggio hanno lasciato uno strascico amaro.

Arriviamo infine ad Aksaray, e la tensione inizia a sciogliersi quando di nuovo possiamo guardarli in viso: sorridono, rifiutano decisamente qualsiasi cosa per il passaggio, ripartono in una nube sonora che non si è mai interrotta, verso quel loro misterioso impegno che li ha condotti sulla nostra strada, e che resto con la curiosità di conoscere. Prendiamo l’ultimo autobus per Nevsehir, da dove si diparte la ragnatela dei percorsi della Cappodocia. Ci sediamo nell’ultimo sedile, stanchi e ancora silenziosi. Piano piano il dolmus si riempie.

Un ragazzino dal braccio ingessato e fermato al collo con un fazzoletto, poco dopo la partenza si alza dal suo posto a fianco della mamma e ci si siede accanto. Ci osserva, a lungo, incuriosito. Occhi scuri luccicanti come stelle sotto la frangetta nera. Infine rompe il silenzio, col suo coraggio di bambino. Parla per due ore, fa domande, ascolta attento le risposte perché vuole sapere molte cose, un dialogo in lingue eterogenee guidato dalla luce degli occhi.

Dire i numeri con le dita è la cosa più semplice del mondo, e se troviamo un argomento che contenga dei numeri si può parlare così per ore. Così ci dice quanti anni ha lui, otto, quanti ne hanno la mamma e le sorelle che viaggiano anche loro sull’autobus, quanti ne hanno tutte le persone che conosce. Si è rotto il braccio andando in bicicletta, anche questo è semplice da spiegare. Ma un’altra cosa facile da dire è il nome dei luoghi, e così dice i nomi dei paesi che attraversiamo, dei paesi che vediamo lontano sulle colline, di quelli a cui conducono le strade che incrociamo. È facile anche dire il nome delle persone, e quindi ci chiede il nostro, ci dice il suo, ci presenta tutti coloro che siedono nell’autobus, quando scendono e quando salgono.

Quando infine arriva alla sua fermata, scrivo sulla cartina, in corrispondenza del suo paese, Acigöl, un puntino vago sulle strade della Cappodocia, senza stelline a contrassegnare qualcosa di notevole da vedere, il suo nome. Mustafa. Allora davvero ci rilassiamo sui sedili, ci guardiamo e i nostri occhi sono bagnati di commozione: sottovoce, ci diciamo che tutti i momenti di quel giorno ci hanno portato lì, e gli occhi luminosi di Mustafa che saluta con la mano, incorniciato nel finestrino, hanno già cancellato le sensazioni spiacevoli delle ultime ore.IMG_8516_Fotor


La seconda volta era nel luglio 2014

La seconda volta – [Egirdir e Sagalassos, città antiche e moderne incastonate fra le vette]

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EgirdirArriviamo a Egirdir in un tramonto rarefatto, quando la montagna distende il suo vasto corpo stanco sull’acqua madreperlacea. Egirdir è uno smilzo funambolo sospeso sulla superficie senza onde, legato ancora alla sponda da un nastro sottilissimo ma ormai sul punto di sciogliersi per permettergli di iniziare il volteggio. È un fanciullo in calzamaglia verde che esegue il suo numero per la corte delle vette millenarie, su cui domina di lontano il turrito Davraz Daği.

Un paesaggio pacato, senza suono, senza eccessi, in cui l’apparente immobilità del quadro è il risultato di innumerevoli minutissimi moti: il granchio che si lascia lambire sulla battigia, la foglia che plana roteando senza peso, il sasso che canta sommesso quando il respiro del lago si ritira.

Forse ancor più della prima volta, questa seconda volta in Turchia non posso raggiungere una meta senza immaginarne infinite altre. Quante città perdute in mezzo a queste grandi montagne, quanti sentieri, quante gole ombrose e quante assolate pietraie. Come lo sguardo, volgendosi intorno ad interrogare il perimetro del lago, così anche il pensiero, instancabile, cerca di spingersi sempre oltre, come ad accarezzare almeno tutto ciò che non riesce a possedere. Ogni partenza non può essere che un arrivederci.

