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Julio Cortásar, “Bestiario”

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BestiarioChiedere a un lettore quale genere preferisca fra romanzo e racconto è come imporre la fatidica scelta fra poli opposti: Beatles o Rolling Stones, cioccolato o crema, mare o montagna? Nella mia carriera di lettore, ho in genere preferito incondizionatamente il primo, senza preconcetti, ma per inclinazione naturale. Ho letto alcune raccolte di racconti, ma li ho trovati assaggi privi della goduriosa soddisfazione che mi hanno dato i ponderosi tomi che ho divorato negli anni, un finger food che ti lascia l’appetito e in fondo anche un po’ di fastidio.

Adesso che mi sto dedicando a una riscoperta del genere, ho riletto con occhi nuovi Raymond Carver apprezzandolo più di quanto avessi fatto in passato, ma sono gli otto racconti di Bestiario di Cortásar che per la prima volta mi rivelano un piacere inaspettato e fulmineo: la cifra segreta di questo difficile genere letterario.

Julio Cortásar, nella conferenza Alcuni aspetti del racconto, ha paragonato il racconto alla fotografia (e il romanzo al cinema): un mezzo espressivo limitato, per autoimposizione, entro un margine ben definito, che tuttavia si propone di infrangere il limite, offrendo un frammento di realtà ma in modo tale da trascenderlo contemporaneamente, da agire “come un’esplosione che apra su una realtà molto più ampia”. Mentre dunque il romanzo procede per accumulazione, tracciando una strada lentamente verso il lettore, costruendo un percorso in progressivo divenire, il racconto risponde ad una logica diametralmente opposta: la rapidità, la tensione e l’intensità sono le sue uniche armi. Niente perdite di tempo dunque, niente divagazioni e giri tortuosi. In qualche modo, il racconto è più vicino alla condensazione della poesia, alla profondità necessaria dell’archetipo mitico, che al romanzo.

Nei racconti di Bestiario il fantastico si intreccia con il quotidiano, destabilizzandolo, insinuando la possibilità che, in fondo, leggi non del tutto razionali muovano i fatti del mondo. L’esplosione che il racconto provoca non è l’irrompere dell’irreale, non è la rottura dell’ordine, perché l’ordine già rivela di per sé la sua inquietante imperfezione. Come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Bestiario, in cui c’è una tigre che si aggira nella casa in cui la famiglia Funes trascorre le vacanze, e nei suoi paraggi: i protagonisti non sono turbati da questa presenza, che non ha niente di eccezionale e fa parte della normalità delle cose, della routine di cui ciascuno subisce la cadenza. I Funes sono semplicemente costretti a organizzare la propria giornata in base a dove si trova la tigre, a evitare certe stanze della casa, a rincasare o a non uscire, in uno schema così banalmente consolidato da poter essere utilizzato dalla piccola Isabel per consumare la propria vendetta.

Esplosioni che continuano a deflagrare: ho sperato di non aver capito Lontana, incentrato sul tema inquietante del doppio e dello scambio di destini, il racconto che ho trovato più bello, carico di inquietudine e con un finale enigmatico e duro, che continua a riportarti lì, a scorrere le pagine con la segreta speranza di aver interpretato male. Ho seguito il lento rifiorire di Delia e creduto nella sua innocenza, in Circe, fantasticato sulla natura delle presenze di Casa occupata. Ciascuna di queste brevi storie riecheggia un mondo, pieno e denso ma allo stesso tempo aperto, capace di accogliere le proiezioni immaginifiche del lettore. “Ogni racconto durevole è come il seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco”.

Raymond Carver, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”

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CarverQuando una persona non si sente valorizzata, coinvolta, considerata, o al contrario all’altezza della situazione e crede di soccombere, finisce spesso per scivolare in un angolo angusto e opaco, dietro una cortina di protezione più o meno densa, più o meno fumosa, più o meno irta di spine.

Sono quelli che si nascondono da qualche parte a leggere il giornale, che non salutano, che non puoi dir loro niente senza essere aggredito, quelli che assumono comportamenti irrazionali e imprevedibili, oppure al contrario standardizzati in una routine imprescindibile e inattaccabile da qualunque evento esterno.

Quante volte, soprattutto nella vita lavorativa, capita di incontrare persone così?

Le stesse persone che magari, prese nel verso giusto o motivate, sanno rivelarsi preziose, sfoderando risorse ed energie inattese. Non sai mai, in fondo, che storia o quale tortuoso percorso si celi dietro alla maschera dell’indifferenza, della maleducazione, del disinganno.

Leggendo tutti d’un fiato i racconti raccolti in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, ho dato inconsapevolmente ai personaggi di Carver i volti delle tante persone che, intorno a me, mostrano segni di sofferenza e di disagio nelle loro piccole o grandi idiosincrasie quotidiane. Travolti dallo scorrere degli eventi, dall’ascolto di sé stessi, è comodo giudicare sbrigativamente. Ma quanto è resistente l’argine che si può opporre alla forza della corrente? Quanto è lontano quel guizzo apparentemente incomprensibile di follia che cogliamo negli altri?

