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16_John Steinbeck, “La perla” – ovvero la perdita dell’innocenza

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Steinbeck, la perlaLa canzone della famiglia, sprigionata dal paziente lavoro domestico di Juana e dal giocoso vagito di Coyotito, accompagna con la sua melodia dolce ma potente il risveglio di Kino, un giovane e poverissimo pescatore di perle del Golfo di La Paz, in Messico. Il confortevole dispiegarsi di un rituale sempre identico a se stesso, gli occhi di Juana aperti sul cuscino, la focaccia calda, l’apparire del sole fra le onde. Un equilibrio apparentemente immutabile.

Eppure, la spietata violenza del destino irrompe incarnandosi nell’ingannevole bellezza di una enorme, unica meravigliosa perla che Kino trova sul fondo del mare. La canzone della perla ammalia il cuore con la sua promessa di un riscatto sociale mai prima immaginato e che prende forma in desideri quasi mostruosi nella loro grandezza: Kino crede di vedere nell’opalescente superficie della perla un futuro diverso. Vestiti nuovi per sé e Juana, scarpe chiuse per il giorno del matrimonio, un fucile, ma soprattutto, soprattutto la scuola per Coyotito. Coyotito saprà leggere e scrivere, conoscerà, non sarà un oppresso.

La canzone della perla porta inesorabilmente con sé la canzone del nemico: perché la voce si diffonde prima ancora che Kino riesca a decidere in che modo trasformare il sogno in realtà. Intorno alla perla si scatena l’ingordigia e l’avidità degli uomini della città, quelli che hanno già tutto ma vogliono ancora di più. Kino è costretto a combattere, non appena cade la notte, contro coloro che desiderano possedere la perla. Uccide. L’unica via di scampo è la fuga, verso un’altra città dove vendere la perla e trasformarne la canzone nel tintinnio del denaro.

Ma da questo viaggio non si torna vincitori. Lo capisce sin da subito Juana, che tenta invano di sfuggire al maleficio rigettando la perla in mare: Kino è avvinto della vastità dei suoi sogni e non accetta di abbandonarli. Kino e Juana riappariranno nel villaggio dopo appena un giorno di fuga disperata, braccati dai segugi sulle tracce della perla. La piccola famiglia è distrutta per sempre nel bene più prezioso, quell’amore apparentemente banale dal profumo di focaccia, in potente equilibrio con l’universo.

Musiche primordiali si intrecciano in questo brevissimo e intenso romanzo, così scarno ed essenziale nella forma quanto magicamente evocativo. Non servono quasi le parole per disegnare paesaggi, personaggi ed emozioni, basta l’evocazione della musica per dischiudere la porta di un mondo e insieme distruggerlo.

14_Aldo Palazzeschi, “Sorelle Materassi”

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Sorelle MaterassiSanta Maria a Coverciano, 1918.

Firenze è lontana, non lambisce ancora con la sua espansione edilizia il paese sonnolento ai piedi di Settignano, fra l’Affrico e il Mensola. Nel loro appartatissimo nido, Teresa e Caterina Materassi conducono un’esistenza monotona fatta di ferrea disciplina e duro lavoro. Cucitrici in bianco e ricamatrici, le due sorelle sono riuscite a riscattare gli sperperi e le dissolutezza del padre, e a conquistare un posto rispettabile nella società: davanti al loro cancello stazionano ad ogni ora del giorno le auto delle signore del bel mondo, contesse marchese ereditiere, che si contendono le meraviglie di seta e taffettà che escono dalle loro mani.

Il prezzo da pagare è tuttavia la vita stessa, che hanno completamente sacrificato alla missione che si sono prefisse. Nel loro laboratorio esse sono altere regine, ma del mondo reale sono completamente estranee, cullate dalle loro ridicole ma commoventi fantasie di esperienze non vissute, di incontri mai avvenuti, di uomini inesistenti che non le hanno amate.

Il tranquillo scorrere della loro esistenza sempre uguale, cadenzata dal rumore del telaio, è interrotto soltanto in occasioni precise e strettamente codificate: la domenica pomeriggio, quando osservano il riposo per mezza giornata, che passano ad addobbarsi riesumando da vecchi armadi e cassettoni vestiti delle nonne e lustrini ormai irrimediabilmente fuori moda, la vendemmia, quando sono di malavoglia costrette a presiedere al rito collettivo del taglio dell’uva nel loro terreno, e per la festa di San Francesco a Fiesole.

