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La seconda volta – [Tre giorni in Cappadocia]

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Per chi voglia visitare la Cappadocia, Göreme è probabilmente il posto più comodo per fare base, visto che si trova praticamente al centro della regione, ed è collegato comodamente tramite dolmus alle altre cittadine: UçhisarÇavusinÜrgüp, Ortahisar, Avanos, Zelve, molte delle quali d’altra parte si possono anche raggiungere a piedi in giornata, distando pochi chilometri, magari prendendo un passaggio per il ritorno.

A lungo abbiamo esitato, nel programmare il viaggio, se andare davvero in Cappadocia, temendo di ricevere una grande delusione: dopo il primo incredibile viaggio ormai abbiamo elaborato una nostra personale idea platonica di Turchia, in cui la possibilità di condividere un paesaggio mozzafiato con orde di turisti russi in maglie fluo che scattano selfie con selfiestick (con tutto il rispetto, ma la poesia ne risente davvero) non trova facilmente posto.

Ma alla fine ci andiamo, in Cappadocia. Scegliamo, per puro spirito di contraddizione, e anche per mantenere basso il budget giornaliero in uno dei luoghi più turistici del paese, l’hotel più scrauso che sia possibile reperire su Booking.com. In questo non veniamo delusi affatto: la camera è circa sei metri quadrati, il letto è incastrato in una nicchia e stando sdraiato puoi aprire graziosamente la finestra con l’alluce. Il bagno – che pure è presente, per quanto incluso nei sei metri quadrati – è chiuso da una tenda da doccia, con buona pace della privacy.

Da qui possiamo partire per i nostri trekking improvvisati, dopo aver fatto sulla splendida terrazza la tipica colazione composta di pomodori e cetrioli, muniti di una cartina totalmente inadatta a rappresentare la complessità degli intrichi geologici della zona. L’incoscienza ci sospinge come sempre.CappadociaIl primo giorno ci dirigiamo decisi verso il Museo a Cielo Aperto di Göreme, patrimonio dell’Unesco, un complesso imperdibile di chiese, cappelle e monasteri scavati nella morbida roccia, collegati da scalette e affrescati. La coda irta di selfiestick che si presenta alla biglietteria ci convince in circa 5 secondi ad abbandonare il progetto. Dunque, che fare con la nostra ridicola cartina? Saltiamo semplicemente il guardrail, ci allontaniamo dalla strada lungo sentieri segnati nella sterpaglia, e via. Ci dirigiamo, seguendo da un certo punto – imprecisabile – in poi, improvvisati cartelli scritti con la bomboletta su cartone, verso la Valle delle Rose (Güllüdere), una delle mete indicate anche dalla Lonely Planet.

Se si vuole, una delle cose più assurde della Cappadocia è che le cittadine hanno una densità di bancarelle di ridicoli souvenir, ristorantini e pensioni che nemmeno la Riviera romagnola a Ferragosto, e le strade sono ingombre di torpedoni come S. Pietro la domenica mattina, però basta saltare il guardrail per entrare immediatamente in un’altra dimensione. Non importa inoltrarsi nella boscaglia per chilometri, bastano pochi metri per essere catapultati in uno dei paesaggi più incredibili che abbia mai visto.

Cappadocia 2In tre giorni, abbiamo camminato per circa venti chilometri al giorno, perdendoci continuamente e ritrovando la strada sempre, semplicemente, salendo più in alto e riorientandoci: Uçhisar arroccata sul suo pinnacolo come un castello di sabbia ha un profilo inconfondibile, ed è perciò il punto di riferimento per eccellenza della Cappadocia.

Sui sentieri che si inerpicano fra i camini delle fate e le intricate volute scavate dalle acque nella tenera roccia vulcanica, non troverai molte persone: c’è troppo caldo, e troppa polvere, evidentemente. Deve essere più comodo ammirare il paesaggio dalle mongolfiere, all’alba, e ritenere così di aver visto la Cappadocia. Cappadocia 3

Ogni valle ha le sue caratteristiche geologiche particolari, ed è perciò unica: ci sono quelle in cui i fianchi delle colline sono stondati, bianchi e soffici come nuvole di zucchero filato, e luccicano al sole in mezzo alle viti color smeraldo. In quelle valli non c’è polvere, c’è sempre un gran silenzio, e ci fermiamo a cogliere qualche ciocca d’uva e a mangiarla, pur temendo il classico arrivo del contadino imbelvito, perché abbiamo dimenticato di portare il pranzo.