Nella catena serrata che si snoda da uno all’altro dei diciassette racconti, da una storia di scivolamento – nell’alcool, nella violenza, nella solitudine, nell’incomunicabilità – all’altra, l’amore del titolo sembra il grande assente. Eppure, l’amore finito, l’amore deluso, l’amore mal diretto, l’amore leggero, l’assenza d’amore o il troppo amore – l’amore dunque, in definitiva – è il motore immoto di ciascuna delle vicende narrate da Carver, nella loro nuda, spietata realtà. La scrittura – asciutta, essenziale, implacabile – coglie in un lampo fulmineo giusto un istante nel flusso continuo e inarrestabile della vita, proprio quell’attimo appena prima o appena dopo che si mostri la crepa nell’argine, che si compia l’irreparabile, che inizi lo scivolamento nel fondo limaccioso. Lascia narrare agli oggetti la loro nascosta, sublime, poetica e disperata tristezza, quella che resta imprigionata lì quando li dimentichiamo, o quando ci sopravvivono.

La seconda volta – [Perché Ankara?]

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L’avvicinamento ad Ankara, dai finestrini dell’autobus, è un passaggio repentino dalle sconfinate e solitarie piane anatoliche, dalla terra riarsa, dagli alberi annodati, dai cieli che si incontrano con l’orizzonte a distanze incommensurabili, ad una periferia onirica e dilagante, dove nel volgere di una notte sembrano essere sorti abnormi grattacieli, paradigmi del mondo nuovo, attuale, baluardi contro quell’altopiano che segna la memoria di un passato rurale troppo vicino ancora, e che la moderna Turchia in piena ascesa economica forse desidera dimenticare.

All’apparenza, di questi grattacieli la maggior parte sembra ancora del tutto disabitata. Quale urgenza dunque ne ha determinato la nascita, è difficile e insieme spaventoso da dire. È un paese che di terra ne ha così tanta, basta allontanarsi un poco dalle città per vedere dispiegarsi un paesaggio che ha il respiro delle carte geografiche e confini apparentemente illimitati.

Eppure, la terra si consuma velocemente. Quale Turchia sarà fra cinque, dieci, venti anni?Altopiano anatolicoAltopiano anatolicoPeriferia di AnkaraPerché Ankara?

In Cappadocia ce l’hanno chiesto tutti, un po’ increduli. Per fare uno scalo, sulla via di ritorno per Istambul?

Perché andare a visitare questa strana enorme città, che ha spodestato solo nel 1923 Istambul come capitale della Turchia? Prima di allora, Ankara era solo uno dei tanti agglomerati urbani che costellano gli altopiani dell’Anatolia centrale, situata peraltro in uno dei luoghi più aridi e inospitali del paese. È a seguito della guerra greco-turca, che sancisce la caduta dell’Impero Ottomano e la nascita della Repubblica, che Ataturk innalza Ankara ad un ruolo che forse non era scritto nel suo destino. Istambul ha il prestigio innegabile, l’antichità, la grandiosità della capitale, il suo innato atteggiamento regale. È stata capitale, nei millenni, di paesi così diversi, e nonostante sconvolgimenti epocali: nonostante le crociate, nonostante la caduta dell’Impero bizantino, nonostante i sultani. Ankara, al confronto, è solo un punto sulla carta, il semplice centro geografico di un paese che desidera essere nuovo.

Mustafa Kemal Ataturk. Questo nome è la chiave del mio desiderio di visitare Ankara. In ogni angolo del paese, c’è un tributo per il fondatore della Turchia moderna. Controverso, certo, un personaggio pericolosamente in bilico fra il volto del tiranno e quello confortante del benefattore, nell’epoca dei totalitarismi incentrati sul culto della personalità del leader.

Ataturk, policromo in mezzo ad una polverosa rotonda stradale, che parla con i contadini; Ataturk, che ti fissa con sguardo imperioso dalle vetrine di souvenirs, ora calamita, ora tazza, ora quadernetto; Ataturk, un poster che assapora il profumo del pane dai muri di ogni panetteria; Atatuk, busto bronzeo in mille giardini diversi.

A volte, sorridiamo dell’ingenuità, così tremendamente al limite fra celebrazione e irrisione, dei tributi che la Turchia offre al suo eroe. Non ne ridiamo, mai, non solo perché in Turchia recare offesa all’immagine o alla persona di Ataturk è un reato, ma perché questa presenza ha un mistero sincero da sondare.

Così, diciamo che andiamo ad Ankara per fermarci una notte, e da lì raggiungere Hattusa, l’antica capitale ittita. Essere un archeologo può talvolta fornire un valido alibi per le proprie stranezze.Ankara, la CittadellaAnkara, la cittadellaIn ostello, abbiamo due posti in camerata da sei: passiamo del tempo, prima di notte, nel gazebo tappezzato di erba artificiale, un puntino in mezzo ai grattacieli di Kizilay, a raccontare e ascoltare storie. Una coppia di belgi è arrivata in treno da Teheran, un tragitto infinito lungo un giorno intero, ci fanno sognare nuove mete; un finlandese che viaggia solo, beve un sacco di birra e non si capisce che cosa stia cercando, forse solo di infrangere le barriere della propria educazione; due iraniani che passano la loro giornata in camera, sdraiati a osservare il soffitto, in attesa di documenti che non arrivano. Lo so che gli Ittiti aspetteranno. Già la prima sera decidiamo di restare una notte in più.