La morte improvvisa della sorella Augusta, trasferitasi da giovane con il marito ad Ancora, dove conduce ora una squallida esistenza di vedova, fa piombare come un fulmine nella loro vita il nipote quattordicenne, Remo.

Fin dal primo ingresso di Remo nella storia, una sottile inquietudine si distende nell’incolore vita agreste sin a quel momento descritta nel romanzo.

Il ragazzo compare in piedi in mezzo alla camera della madre morente. Non piange. Non piangerà mai. Osserva. Spettatore impassibile in attesa di iniziare ad agire nel percorso della vita. Basta questo per indurre nel lettore un senso di pericolo imminente che non lo abbandonerà più.

Le zie pure fiutano il pericolo, ma il bellissimo giovinetto che porta la luce e la pienezza della vita nella loro casa le strega, le ammalia, le riduce in catene, succubi alla sua volontà. Irradia un fascino a cui quasi nessuno può sottrarsi: la vecchia Niobe, serva delle zie, è una delle prime vittime, ma ne seguono schiere innumerevoli, uomini e donne sembrano gareggiare per conquistare la sua amicizia, la sua considerazione, il suo amore. Ma amore Remo non ne prova, procede semplicemente e ineluttabilmente nel cammino che ha scelto: la vita è semplice è il suo motto, apparentemente innocuo, e senz’altro il denaro delle zie gli apre possibilità che, povero orfano, non aveva neppure immaginato.Remo

Quell’inquietudine, quel senso di pericolo imminente che Palazzeschi insinua nel lettore all’apparire di Remo piano piano si accresce, gonfia, dilaga: perché crescendo, il giovane alza sempre più la mira, le sue marachelle adolescenziali diventano presto veri peccati, bramosia di denaro, raggiri, mefistofeliche macchinazioni.

Remo, dietro la bella fronte, i capelli ondulati, la bocca perfetta in cui splendono i denti bianchi come un lampo di luce paradisiaca, è un demonio privo di sentimenti, di rimorso, di pudore. Le zie, le trascina nella rovina: i suoi piccoli debiti diventano progressivamente salati conti da pagare, spese che infine divengono insostenibili, in un crescendo teso e inesorabile. Quando i soldi non bastano più, le case e le terre vanno ipotecate.

Sola voce contraria, Giselda, la quarta sorella: Remo non la incanterà mai, lei che un matrimonio sbagliato ha gettato in una prigione di odio e risentimento verso tutti ma soprattutto verso i maschi. Remo non la incanta, ma sa volgere a proprio favore anche la sua ostilità, perché Teresa e Carolina in odio alla sorella sembrano impuntarsi a fare tutto il contrario di quello che consiglia.

Eppure, anche nel momento della rovina finale, non smettono di amarlo mai, nonostante tutto il male che sa procurare loro con un’indifferenza assoluta per i loro sentimenti. Venite a vedere le mie scimmie ammaestrate dice agli amici quando li invita a Coverciano a casa delle zie.

Bellissimo, non è una lettura indolore, Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi. Tutta l’amara ironia che può riservare la vita si rivela dietro il paravento di una scrittura piana, oggettuale, senza inutili voli, dietro una vicenda apparentemente banale nella Firenze di inizio Novecento. Ti avvinghia alle pagine, ti costringe a divorarle una dopo l’altra, in attesa dell’inevitabile crollo, che già si scorge all’orizzonte dopo il secondo capitolo, ma quando? Dopo quante umiliazioni, dopo quale altro durissimo colpo?SORELLE MATERASSI

10_Italo Calvino, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”

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Italo Calvino - Se una notte d'inverno un viaggiatoreI regionali che partono da Roma Termini in direzione di Albano, Velletri e Frosinone sono caldi in inverno come in estate; sono rumorosi, affollati, stanchi crocevia di esistenze. Anche quando, salendovi, sembrano vuoti, inesorabilmente si riempiranno prima della partenza, costringendo i viaggiatori a una forzata convivenza in cui telefonate, litigi, odori, valige ingombranti, cani e gomiti si intrecciano senza pietà, fino alla prossima stazione (forse questo che ho accanto adesso scende), fino alla propria destinazione. Un mosaico le cui tessere, ogni giorno, sempre si scompongono, e sempre si ricompongono a formare un quadro di insindacabile omogeneità. Quante volte ho preso questi treni? Non lo ricordo. Un fluire di oscillazioni fra due stazioni, il treno appeso alla fuga prospettica dei fili elettrificati, sempre uguali a sé stesse.