SagalassosDi città in città, da un otogar all’altro, si rivelano infiniti insondabili spazi inabitati, deserti, regno della capra e del rettile. Ma non si può escludere che un tempo questo paesaggio non fosse profondamente diverso. Ci sono città accuratamente nascoste sui fianchi delle montagne, dai nomi fantastici ad evocativi.

Su un altopiano dell’Ak Dağ, la Montagna Bianca, andiamo ad incontrare la pisidia Sagalassos, che forse già si cela dietro la Salawassos menzionata nelle tavolette ittite, più di tremila anni fa. Ad inafferrabile altezza, fra 1400 e 1700 metri sul livello del mare, i marmi bianchi distesi a scaldarsi fra gli arbusti spinosi rappresentano un immenso rompicapo archeologico. Ci saranno state risorse a giustificare la grandezza di questa città, ci saranno state strade e motivi per arrivarvi, per raggiungerla dopo un cammino certo faticoso: non solo la maestosa bellezza del luogo.

Bellezza, che parola abusata e logora. Ne detesto ormai il suono, trasformato in stolido vessillo promozionale, così facile e di sicuro effetto. Eppure sotto il bagliore accecante del sole è complicato trovare un altro termine che riassuma i contrasti violenti dei colori, la forza della roccia, la purezza dell’aria e l’enormità dell’abbraccio di cielo e terra in cui ci troviamo stretti.

Sacro. Forse, la parola sacro mi piace di più. In bilico con le spalle alla montagna e il volto esposto al vento che sale dalle gole montane, penso a Delfi, al respiro sotterraneo che emerge dal profondo. Penso alle incisioni rupestri che nella Valle delle Meraviglie, sulle Alpi Marittime, omaggiano il Monte Bego da tempi immemorabili. Penso alla danza dei dervisci, un palmo rivolto al cielo e uno alla terra. Anche Sagalassos in mezzo alle montagne potrebbe roteare così, selvaggia e primordiale.

Alessandro Magno e gli imperatori romani adornarono di merletti di marmo queste solitudini. Quando ripetute serie di terremoti ne ebbero ragione, nel VII secolo della nostra era, semplicemente la città fu abbandonata, senza rimpianti forse, lasciando indietro i complicati intrecci e i sapienti lavori di trapano e scalpello. Mentre altrove le città crescono una sull’altra, o servono da cava per gli insediamenti futuri, in Pisidia sotto la cupa vegetazione le colonne, gli architravi, i fregi scolpiti giacciono come castelli di carte atterrati per scherzo dal soffio di un bambino, che attendono solo, con altrettanta grazia, di essere risvegliati per nuovi giochi.

Ninfeo di SagalassosNinfeo di Sagalassos


La seconda volta era nel luglio 2014

La seconda volta – [@Istanbul]

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Istambul 3La seconda volta è necessario essere un po’ più coraggiosi, perché è difficile sottrarsi al timore che venga meno la magia e che il disincanto irrompa a colmare senza pietà la distanza fra realtà e immaginazione. La seconda volta, le cose hanno un aspetto usato o sono forse gli occhi ad esserlo, la stessa musica ormai muove pupazzi appesi agli specchietti retrovisori e il vento spira meno fresco nelle strade, senza sollevare polvere di aspettative.