La Cittadella sembra sia l’unica cosa da vedere ad Ankara, oltre al Museo delle Civiltà Anatoliche, ma le sue stradine rileccate, i muri in cui sono incastonati in modo apparentemente casuale antichi marmi romani, i restauri sfacciati delle palazzine ottomane, stuccano velocemente. Dall’alto, non si vede il confine della città, i grattacieli si dispiegano inafferrabili uno dietro l’altro, sotto un cielo ambiguo che ha l’opacità dello sviluppo non controllato. Gli attimi di verità sono quando lo sfondo si strappa, e contro il paesaggio della modernità si staglia una vecchia casa abbandonata, rannicchiata in se stessa sulle travi imbarcate, o da una porta si intravedono le galline che razzolano in una corte, mura di fango tirate su alla meno peggio in dieci diverse tecniche edilizie tutte ugualmente instabili.Anit KabirCenotafio di AtaturkKemal AtaturkE infine, il viale fiancheggiato da leoni ci conduce fino all’immenso piazzale dell’Anit Kabir, il mausoleo di Kemal Ataturk, circondato da un porticato a pilastri rettangolari, di nitido rigore geometrico, come un antico tempio egizio. Il sole, benché sia mattina presto, riverbera implacabile sull’impiantito di travertino, e il cambio della guardia deve essere un tormento per i giovani che lo compiono, i marinai in un’immacolata divisa bianca, su cui gocciola il sudore dai loro volti congestionati dal caldo e dal laccio dell’elmetto.

Ce ne sono, ovviamente, di turisti, ma i più sono volti di scolaresche e famiglie turche, una paziente processione laica che lambisce in silenzio il cenotafio di lucida pietra nera. Mi torna alla mente la visita antropologica al santuario di San Giovanni Rotondo e alla salma di Padre Pio, ma allora le donne piangevano, il pianto rituale delle prefiche, mentre qua si osserva, si saluta e si omaggia, prima di scendere nelle viscere della macchina celebrativa, nel museo dove diorami e cimeli narrano le gesta del padre della Turchia.

Aspettino, gli Ittiti. Ormai, aspettano da millenni. Guardiamo sfilare i volti. Non sappiamo quanto durerà: molte cose, da un anno, sono già cambiate.Cambio della guardiaCambio della guardia


Le foto dell’Anit Kabir sono di Janos Agresti©

La cupola, la città. Quando tutto sembra in bilico

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Santa Maria del FioreSolo la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore è alta come un palazzo di sei piani, ardita come tutta l’incredibile creazione di Brunelleschi, “erta sopra e’cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani”. La guardo contro luce, volute e rosoni di marmo un po’ scomposti, il sole che filtra ancora, pur guizzando da dietro le colline, attraverso le vetrate porpora e oltremare. Mi volto ancora verso il parapetto: la città è distesa là sotto, la città amata, le strade conosciute, i palazzi con i loro inconfondibili lineamenti, i giardini e le corti nascoste che solo da questa altezza si svelano.

Ma tutto sembra in bilico.

Guardo accanto a me i profili delle mie amiche. Ci attardiamo nel freddo, al tramonto, senza parlare ormai, dopo aver giocato a lungo a indovinare l’identità degli edifici che si distendono sotto di noi, per un inespresso desiderio comune di fermare questo momento. Il gioco ci ha consentito di non parlare di quello che proviamo davvero oggi, ma insieme scava già come un solco di nostalgia.

Un tramonto che ci appare carico di significato. I capelli biondi dell’una e i ricci indomabili dell’altra. Occhi chiari entrambe ma così profondamente diversi: dolci e pacati gli uni, guizzanti di energia gli altri. Siamo diventate amiche abbastanza da adulte da serbare nei nostri rapporti, per quanto quotidiani e intensi, un velo di riserbo che ci impedisce di superare un segno, di sciogliere l’emozione nel gesto.La lanterna di Santa Maria del Fiore

Ancor più che all’interno della cattedrale, quando le scalette claustrofobiche si sono improvvisamente aperte in alto sulla vista della cupola affrescata dal Vasari con la sua immaginifica teoria di demoni infernali, e sul geometrico ordito bianco e nero del pavimento giù in basso, le proporzioni fra le cose sembrano prive di senso. Le persone, giù indicibilmente lontane, si fondono nell’indistinto. Sembra che la città esista indipendentemente da loro e, ovviamente, anche da noi, anche se le nostre mani posate sul ferro freddo della ringhiera sono più concrete delle ombre che tracciano percorsi sui marciapiedi, in basso.

Oggi, anche se siamo qua travestite da turiste, combattiamo sordamente. Una battaglia inutile, ne sono certa, ma che restituisce un po’ di senso alla fatica, allo scoraggiamento, all’impotenza, alla rabbia e alla frustrazione così spesso provati negli ultimi due anni. Evidentemente, c’è qualcosa per cui vale la pena resistere. Quando le proporzioni si perdono, e quando ciò che sembra certo vacilla, è più facile scoprirlo.

Un sollievo si diffonde. La mia passione, che credevo morta, respira ancora. Aggiorniamo continuamente la pagina internet. Piano piano, la petizione raccoglie firme mentre l’ombra della cupola si allunga ancora come un immenso gnomone, divora angoli di strade, si affievolisce infine e scompare. Tramonto su Firenze

Storia di un sognatore, Frederick Stibbert

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Frederick Stibbert in armatura per il corteo storico del DuomoC’è una fotografia, un’albumina forse a giudicare dai toni cromatici, che mostra Frederick Stibbert con indosso l’armatura “inglese del 1370” con cui partecipò al solenne corteo per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1887.

È in piedi, leggermente di tre quarti, accanto al cavallo riccamente bardato, e ne tiene con la mano sinistra il morso. Dietro di loro, un grande portale aperto che li inquadra come una quinta teatrale. Forse la ripresa è stata fatta nel giardino della Villa di Montughi, perché di lato si intravedono arbusti e foglie. Quello stesso giardino in cui oggi, dopo la pioggia, perle di cielo rotolano sulle grandi foglie di Stelizia. A terra, è posato l’elmo dall’inconfondibile cimiero – un angelo che si stringe le braccia al corpo – che Stibbert aveva fatto realizzare per l’occasione.
AcquaAllora, non aveva ancora cinquant’anni, se la fotografia non è stata ripresa a posteriori, eppure sembra un uomo molto più anziano. Volge con naturale sicurezza il volto verso la macchina fotografica, piegandolo appena sulla spalla sinistra. Socchiude gli occhi, come a schermarli dalla luce o a soppesare chi ha di fronte, ma guarda fisso in camera, senza sorridere.

