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In cammino, 8. Da Santo Domingo de la Calzada a Tosantos

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05.07.2016

La pioggia che ha accompagnato l’ingresso a Santo Domingo de la Calzada è ancora là ad attenderci al mattino.

Dopo tanto sole, tanto caldo, tanta polvere e sudore, adesso camminare fra i campi e le spighe mature con l’impermeabile addosso e la faccia umida, in un repentino ma fugace autunno, ha un che di paradossale. Per tutta la mattina, mi diverto a guardare il mondo dall’altezza delle spighe di orzo che si perdono a destra e a sinistra, interrotte solo da qualche albero isolato e solitario.

Passiamo il paese di Grañón, uno dei luoghi simbolo della rinascita del pellegrinaggio jacopeo a partire dagli anni ’70 e ’80, conosciuto per l’ospitalità semplice e calda offerta nell’albergue parrocchiale. Percorrendo adesso il Cammino sembra che tutto sia così da sempre, le conchiglie, le frecce gialle, gli albergue per tutti i gusti che si incontrano in ogni paese. Eppure, dopo il periodo di massima fioritura nel XII e XIII secolo, a partire dal Quattrocento con lo svilupparsi di una diversa spiritualità, ma anche a causa del grande numero di pellegrini in viaggio, non sempre con intenzioni del tutto limpide, e dei conseguenti episodi picareschi che ne derivavano, le stesse autorità religiose iniziarono a sconsigliare di mettersi in cammino per la tomba dell’Apostolo. La Riforma e le guerre di religione del Cinquecento interruppero quasi del tutto il flusso dei pellegrini, certo non consono poi alla razionalità dell’Illuminismo, e solo nel Novecento alcuni visionari hanno messo mano alla vernice gialla e hanno iniziato a riscoprire percorsi, sentieri, luoghi di sosta, un intero mondo di storie sepolte.

Ma certo non possiamo fermarci a Grañón alle otto del mattino, e dunque proseguiamo fino a Belorado e oltre, fermandoci per la notte a Tosantos.

Occupato il posto nell’ostello, salgo all’Ermita de Nuestra Señora de la Peña, un minuscolo edificio dalla pianta del tutto atipica, in parte scavato nella roccia sedimentaria, e poi più su, fino alla sommità della collina. Da qui si domina tutta la vallata, un verde acerbo e brillante su cui trascorrono quiete le nuvole, modificando provvisoriamente la geometria dei campi.

Cerco solitudine stasera. Abbiamo scherzato tanto, con i compagni, sul fatto che sul Cammino non passa giorno che tu non abbia qualcosa: ti fa male una gamba, poi ti passa ma ti fa male una spalla, poi ti passa e ti viene uno sfogo rosso sulla pancia, poi ti passa e rifà male la gamba e poi ti scopri delle strane punture biancastre su un braccio, poi non vai in bagno e poi vai troppo in bagno e ti rifà male la spalla, ti vengono le vesciche sotto un piede ti passano ti tornano all’altro piede, ti fa male la testa ti fa male lo stomaco… e via di nuovo.

Questo tema è uno dei grandi spunti di conversazione durante il Cammino, e vi ho quindi partecipato di buon grado, come si partecipa a tutti quei rituali che cementano i gruppi umani, se non vuoi apparire un completo asociale.

Ma in realtà, a parte quel ginocchio i primi tre giorni, mi sono sentita un leone, con l’unico desiderio di divorare la strada insieme a tutte le gabbie, ai miei limiti e alle mie insicurezze. Ho avuto gambe e ho avuto fiato per tutte le salite. Ho visto gente ungersi i piedi di vasellina, chi al mattino e chi è meglio la sera, mettere cerotti per la notte e cerotti diversi per il giorno, piangere nonostante qualunque accorgimento, ho scoperto i mille modi di bucare le vesciche con o senza filo, ma per fortuna o per grazia divina sempre da spettatrice.

Ora però, dopo otto giorni il dolore è arrivato. Ancora confusamente, sento che qualcosa non va nel piede sinistro, quando lo appoggio a terra. Posso trascurarlo ancora e andare avanti, come oggi, che mi ha accompagnato nell’ultima parte della giornata, facendosi sentire ogni metro un po’ di più, ma qualcosa mi dice che adesso si apre una pagina nuova del mio cammino.  