Ci sono valli invece dai profili acuti e taglienti, tormentati, in cui strati di roccia rossa si sovrappongono a strati di roccia gialla. In quelle valli si cammina su uno strato spesso e finissimo di polvere morbida come talco, che finisce per colorarti i piedi di splendide nuance arcobaleno, sembra che non finiscano mai ed è davvero difficile orientarsi. Ti prende un po’ di sconforto, ti sembra di esserti perso definitivamente, ma poi avvisti in alto, in mezzo a due pinnacoli, un incongruo insieme composto da una tettoia di canne e un tappeto con intorno un divano e due poltrone: là c’è modo di riposare e di bere qualcosa.

C’è una valle (Valle dell’Amore – Görkündere) in cui enormi blocchi di pietra hanno protetto dall’erosione colonne altissime di sedimenti vulcanici, e ti chiedi come facciano ad essere ancora in piedi, così sottili e apparentemente fragili. In altre, in mezzo agli sterpi bruciati dal sole, improvvisamente appare un giardino verde e curato, e c’è un uomo che con la zappa arieggia il terreno intorno alle bietole.

Nella Valle dei Piccioni (Güvercinlik) incontriamo, del tutto inaspettato, un maestoso albero di gelso rosso, carico di more. Sono anni che non ne mangio e, per quanto possa temere l’ira funesta del contadino turco, non resisto, ne afferro qualcuna, le mani, le braccia, la maglia bianca si tingono di succo come fosse sangue: le more di gelso, ormai del tutto mature, si spaccano solo a sfiorarle. Allora mi metto sotto l’albero e stacco i frutti direttamente con i denti, e sanno di sole e polvere insieme quando esplodono in bocca. Ormai, se i passi che si sentono in avvicinamento sono quelli del suddetto contadino, sarà difficile dissimulare la malefatta: mi vedo già al posto di polizia di Göreme.
Cappadocia 4L’attesa del tramonto è un momento magico, sempre. Quando l’ora si avvicina, desidero sempre restare ferma dove mi trovo, e guardare il paesaggio, seppure immobile, cambiare a vista d’occhio al mutare delle ombre, percepire il momento preciso in cui davvero, indipendentemente dall’orologio, con l’inabissarsi del sole il giorno finisce.

E così abbiamo atteso il tramonto nella Valle di Zelve, seduti su un crinale, le ombre che si allungavano a complicare i già labirintici merletti di cenere vulcanica, il vento fresco che si alzava e l’ultimo autobus che partiva, lasciandoci da soli nel silenzio.Cappadocia 5Cappadocia 6

La seconda volta – [La fine del Ramazan nella Valle di Ihlara]

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IMG_8515_FotorAlla fine del Ramazan si celebra Șeker Bayrami, la Festa dei Dolci, tre giorni di festività con cui si conclude il mese del digiuno. È una di quelle occasioni da trascorrere rigorosamente in famiglia, e dunque la Turchia nei giorni precedenti all’inizio della festa ribolle di vitale fermento: tutti si spostano, tornano dalle città al paese d’origine, caricano sugli autobus a lunga distanza, o sui più domestici dolmus, bambini e anziani genitori per andare in visita dai parenti lontani, recando con sé monumentali pacchi di provviste e doni.

Abbiamo notato, in effetti, un certo andirivieni più intenso del solito, ma senza allarmarci eccessivamente; abbiamo viaggiato un po’ stretti ma niente più.

Poi, durante la festa il paese si ferma, come la bonaccia improvvisamente investe la superficie del mare al calare del vento. I negozi sono chiusi, i taxi non circolano, i dolmus dormono negli otogar. Ci dà questa informazione, come fosse un’inconfutabile rivelazione divina ma con un tono fra l’esterrefatto e l’incredulo per la nostra dabbenaggine, il proprietario dell’Akar Pansion di Ihlara, servendo un enorme vassoio fumante di saç tava: il giorno dopo non ci possiamo sicuramente muovere di lì. Il padre si affaccia dalla porta della cucina asciugando le mani nel grembiule, e annuisce gravemente, suggellando la profezia con un lampo degli occhi profondi, nascosti fra sopracciglia color neve sul volto asciugato dal sole.