Non si sorrideva in verità, nel 1887, guardando un obiettivo.

Immagino che la maggior parte delle persone si sentisse allora piuttosto imbarazzata a mettersi in posa davanti a un apparecchio fotografico, e infatti spesso hanno sguardi tesi, opachi, o forzati. Forse si sentono in qualche modo giudicati, o messi alla prova. Forse tentano semplicemente, in uno sforzo disperato, di tenere gli occhi bene aperti, di non sbattere le palpebre, vanificando così la seduta di posa, per il tempo necessario a imprimere l’immagine sulla lastra di vetro.

Non Frederick Stibbert. Lui guarda fisso in camera, senza esitazione e senza tentennamenti. Soppesa noi, che lo guardiamo a distanza di più di un secolo dalla sua morte. Non dimentichiamo che era un uomo di mondo.

Lo chiamano sognatore. Lo chiamano eccentrico. Un riccone eccentrico con la morbosa fissazione per le armature antiche, per le chincaglierie esotiche, per spade e fucili.

Ma chi era davvero? Quello sguardo penetrante si fa beffe delle etichette che gli vengono attribuite.Cavalcata dettGuerrieri giapponesiCavalcata dett 2Frederick Stibbert eredita giovanissimo, alla morte precoce del padre, una enorme fortuna. Studiare non gli piace. O almeno non gli piace seguire i percorsi consueti. I suoi tutori pensano che presto dilapiderà il suo patrimonio. E in effetti, il giovane spende. Spende per acquistare oggetti meravigliosi in giro per il mondo. Eppure le fosche profezie non si avverano. Frederick Stibbert non è un avventato.

Pian piano prende forma l’idea di una creazione personale grandiosa, a cui dedica tutta la vita, senza diaframmi: la sua casa è il museo, il museo è la sua casa. La Villa di Montughi viene accresciuta, ristrutturata, adeguata alle proporzioni di una collezione che si arricchisce per decenni. Nuove passioni sbocciano con il tempo, e Stibbert le coltiva tutte, le asseconda tutte. I mezzi non gli mancano. Le sale si susseguono, non fredde sfilate di oggetti, ma ambientazioni, atmosfere, come frammenti di vita un tempo vissuta, congelata in un istante che mai sfiorisce.

Il progetto prende la sua forma definitiva alla sua morte, l’atto finale che suggella scelte consapevolmente perseguite. Stibbert lascia la sua casa, la sua collezione, il “suo museo”, come amava definirlo, con i suoi 56000 oggetti, oltre a un patrimonio in denaro di 800 lire, corrispondente oggi a qualcosa come 2 milioni di euro, alla Gran Bretagna, paese di origine del padre, con la possibilità di recesso a favore della città di Firenze, che ne entra in possesso nel 1908. A quale condizione? Che il “suo museo” sia aperto al pubblico, e resti per sempre così come lui l’ha ordinato.
Soffitto StibbertUn sognatore, sì. Un visionario, forse. Ma non chiamiamolo eccentrico. La sua visione era guidata da una volontà ferma, dalla traiettoria pulita e ineluttabile come una freccia scagliata contro un bersaglio. Questo dicono i suoi occhi a chi lo guarda dietro l’obiettivo.

Frederick Stibbert è uno che ha vissuto proprio come ha voluto. Onore a lui. Ha voluto lasciare una traccia duratura del suo passaggio su questa terra, e quella volontà ferma agisce ancora oggi.

Non è incredibile, essere capaci di proiettare così se stessi oltre il più grande degli ostacoli?
Giardino

La seconda volta – [La fine del Ramazan nella Valle di Ihlara]

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IMG_8515_FotorAlla fine del Ramazan si celebra Șeker Bayrami, la Festa dei Dolci, tre giorni di festività con cui si conclude il mese del digiuno. È una di quelle occasioni da trascorrere rigorosamente in famiglia, e dunque la Turchia nei giorni precedenti all’inizio della festa ribolle di vitale fermento: tutti si spostano, tornano dalle città al paese d’origine, caricano sugli autobus a lunga distanza, o sui più domestici dolmus, bambini e anziani genitori per andare in visita dai parenti lontani, recando con sé monumentali pacchi di provviste e doni.

Abbiamo notato, in effetti, un certo andirivieni più intenso del solito, ma senza allarmarci eccessivamente; abbiamo viaggiato un po’ stretti ma niente più.

Poi, durante la festa il paese si ferma, come la bonaccia improvvisamente investe la superficie del mare al calare del vento. I negozi sono chiusi, i taxi non circolano, i dolmus dormono negli otogar. Ci dà questa informazione, come fosse un’inconfutabile rivelazione divina ma con un tono fra l’esterrefatto e l’incredulo per la nostra dabbenaggine, il proprietario dell’Akar Pansion di Ihlara, servendo un enorme vassoio fumante di saç tava: il giorno dopo non ci possiamo sicuramente muovere di lì. Il padre si affaccia dalla porta della cucina asciugando le mani nel grembiule, e annuisce gravemente, suggellando la profezia con un lampo degli occhi profondi, nascosti fra sopracciglia color neve sul volto asciugato dal sole.