La seconda volta è ancora una volta Ramazan fra i minareti pavesati di lumi della Moschea Blu e nelle aiuole dell’Ippodromo, ancora si stendono tappeti sull’erba e le nonne li cospargono di pomodori e trionfi di miele, ancora si attende a piedi nudi il tramonto riverberato dal canto mentre i gozleme già sfrigolano sulle piastre. Per un attimo il copione sembra già noto e consunto l’amalgama degli ingredienti. IstambulInizia così la seconda volta, nella sera calda di Istanbul. Quella pericolosa sensazione che il momento attuale non possa gareggiare con il ricordo e con l’ideale si infrange immediatamente. Questa volta la notte della città è già un po’ nostra: non ci spaventano la sua complessa topografia, né i suoni di una lingua così diversa dalla nostra. La consapevolezza che parleremo con tutti senza sapere più di dieci parole di turco ci regala una disinvoltura nuova: questa volta non stiamo ai margini della festa ma sappiamo che possiamo sedere nell’erba con gli altri e godere lo strano e poetico risveglio crepuscolare che sta per compiersi.

Afferriamo a casaccio da uno degli enormi vassoi che gli ambulanti, grondando sudore ma senza tradire fatica in volto, fanno volteggiare senza posa per l’Ippodromo, questo millenario cuore pulsante di Bisanzio, un qualcosa di commestibile ma incomprensibile nella sua essenza e nella sua modalità di consumazione. Siamo dunque sprovvisti di tutto, nel nostro stile più caratteristico, eccetto una bottiglietta d’acqua e queste strane polpette in cui si indovina la forma del pugno chiuso che le ha modellate – scopriremo più avanti in quante varianti possono declinarsi queste deliziose çig köfte, carne cruda bulgur e spezie, piccantissime da far venire le lacrime agli occhi: ecco perché la vaschetta si vende sempre accompagnata da foglie di lattuga. Le persone che si affollano attorno, riempiendo pian piano ogni angolo della stretta aiuola fra la Colonna Serpentina e il muro perimetrale della Moschea Blu, scrutano fra lo stupito e il divertito la nostra totale mancanza di organizzazione, e si danno un po’ di gomito fra loro.

È buffo essere così esotici e strani in Turchia. E così, con quel misterioso incantesimo che ci accompagna in questo paese e fa diventare ogni cosa semplice, la nostra mensa si arricchisce lentamente: qualcuno accanto sbuccia cetrioli in quantità per una famiglia numerosa, ed ecco che adesso ne possediamo un paio anche noi, qualcun altro ci posa davanti un piatto colmo di involtini di riso e foglie di vite, un ragazzino porta due bicchieri di aranciata, arrivano dolci, frutta secca e bicchieri di tè bollente, continuamente riempiti, per concludere degnamente la cena. Finché non decidiamo ad alzarci qualcuno continua a portarci qualcosa: almeno sappiamo dire grazie in turco! I giovani sono come sempre curiosi, ci chiedono da dove veniamo, vogliono raccontare se stessi e lo spirito del Ramazan, si parla a lungo in inglese della Turchia e di Istanbul; gli anziani guardano e sorridono con gli occhi, agitano sacchetti di plastica e fanno gesti che vogliono dire: prendeteli e sedetevici sopra, che diamine, l’umidità inizia a sentirsi sull’erba! Istambul 1Per fortuna, anche la seconda volta la magia è intatta.

Il giorno dopo, la luce galleggia acquosa nelle stanze senza finestre del Topkapi, silenziose e ovattate, penetrando in lame dal soffitto, trascorrendo e ondeggiando sulle pareti ricoperte di piastrelle colorate (aggiunte, tolte, sostituite chissà quante volte nei secoli, fino a che i disegni hanno cessato di incorniciare le porte e di dare un senso all’intrico decorativo). Deve esserci il mare, lassù in alto, e noi siamo negli abissi: non si spiega altrimenti il fresco che trasmettono i muri.