Ma l’inconveniente sopraggiunto non ci farà modificare il nostro piano: il giorno dopo vogliamo essere a Göreme in Cappadocia, dopo aver percorso la Valle di Ihlara, e ci saremo. La camminata nella valle faceva già parte del programma. Vuol dire che invece di tornare a prendere gli zaini, ce li porteremo dietro, come le lumache portano il guscio. In fondo basta percorrere la valle per circa 14 chilometri per ritrovarsi a Selime, sulla strada per Aksaray, dove in qualche modo si dovrà pur fare.

IMG_8513_FotorLa Valle di Ihlara è già quasi Cappadocia, ma non ancora, incastonata e quasi nascosta com’è fra ripidi fianchi rocciosi, brulli e modellati dall’erosione, ma rasserenata dallo scorrere sul fondovalle del Melendiz Suyu, che crea una inaspettata oasi verde, distendendosi con le sue acque fresche e scintillanti, su cui si allungano come lunghissimi capelli ciuffi di alghe, danzanti nella corrente. La osserviamo dall’alto al calare del sole, mentre una mandria di vacche rosse e stanche, visione campestre di infinita malinconia, incrocia il nostro cammino, e ci sembra in fondo una cosa fattibile.

La mattina successiva, zaino in spalla, ci inoltriamo nella valle deserta. Come ci era capitato altrove l’anno precedente, si ripete l’incanto della biglietteria chiusa e sguarnita, i cancelli aperti, e con un misto di timore reverenziale e di incredulità iniziamo a scendere i ripidi gradini che conducono presto al sentiero di fondovalle, dove gorgoglia il fiume. Quella discesa conduce in una dimensione nuova, ammantata di silenzio austero e potente.

Chiese rupestriSui fianchi riarsi della montagna, apparentemente morbidi come nuvole di zucchero filato, fra i massi erratici che sembrano quasi compagni di viaggio, si aprono carichi di promesse gli ingressi delle chiese rupestri, dai nomi poetici ed evocativi, la Kokar Kilise, la Yilanli Kilise, la Sümbüllü Kilise: la Chiesa Profumata, la Chiesa del Serpente, la Chiesa dei Giacinti. Riecheggiano di storie perdute e incomprensibili, da inventare di nuovo, sempre diverse, una storia per ogni viaggiatore che vi giunga all’interno. Tutte ti accolgono con la stessa penombra lacerata da qualche polverosa striscia di sole, che appena lambisce gli affreschi dai vivaci contrasti.

Teorie di ieratici santi, dagli occhi vuoti e cancellati dalla parentesi iconoclasta, ma di cui si indovinano ancora i tratti volitivi segnati da pennellate compatte, si allineano sulle pareti silenziose, campite di tappeti geometrici che si distendono a coprire ogni angolo. Quella roccia che all’esterno, alla luce del sole, si modula semplicemente nelle tonalità dall’arancio al rosso al bruno, è che come se scavandola avesse liberato un mondo nuovo di colori e figure.Il fiume Melendiz SuyuQuesto silenzio surreale accompagna tutto il percorso: sembra uno di quei giorni in cui l’umanità si è nascosta e la natura è rimasta da sola. Di lontano, volteggia una piccola colonia di rapaci attraverso la stretta striscia di cielo racchiusa fra le cime delle colline. Sembra quasi sacrilego avventurarsi, e il viaggiatore si sente osservato.

Sulla sponda del fiume ci sediamo a consumare frutta secca e acqua prima di riprendere il cammino. I fianchi delle montagne si avvicinano, il fiume scivola in mezzo, basta continuare a seguirlo. Infine, nel pomeriggio ormai inoltrato, il respiro della valle si dilata e ci troviamo al termine del percorso, si scioglie l’incanto nelle voci delle persone che finalmente ricominciamo ad incontrare sul sentiero.

A Selime, come ci era stato predetto davvero non ci sono mezzi.