Ma l’inconveniente sopraggiunto non ci farà modificare il nostro piano: il giorno dopo vogliamo essere a Göreme in Cappadocia, dopo aver percorso la Valle di Ihlara, e ci saremo. La camminata nella valle faceva già parte del programma. Vuol dire che invece di tornare a prendere gli zaini, ce li porteremo dietro, come le lumache portano il guscio. In fondo basta percorrere la valle per circa 14 chilometri per ritrovarsi a Selime, sulla strada per Aksaray, dove in qualche modo si dovrà pur fare.

IMG_8513_FotorLa Valle di Ihlara è già quasi Cappadocia, ma non ancora, incastonata e quasi nascosta com’è fra ripidi fianchi rocciosi, brulli e modellati dall’erosione, ma rasserenata dallo scorrere sul fondovalle del Melendiz Suyu, che crea una inaspettata oasi verde, distendendosi con le sue acque fresche e scintillanti, su cui si allungano come lunghissimi capelli ciuffi di alghe, danzanti nella corrente. La osserviamo dall’alto al calare del sole, mentre una mandria di vacche rosse e stanche, visione campestre di infinita malinconia, incrocia il nostro cammino, e ci sembra in fondo una cosa fattibile.

La mattina successiva, zaino in spalla, ci inoltriamo nella valle deserta. Come ci era capitato altrove l’anno precedente, si ripete l’incanto della biglietteria chiusa e sguarnita, i cancelli aperti, e con un misto di timore reverenziale e di incredulità iniziamo a scendere i ripidi gradini che conducono presto al sentiero di fondovalle, dove gorgoglia il fiume. Quella discesa conduce in una dimensione nuova, ammantata di silenzio austero e potente.

Chiese rupestriSui fianchi riarsi della montagna, apparentemente morbidi come nuvole di zucchero filato, fra i massi erratici che sembrano quasi compagni di viaggio, si aprono carichi di promesse gli ingressi delle chiese rupestri, dai nomi poetici ed evocativi, la Kokar Kilise, la Yilanli Kilise, la Sümbüllü Kilise: la Chiesa Profumata, la Chiesa del Serpente, la Chiesa dei Giacinti. Riecheggiano di storie perdute e incomprensibili, da inventare di nuovo, sempre diverse, una storia per ogni viaggiatore che vi giunga all’interno. Tutte ti accolgono con la stessa penombra lacerata da qualche polverosa striscia di sole, che appena lambisce gli affreschi dai vivaci contrasti.

Teorie di ieratici santi, dagli occhi vuoti e cancellati dalla parentesi iconoclasta, ma di cui si indovinano ancora i tratti volitivi segnati da pennellate compatte, si allineano sulle pareti silenziose, campite di tappeti geometrici che si distendono a coprire ogni angolo. Quella roccia che all’esterno, alla luce del sole, si modula semplicemente nelle tonalità dall’arancio al rosso al bruno, è che come se scavandola avesse liberato un mondo nuovo di colori e figure.Il fiume Melendiz SuyuQuesto silenzio surreale accompagna tutto il percorso: sembra uno di quei giorni in cui l’umanità si è nascosta e la natura è rimasta da sola. Di lontano, volteggia una piccola colonia di rapaci attraverso la stretta striscia di cielo racchiusa fra le cime delle colline. Sembra quasi sacrilego avventurarsi, e il viaggiatore si sente osservato.

Sulla sponda del fiume ci sediamo a consumare frutta secca e acqua prima di riprendere il cammino. I fianchi delle montagne si avvicinano, il fiume scivola in mezzo, basta continuare a seguirlo. Infine, nel pomeriggio ormai inoltrato, il respiro della valle si dilata e ci troviamo al termine del percorso, si scioglie l’incanto nelle voci delle persone che finalmente ricominciamo ad incontrare sul sentiero.

A Selime, come ci era stato predetto davvero non ci sono mezzi.

Per la prima – e unica – volta in Turchia, proviamo la sensazione, con i nostri zaini che denunciano chiaramente il nostro status di stranieri, di essere prede. Ci si avvicinano più persone, a turno, che offrono un passaggio in cambio di soldi, dicendo che tanto non troveremo un modo diverso per muoverci quel giorno. Quando cerchiamo un passaggio sui pulmini turistici, gli autisti ci mettono i bastoni fra le ruote e si rifiutano di farci salire, accampando problemi di assicurazioni e controlli, ridicoli per noi che abbiamo viaggiato seduti nei corridoi degli autobus e nei cofani posteriori dei taxi. Ma in effetti, camminando lungo la strada e provando ad alzare il pollice, la macchine che sfrecciano in direzione di Aksaray rispondono suonando il clacson, gli uomini alla guida alzano le spalle e allargano le braccia, tutte le vetture sono colme di nonni nipoti e animali domestici in corsa verso casa, verso la festa.
IMG_8517_FotorQuando ormai, passate alcune ore di inutile autostop, ci stiamo rassegnando, si fermano due ragazzi su una macchina rossa, musica a palla e finestrini completamente abbassati. Una cabrio, praticamente. Loro, vestiti di jeans attillati e camicie squillanti che dovrebbero essere alla moda, ma ti proiettano invece in una serie tv d’infima categoria. Ci fanno cenno di salire e partono lanciati come folli. Non parlano altra lingua eccetto la loro, non ci parlano ma non parlano nemmeno fra di loro.