Ma soprattutto la città. Camminiamo, vaghiamo per ore senza cercare niente in particolare nelle stradine di Beyoğlu, fra la Torre di Galata, Istiklar Caddesi e il mare, profumo di panetterie e vecchi negozi di antiquariato pieni di cianfrusaglie, bambole e bauli, velocipedi e sciabole. Le lunghissime strade fra Sultanhamet e la Yenikapi sono un susseguirsi ininterrotto di enormi negozi che commercializzano sfarzosi e improbabili abiti da cerimonia in quantità che difficilmente possono trovare un mercato (quanti matrimoni, quante ricorrenze, quante festività devono esserci a Istanbul per giustificarli?), un enigma di difficile comprensione sovrastato dai clacson di onnipresenti ingorghi metropolitani, che si spengono di colpo nei vicoli dove i seminterrati odorano di pelle semilavorata.

Entriamo nelle moschee a tutte le ore per trovare il silenzio o il canto: nella Moschea Blu al mattino presto, nella Moschea di Beyazit sfuggendo al caos del Gran Bazar, nella Moschea di Solimano poco prima che inizi la preghiera e che l’immenso spazio orizzontale definito dalle basse orbite dei candelabri si riempia di gente. Poco prima di imbarcarci, allo scalo di Yenikapi, per Bursa, entriamo nella Küçük Aya Sofya Camii, la piccola Santa Sofia: piccolo gioiello del VI secolo voluto da Giustiniano e Teodora. Le colonne bizantine dai complicati capitelli a traforo, gli architravi in marmo che si incurvano a formare ampi golfi incorniciano le calligrafie cinquecentesche in azzurro e bianco. Non c’è nessuno in questo spazio che odora ancora un poco di polvere e di tappeti ma già respira di vento marino. Finché un gruppo di bambini e bambine irrompe nella moschea, i tappeti ospitano spericolate capriole, le nicchie si trasformano in nascondigli e le volte risuonano di grida e risate.
Istambul 7Istambul 8Istambul 9


La seconda volta era nel luglio 2014

Là dove il cerchio si chiude

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Istanbul 2All’arrivo, all’aeroporto Sabiha Gokcen di Istanbul, mi sembrò chiaro che non eravamo affatto preparati: non sapevamo nemmeno in che fuso orario ci trovavamo rispetto all’Italia. Beh, sì, avevo letto, ma distrattamente, i passaggi più importanti della guida Lonely Planet, almeno per quanto riguardava quelli che sarebbero stati i nostri primi momenti su suolo turco. Avevo quindi pressappoco in mente dove andare a prendere un mezzo pubblico per spostarci verso il Bosforo e l’otogar di Harem, da dove volevamo partire per Bergama, ma l’impatto linguistico fu straniante, e per un attimo pensai: non ce la possiamo fare. Ci siamo fatti trasportare dagli eventi, e abbiamo preso un mezzo del tutto sulla fiducia, seguendo le incomprensibili indicazioni del bigliettaio del chiosco davanti all’aeroporto. E invece superato quel primo impatto, e preso quel primo autobus per Kadiköy, ogni cosa avrebbe preso il verso giusto. Leggi il resto di questa voce

Turchia on the road 10 (congedo)

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Siamo giunti al termine di questa avventura, e ci congediamo dalla Licia trascorrendo una giornata a Phaselis, una di quelle giornate folgoranti, con il cielo di un azzurro intenso e il mare liscio e pacificato come mai ci è apparso nelle settimane precedenti. Phaselis è un antico porto, sviluppato su tre insenature naturali che dovevano fornire un approdo sicuro e anche piacevole, direi! Le rovine di edifici, banchine, strade e acquedotti sono disseminate in mezzo ad un bosco di pini, dal verde brillante, che diffondono un aromatico profumo.

Le scale degli approdi affondano pigramente nell’acqua vitrea, e ci lasciamo contagiare dal ritmo e dal fluire delle onde. Basta non affacciarsi alla prima delle tre baie, che lì ci sta la masnada furente vomitata da barconi pesantemente kitch, inspiegabilmente propensa a non allontanarsi in cerca di un po’ di pace. Ma noi siamo davvero stanchi, dopo quasi due settimane di galoppate, e quindi per questa volta diamo solo un’occhiata superficiale al sito invece di schiacciarci quelle quattro-cinque ore come siamo soliti fare, e ci concediamo qualche ora di relax sulla spiaggia.

