Per chi voglia visitare la Cappadocia, Göreme è probabilmente il posto più comodo per fare base, visto che si trova praticamente al centro della regione, ed è collegato comodamente tramite dolmus alle altre cittadine: Uçhisar, Çavusin, Ürgüp, Ortahisar, Avanos, Zelve, molte delle quali d’altra parte si possono anche raggiungere a piedi in giornata, distando pochi chilometri, magari prendendo un passaggio per il ritorno.
A lungo abbiamo esitato, nel programmare il viaggio, se andare davvero in Cappadocia, temendo di ricevere una grande delusione: dopo il primo incredibile viaggio ormai abbiamo elaborato una nostra personale idea platonica di Turchia, in cui la possibilità di condividere un paesaggio mozzafiato con orde di turisti russi in maglie fluo che scattano selfie con selfiestick (con tutto il rispetto, ma la poesia ne risente davvero) non trova facilmente posto.
Ma alla fine ci andiamo, in Cappadocia. Scegliamo, per puro spirito di contraddizione, e anche per mantenere basso il budget giornaliero in uno dei luoghi più turistici del paese, l’hotel più scrauso che sia possibile reperire su Booking.com. In questo non veniamo delusi affatto: la camera è circa sei metri quadrati, il letto è incastrato in una nicchia e stando sdraiato puoi aprire graziosamente la finestra con l’alluce. Il bagno – che pure è presente, per quanto incluso nei sei metri quadrati – è chiuso da una tenda da doccia, con buona pace della privacy.
Da qui possiamo partire per i nostri trekking improvvisati, dopo aver fatto sulla splendida terrazza la tipica colazione composta di pomodori e cetrioli, muniti di una cartina totalmente inadatta a rappresentare la complessità degli intrichi geologici della zona. L’incoscienza ci sospinge come sempre.Il primo giorno ci dirigiamo decisi verso il Museo a Cielo Aperto di Göreme, patrimonio dell’Unesco, un complesso imperdibile di chiese, cappelle e monasteri scavati nella morbida roccia, collegati da scalette e affrescati. La coda irta di selfiestick che si presenta alla biglietteria ci convince in circa 5 secondi ad abbandonare il progetto. Dunque, che fare con la nostra ridicola cartina? Saltiamo semplicemente il guardrail, ci allontaniamo dalla strada lungo sentieri segnati nella sterpaglia, e via. Ci dirigiamo, seguendo da un certo punto – imprecisabile – in poi, improvvisati cartelli scritti con la bomboletta su cartone, verso la Valle delle Rose (Güllüdere), una delle mete indicate anche dalla Lonely Planet.
Se si vuole, una delle cose più assurde della Cappadocia è che le cittadine hanno una densità di bancarelle di ridicoli souvenir, ristorantini e pensioni che nemmeno la Riviera romagnola a Ferragosto, e le strade sono ingombre di torpedoni come S. Pietro la domenica mattina, però basta saltare il guardrail per entrare immediatamente in un’altra dimensione. Non importa inoltrarsi nella boscaglia per chilometri, bastano pochi metri per essere catapultati in uno dei paesaggi più incredibili che abbia mai visto.
In tre giorni, abbiamo camminato per circa venti chilometri al giorno, perdendoci continuamente e ritrovando la strada sempre, semplicemente, salendo più in alto e riorientandoci: Uçhisar arroccata sul suo pinnacolo come un castello di sabbia ha un profilo inconfondibile, ed è perciò il punto di riferimento per eccellenza della Cappadocia.
Sui sentieri che si inerpicano fra i camini delle fate e le intricate volute scavate dalle acque nella tenera roccia vulcanica, non troverai molte persone: c’è troppo caldo, e troppa polvere, evidentemente. Deve essere più comodo ammirare il paesaggio dalle mongolfiere, all’alba, e ritenere così di aver visto la Cappadocia.
Ogni valle ha le sue caratteristiche geologiche particolari, ed è perciò unica: ci sono quelle in cui i fianchi delle colline sono stondati, bianchi e soffici come nuvole di zucchero filato, e luccicano al sole in mezzo alle viti color smeraldo. In quelle valli non c’è polvere, c’è sempre un gran silenzio, e ci fermiamo a cogliere qualche ciocca d’uva e a mangiarla, pur temendo il classico arrivo del contadino imbelvito, perché abbiamo dimenticato di portare il pranzo.
Ci sono valli invece dai profili acuti e taglienti, tormentati, in cui strati di roccia rossa si sovrappongono a strati di roccia gialla. In quelle valli si cammina su uno strato spesso e finissimo di polvere morbida come talco, che finisce per colorarti i piedi di splendide nuance arcobaleno, sembra che non finiscano mai ed è davvero difficile orientarsi. Ti prende un po’ di sconforto, ti sembra di esserti perso definitivamente, ma poi avvisti in alto, in mezzo a due pinnacoli, un incongruo insieme composto da una tettoia di canne e un tappeto con intorno un divano e due poltrone: là c’è modo di riposare e di bere qualcosa.
C’è una valle (Valle dell’Amore – Görkündere) in cui enormi blocchi di pietra hanno protetto dall’erosione colonne altissime di sedimenti vulcanici, e ti chiedi come facciano ad essere ancora in piedi, così sottili e apparentemente fragili. In altre, in mezzo agli sterpi bruciati dal sole, improvvisamente appare un giardino verde e curato, e c’è un uomo che con la zappa arieggia il terreno intorno alle bietole.
Nella Valle dei Piccioni (Güvercinlik) incontriamo, del tutto inaspettato, un maestoso albero di gelso rosso, carico di more. Sono anni che non ne mangio e, per quanto possa temere l’ira funesta del contadino turco, non resisto, ne afferro qualcuna, le mani, le braccia, la maglia bianca si tingono di succo come fosse sangue: le more di gelso, ormai del tutto mature, si spaccano solo a sfiorarle. Allora mi metto sotto l’albero e stacco i frutti direttamente con i denti, e sanno di sole e polvere insieme quando esplodono in bocca. Ormai, se i passi che si sentono in avvicinamento sono quelli del suddetto contadino, sarà difficile dissimulare la malefatta: mi vedo già al posto di polizia di Göreme.
L’attesa del tramonto è un momento magico, sempre. Quando l’ora si avvicina, desidero sempre restare ferma dove mi trovo, e guardare il paesaggio, seppure immobile, cambiare a vista d’occhio al mutare delle ombre, percepire il momento preciso in cui davvero, indipendentemente dall’orologio, con l’inabissarsi del sole il giorno finisce.
E così abbiamo atteso il tramonto nella Valle di Zelve, seduti su un crinale, le ombre che si allungavano a complicare i già labirintici merletti di cenere vulcanica, il vento fresco che si alzava e l’ultimo autobus che partiva, lasciandoci da soli nel silenzio.