Più volte, osservando le nude colline sfrecciare ai lati della macchina e a tratti il tachimetro che segna costante fra i 100 e i 120 km/h, mi chiedo se la mia vita non dovrà finire in un avventato sorpasso mediorientale. Ma poi questi enigmatici ragazzi ci porteranno davvero dove ci hanno detto che stanno andando? Non poter guardare in faccia due persone che ti portano in auto e non ti parlano ha un che di poco rassicurante. Gli incontri del pomeriggio hanno lasciato uno strascico amaro.

Arriviamo infine ad Aksaray, e la tensione inizia a sciogliersi quando di nuovo possiamo guardarli in viso: sorridono, rifiutano decisamente qualsiasi cosa per il passaggio, ripartono in una nube sonora che non si è mai interrotta, verso quel loro misterioso impegno che li ha condotti sulla nostra strada, e che resto con la curiosità di conoscere. Prendiamo l’ultimo autobus per Nevsehir, da dove si diparte la ragnatela dei percorsi della Cappodocia. Ci sediamo nell’ultimo sedile, stanchi e ancora silenziosi. Piano piano il dolmus si riempie.

Un ragazzino dal braccio ingessato e fermato al collo con un fazzoletto, poco dopo la partenza si alza dal suo posto a fianco della mamma e ci si siede accanto. Ci osserva, a lungo, incuriosito. Occhi scuri luccicanti come stelle sotto la frangetta nera. Infine rompe il silenzio, col suo coraggio di bambino. Parla per due ore, fa domande, ascolta attento le risposte perché vuole sapere molte cose, un dialogo in lingue eterogenee guidato dalla luce degli occhi.

Dire i numeri con le dita è la cosa più semplice del mondo, e se troviamo un argomento che contenga dei numeri si può parlare così per ore. Così ci dice quanti anni ha lui, otto, quanti ne hanno la mamma e le sorelle che viaggiano anche loro sull’autobus, quanti ne hanno tutte le persone che conosce. Si è rotto il braccio andando in bicicletta, anche questo è semplice da spiegare. Ma un’altra cosa facile da dire è il nome dei luoghi, e così dice i nomi dei paesi che attraversiamo, dei paesi che vediamo lontano sulle colline, di quelli a cui conducono le strade che incrociamo. È facile anche dire il nome delle persone, e quindi ci chiede il nostro, ci dice il suo, ci presenta tutti coloro che siedono nell’autobus, quando scendono e quando salgono.

Quando infine arriva alla sua fermata, scrivo sulla cartina, in corrispondenza del suo paese, Acigöl, un puntino vago sulle strade della Cappodocia, senza stelline a contrassegnare qualcosa di notevole da vedere, il suo nome. Mustafa. Allora davvero ci rilassiamo sui sedili, ci guardiamo e i nostri occhi sono bagnati di commozione: sottovoce, ci diciamo che tutti i momenti di quel giorno ci hanno portato lì, e gli occhi luminosi di Mustafa che saluta con la mano, incorniciato nel finestrino, hanno già cancellato le sensazioni spiacevoli delle ultime ore.IMG_8516_Fotor


La seconda volta era nel luglio 2014

La seconda volta – [Egirdir e Sagalassos, città antiche e moderne incastonate fra le vette]

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EgirdirArriviamo a Egirdir in un tramonto rarefatto, quando la montagna distende il suo vasto corpo stanco sull’acqua madreperlacea. Egirdir è uno smilzo funambolo sospeso sulla superficie senza onde, legato ancora alla sponda da un nastro sottilissimo ma ormai sul punto di sciogliersi per permettergli di iniziare il volteggio. È un fanciullo in calzamaglia verde che esegue il suo numero per la corte delle vette millenarie, su cui domina di lontano il turrito Davraz Daği.

Un paesaggio pacato, senza suono, senza eccessi, in cui l’apparente immobilità del quadro è il risultato di innumerevoli minutissimi moti: il granchio che si lascia lambire sulla battigia, la foglia che plana roteando senza peso, il sasso che canta sommesso quando il respiro del lago si ritira.

Forse ancor più della prima volta, questa seconda volta in Turchia non posso raggiungere una meta senza immaginarne infinite altre. Quante città perdute in mezzo a queste grandi montagne, quanti sentieri, quante gole ombrose e quante assolate pietraie. Come lo sguardo, volgendosi intorno ad interrogare il perimetro del lago, così anche il pensiero, instancabile, cerca di spingersi sempre oltre, come ad accarezzare almeno tutto ciò che non riesce a possedere. Ogni partenza non può essere che un arrivederci.

SagalassosDi città in città, da un otogar all’altro, si rivelano infiniti insondabili spazi inabitati, deserti, regno della capra e del rettile. Ma non si può escludere che un tempo questo paesaggio non fosse profondamente diverso. Ci sono città accuratamente nascoste sui fianchi delle montagne, dai nomi fantastici ad evocativi.

Su un altopiano dell’Ak Dağ, la Montagna Bianca, andiamo ad incontrare la pisidia Sagalassos, che forse già si cela dietro la Salawassos menzionata nelle tavolette ittite, più di tremila anni fa. Ad inafferrabile altezza, fra 1400 e 1700 metri sul livello del mare, i marmi bianchi distesi a scaldarsi fra gli arbusti spinosi rappresentano un immenso rompicapo archeologico. Ci saranno state risorse a giustificare la grandezza di questa città, ci saranno state strade e motivi per arrivarvi, per raggiungerla dopo un cammino certo faticoso: non solo la maestosa bellezza del luogo.