Un giorno, scorgo in questa sconcertante uniformità spazio-temporale un elemento estraneo, difforme e sospetto. Sopra la rastrelliera, sospeso sopra la mia testa, un lungo tubo di fogli di giornale arrotolati in sezioni di diametro differente (crescenti o decrescenti secondo il punto di vista) e incastrate le une nelle altre: una sorta di cannocchiale cieco. I pendolari che salgono nella vettura vi lasciano scivolare sopra uno sguardo atono e disattento: ma che cosa è questo oggetto, che significa, perché è qui e a che cosa serve? La sua confusa policromia contrasta con le livree tutte uguali delle poltrone, delle tendine, delle pareti grigie del vagone; continuo a fissarla, con il naso rivolto all’insù. Il signore che si accascia nella poltrona di fronte a me segue il mio sguardo e dice: “Ah, quello. C’è un senza tetto alla stazione di Termini che fa questi cosi”. Mi chiedo come questa spiegazione possa essere definitiva come il tono dell’uomo lascia presupporre, visto che per quanto mi riguarda il mistero si infittisce e apre infinite possibilità parallele. Immagino innumerevoli cannocchiali colorati di fogli di giornale, in viaggio sulle linee ferroviarie che si diramano da Roma Termini e innervano tutta la penisola. Raggiungono stazioni sperdute nell’indifferenza generale, finiscono nella spazzatura quando vengono intercettati dagli addetti alle pulizie, solo in rari casi riescono a scendere dal treno e a muovere qualche passo nel mondo reale. Da qualche parte, c’è un uomo invisibile che arrotola fogli di giornale, raggiungendo con paziente perizia una sempre maggiore perfezione del risultato, e invia questo messaggio senza senso in giro per l’Italia. Il treno rallenta alla stazione di Ciampino, mi alzo con fare indifferente. Raccolgo i miei bagagli, afferro il caleidoscopio colorato e scendo dal treno.

Ho ripensato a quel giorno quasi dimenticato, alla sensazione di perdita di senso e allo stesso tempo di una necessaria esistenza di un senso nascosto e inaccessibile nelle pieghe del reale, leggendo (o meglio, rileggendo adesso) Se una notte d’inverno un viaggiatore, ritrovando nell’accumularsi di storie che non verranno poi sviluppate, ma resteranno sospese e senza scioglimento per motivazioni differenti, il clima sospeso di quella giornata, il vorticare di possibili spiegazioni, tutte paradossali, per la presenza di quello strano e incoerente oggetto nel vagone di un treno, la cui evidente inutilità contrastava con l’altrettanto evidente attenzione che era stata posta nella sua realizzazione. Ma perché tutto deve avere un senso?
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8_Fred Vargas, “Tempi glaciali”

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Fred Vargas_Tempi glacialiRischio spoileraggio elevatissimo, e trattandosi di un giallo no, non si fa… Provo a camminare sul filo del rasoio dunque!

Sono un’appassionata lettrice di Fred Vargas, di cui ho divorato prima la trilogia dei Tre Evangelisti e poi tutti i volumi che hanno per protagonista il commissario Jean-Baptiste Adamsberg. Gli Evangelisti mi hanno incuriosita dapprima per motivi squisitamente “professionali”, visto che i tre improvvisati detective così soprannominati sono un archeologo specialista di Preistoria, un medievista e uno storico della Prima guerra mondiale, tutti e tre alle prese con il precariato e l’assenza di sbocchi nel loro campo di ricerca. I tre romanzi mi hanno divertita tantissimo, sicuramente perché nelle piccole manie e follie dei personaggi ho rivisto tante delle fissazioni e dei modi di affrontare la realtà tipici degli archeologi e che ben conosco (tipo, per quanto mi riguarda, un gelato non è mai un semplice gelato ma un susseguirsi di strati di colore, consistenza e composizione diverse che è necessario consumare in rigoroso ordine inverso di deposizione nella coppetta, distinguendoli e senza mescolare o sottoscavare…), mentre nel loro cameratismo ho rivissuto l’atmosfera degli scavi, dove la convivenza forzata in luoghi scomodi e per lo più abbandonati se non da Dio sicuramente dagli uomini col tempo crea e poi consolida amicizie e complicità che spesso sono condivisione di pensieri prima ancora della loro formulazione. Ma non è solo questo: la prosa di Fred Vargas è brillante, ironica e avvincente, e gli intrecci ricchi di trovate geniali e difficilmente scontate.