Phaselis (1) Phaselis (3)Che poi è il caso di dirlo, il sito arriva direttamente sulla spiaggia, dove si affacciano mausolei e sarcofagi, esposti dalle mareggiate in un perfetto esempio didattico di stratigrafia archeologica che ci si potrebbe fare il matrix in un nanosecondo. Un ultimo sarcofago giace sul fondo marino, a pochi metri di distanza dalla battigia. Immagino un paradiso degli archeologi che prendono allegramente il sole compilando schede US e scavano con la trowel stando comodamente sdraiati sull’asciugamano…
Phaselis (1) Phaselis (2)Poco dopo, avremmo preso un dolmus per Antalya, e da lì saremmo tornati a Istambul. Al termine del viaggio, abbiamo calcolato che in tutto abbiamo percorso più di 2000 chilometri, ripartiti fra 3 traghetti, 6 autobus urbani e 4 extraurbani, 3 tram, 39 dolmus, 7 passaggi in auto, 4 tratte in bicicletta e innumerevoli chilometri a piedi…

Ma non mi sento sazio di questo paese, e per il prossimo anno mi scopro già a sognare l’Anatolia centrale e la Cappadocia, il Mar Nero e il Lago di Van, il Nemrut Dag e l’Ararat. E anche per la Licia, non mi sento di dirle addio ma solo arrivederci…

Turchia on the road 9 (dall’acquoreo mondo di Olympos al fuoco di Chimera)

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A giudicare dalla descrizione della guida, Olympos era uno di quei luoghi da non perdere, ma in verità devo dire che non mi attirava davvero, e di certo non mi attiravano le famose case sull’albero, che mi puzzavano clamorosamente di acchiappabischeri (detto in gergo tecnico). Ovvero della solita roba che attira gente giusto perchè “non puoi non andarci”, e ti ritrovi in men che non si dica in una mandria amorfa guidata dopo vogliono altri. Sarò prevenuto, lo so, ma quando ciò che è spontaneo viene cristallizato nel must, sento sempre puzza di bruciato.

E così traccheggiavo, nel decidere una delle ultime tappe del viaggio, senza sapere il da farsi.Olympos (2) (Medium)

Ma quello che ci ha convinti ad andare davvero ad Olympos è stato come sempre l’improvviso e l’imprevisto. Ad Ucagiz il nostro solerte albergatore ha sostanzialmente deciso che avremmo dovuto lasciare il paese (una sorta di isola spazio-temporale collegata solo due volte al giorno con il mondo reale) non tramite autostop come noi insistevamo a voler fare, ma insieme ad un trio di altri ospiti, automunito e composto da un italiano, una belga ed una francese (e non è l’incipit di una delle solite barzellette anni ’80). E insomma tanto ha fatto e tanto ha brigato che alla fine Stefano ci ha invitati a salire con loro: pensavamo che ci avrebbero accompagnato fino alla statale e invece il viaggio si è prolungato fino ad Olympos, ed è stato davvero piacevole. Stefano ci ha descritto in toni entusiastici Olympos, ed essendo un antichista ci siamo fidati.

E quindi, un ayran e un caffè turco dopo (ma ve l’ho detto cos’è l’ayran? noooo?! incredibile), ci siamo trovati coi nostri zaini alle soglie di Olympos, che abbiamo raggiunto con il solito dolmus, dribblando l’immenso campeggio di case sull’albero e guadagnando con sollievo il sito archeologico. Abbiamo deciso di tentare l’impresa, e di raggiungere la tappa successiva, Cyrali, passando dalla spiaggia e non tornando sulla statale e poi ridiscendendo nella valla successiva. Zaino in spalla dunque!