Bellezza, che parola abusata e logora. Ne detesto ormai il suono, trasformato in stolido vessillo promozionale, così facile e di sicuro effetto. Eppure sotto il bagliore accecante del sole è complicato trovare un altro termine che riassuma i contrasti violenti dei colori, la forza della roccia, la purezza dell’aria e l’enormità dell’abbraccio di cielo e terra in cui ci troviamo stretti.

Sacro. Forse, la parola sacro mi piace di più. In bilico con le spalle alla montagna e il volto esposto al vento che sale dalle gole montane, penso a Delfi, al respiro sotterraneo che emerge dal profondo. Penso alle incisioni rupestri che nella Valle delle Meraviglie, sulle Alpi Marittime, omaggiano il Monte Bego da tempi immemorabili. Penso alla danza dei dervisci, un palmo rivolto al cielo e uno alla terra. Anche Sagalassos in mezzo alle montagne potrebbe roteare così, selvaggia e primordiale.

Alessandro Magno e gli imperatori romani adornarono di merletti di marmo queste solitudini. Quando ripetute serie di terremoti ne ebbero ragione, nel VII secolo della nostra era, semplicemente la città fu abbandonata, senza rimpianti forse, lasciando indietro i complicati intrecci e i sapienti lavori di trapano e scalpello. Mentre altrove le città crescono una sull’altra, o servono da cava per gli insediamenti futuri, in Pisidia sotto la cupa vegetazione le colonne, gli architravi, i fregi scolpiti giacciono come castelli di carte atterrati per scherzo dal soffio di un bambino, che attendono solo, con altrettanta grazia, di essere risvegliati per nuovi giochi.

Ninfeo di SagalassosNinfeo di Sagalassos


La seconda volta era nel luglio 2014

Due giorni in Blade Runner (Il Cairo_novembre 2015)

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Della maggior parte degli edifici, non si riesce a capire se siano stati abbandonati poco dopo la costruzione, o dopo un lungo e felice (ma ormai trascorso) periodo d’uso. Oppure ancora se, semplicemente, non siano mai stati terminati. Gli uomini se ne sono andati.

Siano essi le vestigia arabescate di eleganti palazzi di inizio Novecento, noncuranti eredi del complesso passato coloniale del paese, o scheletriti palazzoni tipicamente anni ’70 di cui il vento abbia eroso la pelle di cemento per metterne a nudo le fragili ossa in ferro, tutti sono coperti da una polvere stranamente chiara, sottile impalpabile uniformante metafora del tempo che scorre.

Quanti abitanti ha Il Cairo – al Qahira, La Soggiogatrice?Il Cairo

Molte sono le stime, ma forse nessuna è corretta. Forse non è proprio possibile contare sul serio gli abitanti di una delle città più popolose dell’Africa.

Difficilmente, alle tante finestre che si aprono nelle pareti scrostate degli edifici, si può intuire un qualche indizio di presenza. È più facile, ad osservarle così, cieche e buie, che siano solo un sottile diaframma fra un vuoto interno e un paesaggio di diversità modellato da iniziative individuali spontanee, che solo in un’altra galassia si possono sensatamente definire abusi edilizi. Là, su una terrazza, spunta un gazebo in legno a cui il tetto di vere tegole toglie qualsiasi pretesa di provvisorietà. Di sotto, il perimetro di un balcone crollato è sostituito da filari di mattoni di neolitica terra cruda, appena giustapposti. Di sopra, inferriate eleganti come quelle di un monastero siciliano del Seicento proteggono l’affaccio di un condizionatore elettrico.

Non sembra un presente. Sembra un futuro disperato. Sembra Blade Runner.

Quel che è certo, è che ovunque si trovino fra quei silenziosi relitti urbani, gli abitanti si riversano quotidianamente per strada, alla guida di veicoli vecchi o meno vecchi ma tutti ugualmente segnati da non sempre pacifici incontri con i loro simili. Il caos nelle strade è totale, inaccessibile, eppure la nostra guida riesce comunque a raggiungere la destinazione, scivolando fra i pericoli come se fosse la cosa più naturale da fare in mezzo a milioni di auto furgoni motociclette rumoreggianti ad ogni accenno di passo falso. Attraversare queste strade a piedi è una roulette russa a cui alla fine diventa quasi divertente sottostare, come fosse una sorta di rito iniziatorio: ad esso la guida ci sottopone con un sorriso falsamente incurante. C’è una tensione sottile, l’esercito è ovunque, ma vediamo con la coda dell’occhio qualcuno che non indossa divisa estrarre, a un angolo di strada, la pistola dalla tasca dei pantaloni.

Dietro quelle finestre, in quei palazzi nonostante tutto maestosi, ognuno sorvegliato da un custode nubiano in jelabyia bianca, che ti apre sorridendo la porta dell’ascensore e ti conduce nei corridoi di marmo privi di luce, in cui si accumula di lato, dove di solito non si cammina, un dito di polvere rossa del deserto, si nascondono cose inimmaginabili. Passati nascosti fra le pieghe di questo presente che ci troviamo ad attraversare.

Abbiamo il privilegio di accedere a uno di essi, ma devono essercene molti altri: la Galleria (così la chiama con giusto orgoglio la guida) ci si schiude davanti come il portale delle Mille e una notte. Polverosa anch’essa, e oscura, è un meccanismo perfetto di confusione del tempo. Vecchi mobili da ufficio e gioielli in quello stile egittizzante che spopolò dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon, albumine raccolte in album o sciolte, lettere, valige, piume di pavone e scacciamosche, tutto si mescola in un disordine claustrofobico che ti assale con la molteplice nostalgia delle infinite possibilità.