Confesso che quando sono passata ad Adamsberg ho rimpianto un poco i giovani ricercatori un po’ svitati, ma poi sono stata conquistata anche dallo “spalatore di nuvole”. Gli ultimi romanzi mi avevano un po’ delusa, e quindi ho affrontato Tempi glaciali con un po’ di diffidenza, che però è presto svanita, insieme al libro che è finito in tre giorni: una cavalcata fra i ghiacci perenni dell’Islanda e gli spettri della Rivoluzione francese (cosa c’entrano fra loro? eh leggete per capire!) che lascia davvero senza fiato. Adesso ho davvero voglia di leggere una biografia di Robespierre!

6_Edward M. Forster, “Camera con vista”

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Firenze, inizi del Novecento. Nelle stanze della Pensione Bertolini il caso raduna un gruppo di viaggiatori britannici assai diversi gli uni dagli altri per età e condizione sociale. La giovane Lucy viaggia per la prima volta fuori dal suo paese, accompagnata dalla cugina Charlotte; al loro arrivo scoprono che le stanze che avevano chiesto, quelle con vista sull’Arno, sono state assegnate ad altri turisti. Questo banale incidente crea il presupposto per una grottesca rappresentazione delle norme sociali che regolano i rapporti fra le persone: gli Emerson, un anziano signore e il figlio George, propongono uno scambio di stanze che lascerebbe alle due signore le camere migliori. La generosa offerta, ritenuta contraria alla buona educazione, viene accolta con un imbarazzato diniego, segue un’estenuante e affettata schermaglia, al termine della quale Lucy e la cugina prendono possesso delle camere, senza che nessuno ne tragga piacere, poiché gli Emerson ne escono umiliati e come se l’accettazione della loro proposta costituisse un gesto di condiscendenza nei loro confronti, mentre le due donne continuano a provare insieme senso di colpa e offesa.  

L’episodio definisce fin da subito i due poli fra cui si dibatteranno tutti i personaggi del romanzo: spontaneità e convenzione, libertà e rispetto delle regole, natura e cultura, alcuni soggiacendo consapevolmente o inconsapevolmente al polo negativo, altri in lotta con esso, altri nella ricerca di un impossibile compromesso. La “camera” è la gabbia in cui ci spingono le norme che siamo abituati a rispettare, mentre la “vista” indica un mondo più ampio cui è possibile affidarsi e in cui è possibile proiettare il proprio destino.

Gli Emerson sembrano vivere una loro dimensione libera dalle norme sociali, ma senza goderne la felicità: su di loro aleggia continuamente il giudizio degli altri, che li trovano sempre fuori luogo, sopra le righe, ignoranti e fastidiosi. Ogni loro tentativo di comunicazione si infrange in una commedia del ridicolo. Lucy avverte la distanza che la separa da questi spiazzanti compagni di viaggio con un imbarazzo misto a curiosità: non può fare a meno di restarne in qualche modo affascinata. Finché, durante una luminosa passeggiata sulle colline di Fiesole, George Emerson la bacia, in un lampo di sole vento e fiori di campo. La ridda di emozioni, turbamenti, sensi di colpa culmina in una improvvisa fuga delle due donne a Roma. I due si incontreranno nuovamente in Inghilterra, quando Lucy ha già accettato di sposare un altro uomo. Posta davanti alla realtà, ella comprende di non amarlo, e deciderà di rompere il fidanzamento per inseguire la vera felicità.