E sì: Olympos è proprio bella, è un mondo acquoreo e silvano, in cui il mistero delle architetture antiche, divorate dagli alberi e circondate da innumerevoli rivoli di acqua cristallina, rimane pressochè imponderabile. Il fiume attraversa il sito in tutta la sua lunghezza, e per compiere la visita è necessario guadarlo più volte, fra la morbidezza delle alghe e la compagnia dei girini e dei granchi, mentre finestre cieche da secoli ti scrutano sulle rive, rinfrescate dalla vicinanza dell’acqua.

In mezzo alle foglie, ci sono cartelli redatti forse in un tempo in cui si pensava di strappare alla natura questo luogo, e che indicano ottimisticamente le terme, il teatro, le diverse necropoli. Ma il muro di foglie sembra impenetrabile. Se decidi di perderti un po’ nel labirinto, troverai lacerti di muri di epoche diverse, sarcofagi divelti dalle radici, e la cavea del teatro dove solo gli arbusti attendono forse che la rappresentazione abbia inizio.

Il senso sfugge tuttavia. Perchè anche se il cartello ti dice che ti trovi nelle terme romane, non c’è niente che confermi davvero questa informazione, e Olympos sembra un’immensa metafora della nostra conoscenza dell’antichità: che se una radura permette di vedere un incerto muro, tutto il resto rimane sepolto fra i tronchi. E pensi a tutto ciò che non sapremo mai, di questi mondi che pure ci sembra di conoscere tanto bene, ed in effetti conosciamo bene, a confronto di tanti altri: i canti, le decorazioni delle stoffe, le bisacce di pelle e i mestoli di legno.Olympos (3) (Medium) Olympos (4) (Medium)

La gente, per lo più, utilizza il percorso del fiume per arrivare alla spiaggia, e pochi avvertono il richiamo e si perdono nel bosco. Eppure, basta seguire i mille ruscelli che lo percorrono, non c’è rischio di perdersi. Abbiamo appoggiato i nostri zaini contro un tronco, abbiamo immerso i piedi nell’acqua fredda e limpidissima, accanto al muro di un recinto funerario, osservando nello specchio ondulato la traiettoria di una libellula di un incredibile colore viola.

Ecco, la luce dorata che si sprigionava fra il verde delle foglie e l’azzurro dell’acqua, e il sapore del gozleme che un’anziana signora ci aveva fatto alla fermata del dolmus e che abbiamo assaporato in quell’improvvisato bivacco, fanno parte dei ricordi indimenticabili di questo viaggio. Insieme alla sensazione di poter fare tutto. Eravamo liberi, la nostra casa sulle spalle come le lumache, le nostre provviste nella borsa, i nostri piedi a portarci dove volevamo: potevamo tornare indietro, andare avanti, fermarci per un tuffo in mare, non aveva importanza quanti chilometri avevamo già percorso quel giorno, e quelli che ancora ci aspettavano prima della fine della giornata.Olympos (1) Olympos (2)

Perchè la giornata era ancora lunga, e ci avrebbe portato dalle acque di Olympos ai fuochi di Chimera. Attraverso la lunga spiaggia che le collega abbiamo raggiunto Cyrali, per poi proseguire in un percorso infinito in mezzo ai campi, mangiando fichi colti dagli alberi e uva semiselvatica scovata in mezzo ai rovi, fino alla nostra pensione.

L’ascesa alla Chimera avviene di notte, quando il fenomeno dei fuochi che scaturiscono dalla terra è osservabile con maggiore facilità. Io non ho capito come avviene, che cosa avviene di preciso e perchè. Però il monte emette lingue di fuoco, in un luogo alieno che è terra di nessuno: un’arida spianata sotto la luna, circondata da ulivi, che lascia poi spazio ad un ripido pendio digradante in mezzo ai pini profumati fino al mare. Ci sediamo accanto ad un fuoco, ne osserviamo la danza. Possiamo fare tutto.Chimera