Tempio della ValleIn cerca di un qualche non effimero ordine, andiamo alla piana di Giza. Le Piramidi, fra lo scoppio dell’aereo russo nel Sinai e il venerdì di Parigi, sono deserte e irreali. Sospese in una bolla silenziosa. Anche qui gli uomini se ne sono andati. Serpeggia la paura fra i venditori di souvenir che nemmeno scoprono la loro mercanzia, lasciandola pietosamente avvolta, al sole tiepido, da teli di cellophane e polvere.

Nel rigore geometrico del Tempio della Valle si sovrappongono ricordi e sensazioni di un altro viaggio.

Quassù, guardando di lontano la città, la presenza della polvere sulle pietre è accettabile, la grandiosità della rovina, la sua oggettiva antichità la rende a un tratto sopportabile. Ripercorrere i propri passi a distanza di anni, in un luogo così lungamente pensato e rielaborato, misura una distanza interna implacabile.

Per spezzare il senso di déjà-vu, è necessario fare qualcosa di non prima fatto. Quella caverna che non è una vera porta sul fianco della piramide l’ho solo vista da lontano nel passato: adesso la Grande Galleria può aprirsi per me con i suoi echi di antichi viaggiatori, con il bagaglio di letture e incisioni che popolano il mio immaginario. Percorrerne l’aria densa è un cammino a metà fra la visione e la liberazione, fino a sbucare all’interno di un solido geometrico puro, la cui uniforme superficie, vibrante solo dei cristalli del granito, non ha niente di umano. È fredda, quasi crudele nella sua perfezione. Quella polvere che tutto riveste, che si insinua beffarda ovunque negli interstizi del presente, qua non esiste, non sfida il sarcofago, unica rottura nel disegno matematico della stanza.

Capisco gli antichi viaggiatori. I secoli sono qui. Mi sdraio anch’io nel sarcofago.
Piramide di Chephren e Micerino

Piramide di Cheope

10_Italo Calvino, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”

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Italo Calvino - Se una notte d'inverno un viaggiatoreI regionali che partono da Roma Termini in direzione di Albano, Velletri e Frosinone sono caldi in inverno come in estate; sono rumorosi, affollati, stanchi crocevia di esistenze. Anche quando, salendovi, sembrano vuoti, inesorabilmente si riempiranno prima della partenza, costringendo i viaggiatori a una forzata convivenza in cui telefonate, litigi, odori, valige ingombranti, cani e gomiti si intrecciano senza pietà, fino alla prossima stazione (forse questo che ho accanto adesso scende), fino alla propria destinazione. Un mosaico le cui tessere, ogni giorno, sempre si scompongono, e sempre si ricompongono a formare un quadro di insindacabile omogeneità. Quante volte ho preso questi treni? Non lo ricordo. Un fluire di oscillazioni fra due stazioni, il treno appeso alla fuga prospettica dei fili elettrificati, sempre uguali a sé stesse.

Un giorno, scorgo in questa sconcertante uniformità spazio-temporale un elemento estraneo, difforme e sospetto. Sopra la rastrelliera, sospeso sopra la mia testa, un lungo tubo di fogli di giornale arrotolati in sezioni di diametro differente (crescenti o decrescenti secondo il punto di vista) e incastrate le une nelle altre: una sorta di cannocchiale cieco. I pendolari che salgono nella vettura vi lasciano scivolare sopra uno sguardo atono e disattento: ma che cosa è questo oggetto, che significa, perché è qui e a che cosa serve? La sua confusa policromia contrasta con le livree tutte uguali delle poltrone, delle tendine, delle pareti grigie del vagone; continuo a fissarla, con il naso rivolto all’insù. Il signore che si accascia nella poltrona di fronte a me segue il mio sguardo e dice: “Ah, quello. C’è un senza tetto alla stazione di Termini che fa questi cosi”. Mi chiedo come questa spiegazione possa essere definitiva come il tono dell’uomo lascia presupporre, visto che per quanto mi riguarda il mistero si infittisce e apre infinite possibilità parallele. Immagino innumerevoli cannocchiali colorati di fogli di giornale, in viaggio sulle linee ferroviarie che si diramano da Roma Termini e innervano tutta la penisola. Raggiungono stazioni sperdute nell’indifferenza generale, finiscono nella spazzatura quando vengono intercettati dagli addetti alle pulizie, solo in rari casi riescono a scendere dal treno e a muovere qualche passo nel mondo reale. Da qualche parte, c’è un uomo invisibile che arrotola fogli di giornale, raggiungendo con paziente perizia una sempre maggiore perfezione del risultato, e invia questo messaggio senza senso in giro per l’Italia. Il treno rallenta alla stazione di Ciampino, mi alzo con fare indifferente. Raccolgo i miei bagagli, afferro il caleidoscopio colorato e scendo dal treno.

Ho ripensato a quel giorno quasi dimenticato, alla sensazione di perdita di senso e allo stesso tempo di una necessaria esistenza di un senso nascosto e inaccessibile nelle pieghe del reale, leggendo (o meglio, rileggendo adesso) Se una notte d’inverno un viaggiatore, ritrovando nell’accumularsi di storie che non verranno poi sviluppate, ma resteranno sospese e senza scioglimento per motivazioni differenti, il clima sospeso di quella giornata, il vorticare di possibili spiegazioni, tutte paradossali, per la presenza di quello strano e incoerente oggetto nel vagone di un treno, la cui evidente inutilità contrastava con l’altrettanto evidente attenzione che era stata posta nella sua realizzazione. Ma perché tutto deve avere un senso?
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