Non so celare il mio disappunto verso questo romanzo, ricco di spunti narrativi interessanti (fra tutti, il bagno liberatorio di George e di Freddy nel laghetto della foresta) e di contrasti concettuali carichi di significato ma risolti tuttavia in modo sbrigativo e banalizzante. Il senso di fastidio maggiore è dato dalla descrizione dell’Italia e degli Italiani costantemente mantenuta su un taglio etnoantropologico da spedizione coloniale, senza risparmio di luoghi comuni triti e disprezzabili, dalla truffaldina proprietaria della pensione al vetturino lussurioso e infido, al venditore di fotografie che inscena una miserabile tragedia da quattro soldi per ottenere un rimborso. Non c’è un briciolo di verità e di spessore in questa Firenze di inizio secolo vista attraverso la lente degli stereotipi e non senza un malcelato senso di superiorità. Lo stesso taglio si percepisce nelle pagine introspettive dedicate al personaggio principale, Lucy, basate su una visione maschilista e convenzionale del mondo femminile, analizzato come su un tavolo anatomico con conclusioni inconsistenti. Dopo aver ricevuto il primo bacio della sua vita (il primo bacio!),  improvviso come un fulmine, tutto il turbamento emotivo di Lucy si risolve nell’aspettativa della prossima confessione con la cugina, senza che il suo pensiero si posi un istante su di lui, sull’uomo che l’ha stretta fra le braccia. Dopo questo episodio, non sei più disposto a a dare un po’ di fiducia al narratore e ai pensieri della protagonista. Imperdonabile.

Firenze

1_Fra tenebra e luce – Victor Hugo, “I miserabili”

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miserabiliIl furto di un tozzo di pane conduce il giovane Jean Valjean in galera, e i ripetuti tentativi di evasione ne dilatano la reclusione fino a diciannove lunghi anni: al momento in cui egli ottiene la libertà condizionata nulla rimane dell’uomo che era un tempo. Il suo animo è pieno soltanto di risentimento e d’odio per l’intera società, che l’ha privato insieme della libertà, della gioventù, del futuro e del passato.

Siamo nel 1815: dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo il gelo della Restaurazione spazza via definitivamente l’utopia rivoluzionaria dall’Europa. È il ritorno al potere costituito e alle monarchie.

Ovunque egli si rechi, Jean Valjean è costretto a mostrare il documento che lo marchia indelebilmente come ex galeotto: nessuna locanda lo ospiterà, nessuna porta si aprirà, nessun lavoro gli sarà offerto. Per giorni vaga, in bilico sul sottile margine dell’abisso: se nessuna speranza è data, il suo destino è imboccare la via del male, senza ritorno. Infine, trova insperatamente riparo in casa del vescovo di Digne, Monsignor Myriel, che vive il proprio apostolato in povertà donando ciò che possiede e facendo il bene ogni volta in cui si presenti l’occasione. L’accoglienza è semplice ma piena di calore e bontà, ma durante la notte Jean Valjean non riesce a resistere al maligno fascino incantatore della poca argenteria di casa. I gendarmi lo ricondurranno in catene il giorno seguente davanti a Myriel, che ne impedisce la nuova incarcerazione sostenendo di aver donato lui stesso a quell’uomo ciò che gli è stato trovato addosso. Anzi, nella fretta di andarsene, egli ha dimenticato di prendere i due candelabri d’argento. Jean Valjean è sconvolto: il prelato, per cui lui è niente e che per lui è niente, lo chiama amico e fratello, il prelato pur potendo perderlo definitivamente con una sua sola parola, lo salva.

“Jean Valjean, fratello mio, voi non appartenete più al male, ma al bene. E’ la vostra anima che ho comperato; la tolgo ai pensieri tenebrosi e allo spirito di perdizione e la dono a Dio.”

Inizia dallo sguardo buono dell’anziano vescovo la risalita di Jean Valjean, che riesce a costruirsi una nuova identità e a iniziare una nuova vita a Montreuil-sur-Mer, dove apre una fabbrica e diviene sindaco del paese: per tutti egli è adesso il signor Madeleine, il benefattore. Ma il destino continua ad inseguirlo nella persona dell’ispettore Javert: gli soffia sul collo, gli è vicino, gli è addosso. Ogni qual volta la sua strada sembra appianarsi, un evento inatteso lo costringe ad abbandonare tutto e scappare: di fuga in fuga giunge a Parigi, dove si troverà coinvolto nei moti popolari del giugno 1832.