In cammino, 3. Da Larrasoaña a Uterga

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30.06.2016

Mentre il sole alla sera tramontava, nel patio dell’Albergue Municipal di Larrasoaña, abbiamo condiviso una cena improvvisata, una pastasciutta al pomodoro che ha girato tutti i tavoli, un’insalata e una scatoletta di legumi freddi, per poi fantasticare un po’ sull’ingresso, il giorno successivo, a Pamplona, capitale della Navarra. Dopo tre giorni di solitudini arboree e montane, abbiamo convenuto che dormire in città avrebbe potuto essere un piacevole diversivo, insieme a cose come mangiare una cena vera e fare due passi fra la gente prima di collassare nella branda.

Con questa idea ci mettiamo in cammino all’alba, in mezzo alle ginestre, sotto il cielo opaco di un’umidità che non riesce a trasformarsi in pioggia. Poche ore di cammino per attraversare il Puente de la Magdalena, che segna l’arrivo in città, e riprendere lentamente contatto con il mondo. Ma incontrare di nuovo persone, pulite e vestite normalmente, in giro per compiere gli atti usuali (fare la spesa, accompagnare il cane, andare dal medico o alla posta…), quegli atti anche nostri da cui solo tre giorni prima ci siamo distaccati, è uno shock difficilmente prevedibile poche ore prima. Solo tre giorni di cammino fra le montagne ci separano da loro. Eppure… eppure mi sorprendo a guardarli come esseri straordinari, e mi sembra un po’ di provare ciò che provarono gli Incas quando videro per la prima volta in vita loro i Conquistadores spagnoli.

Ma la sorpresa, a dire il vero, appare reciproca. Sul ponte, ci soffermiamo ad osservare l’acqua fresca scorrere in basso, e una coppia di anziani si avvicina. Ci prendono le mani, ci chiedono da dove veniamo e ci dicono tutti commossi quanto siamo bravi, che avrebbero sempre voluto fare il Cammino ma alla fine non l’hanno mai fatto. E io mi chiedo, secondo le statistiche ufficiali ogni anno più di 250.000 pellegrini percorrono questa via, solo a giugno ne sono passati 38.000… e questi due riescono ad accoglierci con sorrisi così freschi di sincera ammirazione? E che cosa stiamo facendo mai di straordinario? Stiamo solo camminando, un passo dopo l’altro, verso ovest. Nascondiamo una lacrima, prendiamo quei sorrisi e quelle mani rugose e incerte e li mettiamo in un angolo del cuore, ed entriamo a Pamplona.

La città si sta preparando alla festa di San Fermín e le strade sono già pavesate di bandierine. Ma la piacevolezza che immaginavamo si scontra subito con una diversa realtà, la pressione delle auto, il pigia pigia di fronte ai locali, il caldo che sale inesorabile dai basoli della strada. Il desiderio di restare scolora velocemente, il pensiero di passare qua la notte è inaccettabile, e ci ritroviamo già sul Cammino, via, verso l’Alto del Perdón che si profila con la sua collana di pale eoliche. Meglio un’altra salita, meglio sudore e polvere.
Il sentiero, di un bianco accecante sotto il sole del mezzogiorno, si snoda flessuoso fra le colline, in un mare di grano maturo, a perdita d’occhio, sinché non incontra il cielo. Al di là dei crinali, si affacciano perduti campanili di paesi che resteranno sconosciuti.

Silenzio: assoluto, irreale. Se ti fermi in mezzo alla via, ad occhi chiusi, respirando, incameri tutta l’energia della Terra.

La salita verso l’Alto del Perdón è più clemente di quello che sembra, e in poco tempo raggiungiamo l’altura e il monumento ai pellegrini, donde se cruza el camino del viento con el de las estrellas. Da lì, alle spalle, si scorgono ancora i Pirenei, dove il cammino è iniziato, e qua e là quel nastro bianco appena percorso, che si nasconde fra le pieghe di spighe. Davanti, la strada si distende verso il futuro.

Il vento ti scuote in uno stato di stordimento così piacevole, che non vorresti più andar via.

Ma non è solo questo: la realtà è che sulla cima non c’è niente, se non un improbabile baracchino di panini e bibite, e da qualche parte bisogna arrivare, per dormire. Per farlo, c’è adesso un’infida discesa, il vero nemico, adesso, se hai un menisco incrinato e ogni passo è uno sforzo disumano nonostante la profusione di Ibuprofene. Il Cammino, che altrove è come un grande drago lungo disteso sui campi, adesso si trasforma a tradimento in uno stretto sentiero, un canale, cosparso di grossi ciottoli che rotolano giù appena appoggi il piede. Intorno, cessato il vento, di nuovo caldo e indifferenti colline, alberi sparsi che offrono appena qualche istante d’ombra e conforto. A Uterga, al primo paese, ci fermiamo, sfinite. Ma anche stanotte sogno di camminare, non dormo, e aspetto almeno che siano le cinque per ripartire.

