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In cammino, 4. Da Uterga a Estella

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01.07.2016

In pochi si fermano a Uterga, un pugno di case senza pregio perse fra i campi, in mezzo alle ben più attraenti Pamplona e Puente la Reina. Così, l’alba ti raggiunge sul cammino in una solitudine completa, come un compagno di viaggio che silenziosamente si avvicina alle spalle per poi sorridere nell’affiancarti.

Mettersi in cammino quando ancora è buio e le frecce gialle, per quanto frequenti, si vedono appena, non è una cosa che piace a tutti. Si corre il rischio di perdere la strada, la si perde in effetti, ma si capisce poi l’errore, e la si ritrova. Anche questo è il bello di non avere nessun impegno da rispettare, nessuna tabella prestabilita, nessuna prenotazione.

Si deve partire senza colazione, perché i negozi e i bar sono ancora chiusi, oppure si mangia un qualcosa di improbabile scovato in una tasca dello zaino, sui gradini dell’ostello o su una panca davanti a una chiesa. Avvolto nel buio, nell’aria fredda, il paesaggio è fitto di mistero. Capisco che non piaccia a tutti andare senza sapere cosa c’è attorno, nel silenzio della natura al termine della notte. Ma per me, quel momento incredibile in cui il vento si alza lieve ad annunciare l’inizio del giorno e le stelle appassiscono controvoglia mentre il cielo si tinge di rosa, è un dono che ogni volta mi scuote nel profondo delle fibre e mi lascia lì, a piangere sul sentiero in mezzo al palpito dei campi, finché le ombre non hanno smesso di danzare fra i cespugli. Per vivere quel momento perdo il sonno ogni notte.

Decidiamo di compiere una non breve deviazione nel mare di spighe per raggiungere la romanica ermita di Nuestra Señora di Eunate, di fondazione templare, con il suo portico ottagonale abitato di facce che si nascondono giocosamente fra i capitelli. Percorriamo quindi pochi chilometri del Cammino aragonese, che attraversa i Pirenei al Passo di Somport ed era storicamente il più percorso dai pellegrini italiani provenienti da Ventimiglia attraverso Arles e Tolosa, per ritrovare il Cammino francese a Puente la Reina: y desde aquí todos los Caminos a Santiago se hacen uno solo. Qui la rete di vie che innervava l’Europa del Medioevo, proveniente dalla Francia, dall’Italia, dall’Impero Germanico, dalla Polonia e da paesi ancora più lontani converge in un unico grande fiume che scorre placido fino all’Oceano.

Attraversiamo con religioso rispetto il ponte sull’Arga, considerato una delle architetture civili romaniche più belle del cammino francese, con i suoi archi a tutto sesto e gli archetti che alleggeriscono il peso della struttura e offrono una via ulteriore alle acque in caso di piena. La leggenda vuole che un uccellino si prendesse cura di un’immagine della Virgen del Puy detta anche del Txori (uccellino, in basco) che si trovava in una torre costruita in mezzo al ponte, rinfrescandole il volto con le ali bagnate dell’acqua dell’Arga.

Ci allontaniamo con in mente questa delicata immagine, per affrontare un interminabile saliscendi che conduce a Estella, sotto un sole che ha perso lo sguardo benigno del mattino. Il Cammino jacobeo si sovrappone per alcuni tratti ad una via romana secondaria che da Pompaelo scendeva verso l’Ebro, e camminiamo per la prima volta sui basoli ancora segnati dal passaggio del carri, in questo lembo di terra in cui a lungo la resistenza dei Celtiberi si oppose all’avanzata romana. Ancora nel 50 a.C., fra le Asturie e la Cantabria c’era chi non si rassegnava al corso della storia.

Gli ultimi chilometri a Estella sono un ricordo confuso di sentieri eternamente in salita e caldo ormai insopportabile.

All’ingresso in città, poco dopo la chiesa gotica del Santo Sepolcro, una vecchia porta in legno testimonia il passaggio indifferente dei secoli nella costellazione simbolica delle sue borchie di ferro: le stelle, richiamo alla Via Lattea che di notte sembra una perfetta proiezione in cielo del Cammino nel suo svolgersi da Est a Ovest, e la conchiglia di San Giacomo, quel segno confortante che incontriamo così spesso, ancora più delle moderne frecce gialle. Undici raggi che convergono verso un centro, Santiago e la tomba dell’Apostolo.

Il centro? La meta? O forse, più semplicemente, quel luogo, qualsiasi esso sia, in cui lasciare che le cose ci conducano dove dobbiamo arrivare?