Non è proprio il caso di riassumere qui l’intera trama di questo romanzo incredibile, che ti tira dentro fin dalle prime pagine e non ti lascia riprendere fiato fino all’ultima: è fin troppo noto. Jean Valjean tiene fede per tutta la vita all’ideale di rettitudine che si è riproposto per redimersi, lottando contro le prove che la sorte continua a imporgli: solo la morte è in grado di donargli quella pace che la vita gli ha negato incessantemente. Ai bivi più terribili che si presentano al protagonista, l’autore analizza i tormenti della sua anima dissezionandone come su un tavolo anatomico le ondate di sentimenti contrastanti: la rabbia, l’orgoglio, il desiderio di riscatto, la nostalgia per una vita non vissuta, la fede, la speranza, l’amore, la rassegnazione. Viviamo al fianco di Jean Valjean, al ritmo dei suoi pensieri e del suo respiro, la terribile notte in cui egli decide di sacrificare la sua nuova, rispettabile esistenza come sindaco di Montreuil per impedire che un innocente venga imprigionato al suo posto; scrutiamo l’oscurità con i suoi occhi, ci sorprendiamo a tentare di anticipare le sue rocambolesche soluzioni di fuga.

Un romanzo in continuo oscillare fra tenebra e luce, fatto di contrasti stridenti fra passato e futuro, fra utopia e realtà, fra spirito e materia. La scrittura di Hugo getta improvvisi fasci di luce nel buio dei bassifondi parigini, ad illuminare squarci di vite, attimi fugaci in cui i miserabili appaiono sul palcoscenico della storia per sprofondare nuovamente nel loro destino irrevocabile, nell’anonimato, nel fango. Quante Fantine, quante Eponine, quanti Gavroche nella pancia del tempo! Personaggi che restano impressi nella memoria, indimenticabili nella loro disarmante e dolente umanità.

Il racconto si dipana, un colpo di scena dopo l’altro, intervallato da memorabili digressioni. Quando ho affrontato la prima, quella sulla battaglia di Waterloo, ho scorso un attimo le pagine in avanti e contato: 50. Ho pensato: nooooo, non mi passa mai più, e mentre io leggo di Napoleone che sta succedendo a Jean Valjean? Invece, fiato sospeso anche in queste sospensioni dell’intreccio. La descrizione della battaglia è intensa e viva, sembra di vedere scintillare sotto gli occhi le armature dei dragoni e di sentire il nitrito dei cavalli. Le pagine dedicate alle fogne di Parigi, dove gli escrementi gocciolanti dalla vita che si consuma in superficie trascinano insieme carogne e cappelli cardinalizi, corde d’impiccati e lustrini, il torsolo di mela insieme al lenzuolo funebre di Marat, sono una riflessione sul trascorrere del tempo, sulla dissoluzione fisica, sul valore delle cose come testimonianza che ho trovato, io che di mestiere faccio l’archeologo, illuminante. La descrizione delle due barricate del 1848, l’una mostruoso prodigio irto del potere sordo del caos, l’altra liscia e fredda di determinazione e precisione matematica, rappresenta le molte facce che può assumere l’opposizione dell’uomo al destino. Già, perché il destino pedina dappresso ciascuno dei personaggi, i docili come i temerari, li incalza, li perseguita, li conduce là dove devono andare… C’è una sola forza, luminosa, che si oppone al destino: l’avvenire. Quell’avvenire che i giovani rivoluzionari sognano sulla barricata, quando non ci saranno più re, non ci saranno più vinti, ma diritti e pane per tutti: il destino di Marius e Cosette abbraccia l’avvenire in nome di tutti coloro che hanno dovuto soccombere.

“Fratelli, colui che muore qui, muore nell’irradiamento dell’avvenire, e noi entriamo in una tomba tutta soffusa di aurora”. Enjolras, più che tacere, si interruppe. Le sue labbra continuavano a muoversi silenziosamente come se continuasse a parlare a se stesso, il che fece sì che tutti, tesi nell’ascoltarlo ancora, lo fissarono. Non vi furono applausi, ma un sussurro serpeggiò a lungo tra gli astanti. Poiché la parola è un soffio, i fremiti dell’intelligenza assomigliano ad uno stormire di foglie.