Per la prima – e unica – volta in Turchia, proviamo la sensazione, con i nostri zaini che denunciano chiaramente il nostro status di stranieri, di essere prede. Ci si avvicinano più persone, a turno, che offrono un passaggio in cambio di soldi, dicendo che tanto non troveremo un modo diverso per muoverci quel giorno. Quando cerchiamo un passaggio sui pulmini turistici, gli autisti ci mettono i bastoni fra le ruote e si rifiutano di farci salire, accampando problemi di assicurazioni e controlli, ridicoli per noi che abbiamo viaggiato seduti nei corridoi degli autobus e nei cofani posteriori dei taxi. Ma in effetti, camminando lungo la strada e provando ad alzare il pollice, la macchine che sfrecciano in direzione di Aksaray rispondono suonando il clacson, gli uomini alla guida alzano le spalle e allargano le braccia, tutte le vetture sono colme di nonni nipoti e animali domestici in corsa verso casa, verso la festa.
IMG_8517_FotorQuando ormai, passate alcune ore di inutile autostop, ci stiamo rassegnando, si fermano due ragazzi su una macchina rossa, musica a palla e finestrini completamente abbassati. Una cabrio, praticamente. Loro, vestiti di jeans attillati e camicie squillanti che dovrebbero essere alla moda, ma ti proiettano invece in una serie tv d’infima categoria. Ci fanno cenno di salire e partono lanciati come folli. Non parlano altra lingua eccetto la loro, non ci parlano ma non parlano nemmeno fra di loro.

Più volte, osservando le nude colline sfrecciare ai lati della macchina e a tratti il tachimetro che segna costante fra i 100 e i 120 km/h, mi chiedo se la mia vita non dovrà finire in un avventato sorpasso mediorientale. Ma poi questi enigmatici ragazzi ci porteranno davvero dove ci hanno detto che stanno andando? Non poter guardare in faccia due persone che ti portano in auto e non ti parlano ha un che di poco rassicurante. Gli incontri del pomeriggio hanno lasciato uno strascico amaro.

Arriviamo infine ad Aksaray, e la tensione inizia a sciogliersi quando di nuovo possiamo guardarli in viso: sorridono, rifiutano decisamente qualsiasi cosa per il passaggio, ripartono in una nube sonora che non si è mai interrotta, verso quel loro misterioso impegno che li ha condotti sulla nostra strada, e che resto con la curiosità di conoscere. Prendiamo l’ultimo autobus per Nevsehir, da dove si diparte la ragnatela dei percorsi della Cappodocia. Ci sediamo nell’ultimo sedile, stanchi e ancora silenziosi. Piano piano il dolmus si riempie.

Un ragazzino dal braccio ingessato e fermato al collo con un fazzoletto, poco dopo la partenza si alza dal suo posto a fianco della mamma e ci si siede accanto. Ci osserva, a lungo, incuriosito. Occhi scuri luccicanti come stelle sotto la frangetta nera. Infine rompe il silenzio, col suo coraggio di bambino. Parla per due ore, fa domande, ascolta attento le risposte perché vuole sapere molte cose, un dialogo in lingue eterogenee guidato dalla luce degli occhi.

Dire i numeri con le dita è la cosa più semplice del mondo, e se troviamo un argomento che contenga dei numeri si può parlare così per ore. Così ci dice quanti anni ha lui, otto, quanti ne hanno la mamma e le sorelle che viaggiano anche loro sull’autobus, quanti ne hanno tutte le persone che conosce. Si è rotto il braccio andando in bicicletta, anche questo è semplice da spiegare. Ma un’altra cosa facile da dire è il nome dei luoghi, e così dice i nomi dei paesi che attraversiamo, dei paesi che vediamo lontano sulle colline, di quelli a cui conducono le strade che incrociamo. È facile anche dire il nome delle persone, e quindi ci chiede il nostro, ci dice il suo, ci presenta tutti coloro che siedono nell’autobus, quando scendono e quando salgono.