In cammino, 2. Da Roncisvalle a Larrasoaña

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29.06.2016

Al risveglio, un mattino plumbeo avvolge la Collegiata di Roncisvalle, ieri così gialla e verde e accogliente, di una spessa nebbia che sa quasi di Transilvania e sgocciola dai tetti sul selciato, stilla sul nostro misero bucato lasciato all’aperto durante la notte, rotola sulle foglie dei boschi cupi, tutt’intorno. La natura sembra stringerci sotto assedio. Colazione a base di caffè, pane con marmellata e Ibuprofene, fidato compagno dei giorni a venire.

Ci addentriamo sotto le volte degli alberi, sul terreno morbido di foglie che accoglie gentilmente i nostri passi. Eppure, bastano pochi minuti e fa allegria anche il volto bagnato di una pioggia che non è pioggia, i colori brillanti degli impermeabili e il fresco inatteso sulla pelle.

Appena fuori Roncisvalle, il cartello indica la distanza che ci separa da Santiago: so che non ci arriverò, almeno non quest’anno.

Con l’arrivo del sole, la nebbia si dissolve per lasciare posto ad un sole magnifico che accende il verde dei boschi di roveri, abeti e pini. Possiamo appuntare finalmente il bucato allo zaino, irriverente vessillo, per rimediare all’imprudenza della sera precedente. Procediamo velocemente, il cammino si dispiega seguendo i dolci pendii della fascia pedemontana dei Pirenei, attraversa pascoli e prati, piccoli paesi in cui per un attimo sembra di ritrovarsi in altre epoche. Per l’ora di pranzo siamo a Zubiri, che la guida indica come meta della seconda tappa, attraversiamo il ponte sulle acque cristalline dell’Arga, gironzoliamo ma alla fine decidiamo di continuare ancora.

Quelle ore fra le radici dei monti, nei boschi, ti proiettano in un tempo senza fine, che si dilata e ti avvolge, rompendo infine i legami e i meccanismi delle abitudini.

La strada è ben segnata e non è mai un pensiero. Tutto quello che devi fare è portare un piedi innanzi all’altro. Realizzi che sarà così per le prossime due settimane, e già ti sembra di non aver fatto altro per tutta la vita. In tanti, al ritorno, mi hanno chiesto cosa pensassi in quelle sei, sette, otto ore di cammino al giorno. Niente. Non pensavo a niente. Osservi le file di formiche che incrociano il sentiero e inizi a saltarle per non calpestarle. Il momento mattutino in cui si aprono i fiordalisi. La sospensione dei suoni del mezzogiorno e la brezza che si alza più tardi, alla sera. Il tuo tempo si riduce alla distanza che intercorre fra il tuo petto e l’orizzonte visibile. Tutto ciò che è appena dietro le spalle, è già andato. Se lasci il bastone accanto ad una fontanella, dopo aver bevuto, e te ne accorgi dopo chilometri, è andato. Non lo tornerai più a prendere. Forse lo rivedrai fra le mani di qualcun altro. E cosa c’è davanti, oltre la curva, oltre il pendio, oltre il paese? Non importa. Tutto ciò che non vedi non esiste ancora. Questa dimensione preziosa del qui ed ora è forse il dono più bello del Cammino. La pienezza dell’istante presente, in cui hai a disposizione tutto ciò che ti serve: le tue gambe che ti portano avanti, il tuo respiro che è il ponte con te stesso, e la loro unione che dà vita al ritmo in cui la mente, come cullata, si acquieta.

Si dice che sul Cammino non si è mai soli: è vero. Io e Laura ci separiamo presto, perché io vado veloce, divoro la strada spinta da una forza che è come un fiume in piena, che non posso fermare, che durante la notte mi toglie il sonno dal desiderio di andare avanti. E così, naturalmente ci lasciamo e ci ritroviamo durante la giornata, con l’accordo di aspettarci per la notte. Eppure trovi sempre qualcuno con cui condividere un tratto di strada, parlando, oppure no.

Ma quei momenti, quei momenti in cui ti trovi solo sul sentiero, il sole dietro alle spalle o davanti agli occhi ad indicarti la via, in mezzo all’enorme flusso di energia che scorre da est a ovest, accumulata dal passaggio incessante, per secoli, di pellegrini, re e penitenti, ricchi e pezzenti, uomini e donne, sono momenti di grazia assoluta. L’odore di sole sulla pelle. Gambe e polmoni, e poco più: due cambi di vestiario, un sacco a pelo, un asciugamano, spazzolino e dentifricio, saponetta. La vita è così incredibilmente semplice.