 

In cammino, 2. Da Roncisvalle a Larrasoaña

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29.06.2016

Al risveglio, un mattino plumbeo avvolge la Collegiata di Roncisvalle, ieri così gialla e verde e accogliente, di una spessa nebbia che sa quasi di Transilvania e sgocciola dai tetti sul selciato, stilla sul nostro misero bucato lasciato all’aperto durante la notte, rotola sulle foglie dei boschi cupi, tutt’intorno. La natura sembra stringerci sotto assedio. Colazione a base di caffè, pane con marmellata e Ibuprofene, fidato compagno dei giorni a venire.

Ci addentriamo sotto le volte degli alberi, sul terreno morbido di foglie che accoglie gentilmente i nostri passi. Eppure, bastano pochi minuti e fa allegria anche il volto bagnato di una pioggia che non è pioggia, i colori brillanti degli impermeabili e il fresco inatteso sulla pelle.

Appena fuori Roncisvalle, il cartello indica la distanza che ci separa da Santiago: so che non ci arriverò, almeno non quest’anno.

Con l’arrivo del sole, la nebbia si dissolve per lasciare posto ad un sole magnifico che accende il verde dei boschi di roveri, abeti e pini. Possiamo appuntare finalmente il bucato allo zaino, irriverente vessillo, per rimediare all’imprudenza della sera precedente. Procediamo velocemente, il cammino si dispiega seguendo i dolci pendii della fascia pedemontana dei Pirenei, attraversa pascoli e prati, piccoli paesi in cui per un attimo sembra di ritrovarsi in altre epoche. Per l’ora di pranzo siamo a Zubiri, che la guida indica come meta della seconda tappa, attraversiamo il ponte sulle acque cristalline dell’Arga, gironzoliamo ma alla fine decidiamo di continuare ancora.

Quelle ore fra le radici dei monti, nei boschi, ti proiettano in un tempo senza fine, che si dilata e ti avvolge, rompendo infine i legami e i meccanismi delle abitudini.

La strada è ben segnata e non è mai un pensiero. Tutto quello che devi fare è portare un piedi innanzi all’altro. Realizzi che sarà così per le prossime due settimane, e già ti sembra di non aver fatto altro per tutta la vita. In tanti, al ritorno, mi hanno chiesto cosa pensassi in quelle sei, sette, otto ore di cammino al giorno. Niente. Non pensavo a niente. Osservi le file di formiche che incrociano il sentiero e inizi a saltarle per non calpestarle. Il momento mattutino in cui si aprono i fiordalisi. La sospensione dei suoni del mezzogiorno e la brezza che si alza più tardi, alla sera. Il tuo tempo si riduce alla distanza che intercorre fra il tuo petto e l’orizzonte visibile. Tutto ciò che è appena dietro le spalle, è già andato. Se lasci il bastone accanto ad una fontanella, dopo aver bevuto, e te ne accorgi dopo chilometri, è andato. Non lo tornerai più a prendere. Forse lo rivedrai fra le mani di qualcun altro. E cosa c’è davanti, oltre la curva, oltre il pendio, oltre il paese? Non importa. Tutto ciò che non vedi non esiste ancora. Questa dimensione preziosa del qui ed ora è forse il dono più bello del Cammino. La pienezza dell’istante presente, in cui hai a disposizione tutto ciò che ti serve: le tue gambe che ti portano avanti, il tuo respiro che è il ponte con te stesso, e la loro unione che dà vita al ritmo in cui la mente, come cullata, si acquieta.

Si dice che sul Cammino non si è mai soli: è vero. Io e Laura ci separiamo presto, perché io vado veloce, divoro la strada spinta da una forza che è come un fiume in piena, che non posso fermare, che durante la notte mi toglie il sonno dal desiderio di andare avanti. E così, naturalmente ci lasciamo e ci ritroviamo durante la giornata, con l’accordo di aspettarci per la notte. Eppure trovi sempre qualcuno con cui condividere un tratto di strada, parlando, oppure no.

Ma quei momenti, quei momenti in cui ti trovi solo sul sentiero, il sole dietro alle spalle o davanti agli occhi ad indicarti la via, in mezzo all’enorme flusso di energia che scorre da est a ovest, accumulata dal passaggio incessante, per secoli, di pellegrini, re e penitenti, ricchi e pezzenti, uomini e donne, sono momenti di grazia assoluta. L’odore di sole sulla pelle. Gambe e polmoni, e poco più: due cambi di vestiario, un sacco a pelo, un asciugamano, spazzolino e dentifricio, saponetta. La vita è così incredibilmente semplice.