Quando infine arriva alla sua fermata, scrivo sulla cartina, in corrispondenza del suo paese, Acigöl, un puntino vago sulle strade della Cappodocia, senza stelline a contrassegnare qualcosa di notevole da vedere, il suo nome. Mustafa. Allora davvero ci rilassiamo sui sedili, ci guardiamo e i nostri occhi sono bagnati di commozione: sottovoce, ci diciamo che tutti i momenti di quel giorno ci hanno portato lì, e gli occhi luminosi di Mustafa che saluta con la mano, incorniciato nel finestrino, hanno già cancellato le sensazioni spiacevoli delle ultime ore.IMG_8516_Fotor


La seconda volta era nel luglio 2014

La seconda volta – [Egirdir e Sagalassos, città antiche e moderne incastonate fra le vette]

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EgirdirArriviamo a Egirdir in un tramonto rarefatto, quando la montagna distende il suo vasto corpo stanco sull’acqua madreperlacea. Egirdir è uno smilzo funambolo sospeso sulla superficie senza onde, legato ancora alla sponda da un nastro sottilissimo ma ormai sul punto di sciogliersi per permettergli di iniziare il volteggio. È un fanciullo in calzamaglia verde che esegue il suo numero per la corte delle vette millenarie, su cui domina di lontano il turrito Davraz Daği.

Un paesaggio pacato, senza suono, senza eccessi, in cui l’apparente immobilità del quadro è il risultato di innumerevoli minutissimi moti: il granchio che si lascia lambire sulla battigia, la foglia che plana roteando senza peso, il sasso che canta sommesso quando il respiro del lago si ritira.

Forse ancor più della prima volta, questa seconda volta in Turchia non posso raggiungere una meta senza immaginarne infinite altre. Quante città perdute in mezzo a queste grandi montagne, quanti sentieri, quante gole ombrose e quante assolate pietraie. Come lo sguardo, volgendosi intorno ad interrogare il perimetro del lago, così anche il pensiero, instancabile, cerca di spingersi sempre oltre, come ad accarezzare almeno tutto ciò che non riesce a possedere. Ogni partenza non può essere che un arrivederci.

SagalassosDi città in città, da un otogar all’altro, si rivelano infiniti insondabili spazi inabitati, deserti, regno della capra e del rettile. Ma non si può escludere che un tempo questo paesaggio non fosse profondamente diverso. Ci sono città accuratamente nascoste sui fianchi delle montagne, dai nomi fantastici ad evocativi.

Su un altopiano dell’Ak Dağ, la Montagna Bianca, andiamo ad incontrare la pisidia Sagalassos, che forse già si cela dietro la Salawassos menzionata nelle tavolette ittite, più di tremila anni fa. Ad inafferrabile altezza, fra 1400 e 1700 metri sul livello del mare, i marmi bianchi distesi a scaldarsi fra gli arbusti spinosi rappresentano un immenso rompicapo archeologico. Ci saranno state risorse a giustificare la grandezza di questa città, ci saranno state strade e motivi per arrivarvi, per raggiungerla dopo un cammino certo faticoso: non solo la maestosa bellezza del luogo.

Bellezza, che parola abusata e logora. Ne detesto ormai il suono, trasformato in stolido vessillo promozionale, così facile e di sicuro effetto. Eppure sotto il bagliore accecante del sole è complicato trovare un altro termine che riassuma i contrasti violenti dei colori, la forza della roccia, la purezza dell’aria e l’enormità dell’abbraccio di cielo e terra in cui ci troviamo stretti.

Sacro. Forse, la parola sacro mi piace di più. In bilico con le spalle alla montagna e il volto esposto al vento che sale dalle gole montane, penso a Delfi, al respiro sotterraneo che emerge dal profondo. Penso alle incisioni rupestri che nella Valle delle Meraviglie, sulle Alpi Marittime, omaggiano il Monte Bego da tempi immemorabili. Penso alla danza dei dervisci, un palmo rivolto al cielo e uno alla terra. Anche Sagalassos in mezzo alle montagne potrebbe roteare così, selvaggia e primordiale.

Alessandro Magno e gli imperatori romani adornarono di merletti di marmo queste solitudini. Quando ripetute serie di terremoti ne ebbero ragione, nel VII secolo della nostra era, semplicemente la città fu abbandonata, senza rimpianti forse, lasciando indietro i complicati intrecci e i sapienti lavori di trapano e scalpello. Mentre altrove le città crescono una sull’altra, o servono da cava per gli insediamenti futuri, in Pisidia sotto la cupa vegetazione le colonne, gli architravi, i fregi scolpiti giacciono come castelli di carte atterrati per scherzo dal soffio di un bambino, che attendono solo, con altrettanta grazia, di essere risvegliati per nuovi giochi.

Ninfeo di SagalassosNinfeo di Sagalassos


La seconda volta era nel luglio 2014