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La cupola, la città. Quando tutto sembra in bilico

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Santa Maria del FioreSolo la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore è alta come un palazzo di sei piani, ardita come tutta l’incredibile creazione di Brunelleschi, “erta sopra e’cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani”. La guardo contro luce, volute e rosoni di marmo un po’ scomposti, il sole che filtra ancora, pur guizzando da dietro le colline, attraverso le vetrate porpora e oltremare. Mi volto ancora verso il parapetto: la città è distesa là sotto, la città amata, le strade conosciute, i palazzi con i loro inconfondibili lineamenti, i giardini e le corti nascoste che solo da questa altezza si svelano.

Ma tutto sembra in bilico.

Guardo accanto a me i profili delle mie amiche. Ci attardiamo nel freddo, al tramonto, senza parlare ormai, dopo aver giocato a lungo a indovinare l’identità degli edifici che si distendono sotto di noi, per un inespresso desiderio comune di fermare questo momento. Il gioco ci ha consentito di non parlare di quello che proviamo davvero oggi, ma insieme scava già come un solco di nostalgia.

Un tramonto che ci appare carico di significato. I capelli biondi dell’una e i ricci indomabili dell’altra. Occhi chiari entrambe ma così profondamente diversi: dolci e pacati gli uni, guizzanti di energia gli altri. Siamo diventate amiche abbastanza da adulte da serbare nei nostri rapporti, per quanto quotidiani e intensi, un velo di riserbo che ci impedisce di superare un segno, di sciogliere l’emozione nel gesto.La lanterna di Santa Maria del Fiore

Ancor più che all’interno della cattedrale, quando le scalette claustrofobiche si sono improvvisamente aperte in alto sulla vista della cupola affrescata dal Vasari con la sua immaginifica teoria di demoni infernali, e sul geometrico ordito bianco e nero del pavimento giù in basso, le proporzioni fra le cose sembrano prive di senso. Le persone, giù indicibilmente lontane, si fondono nell’indistinto. Sembra che la città esista indipendentemente da loro e, ovviamente, anche da noi, anche se le nostre mani posate sul ferro freddo della ringhiera sono più concrete delle ombre che tracciano percorsi sui marciapiedi, in basso.

Oggi, anche se siamo qua travestite da turiste, combattiamo sordamente. Una battaglia inutile, ne sono certa, ma che restituisce un po’ di senso alla fatica, allo scoraggiamento, all’impotenza, alla rabbia e alla frustrazione così spesso provati negli ultimi due anni. Evidentemente, c’è qualcosa per cui vale la pena resistere. Quando le proporzioni si perdono, e quando ciò che sembra certo vacilla, è più facile scoprirlo.

Un sollievo si diffonde. La mia passione, che credevo morta, respira ancora. Aggiorniamo continuamente la pagina internet. Piano piano, la petizione raccoglie firme mentre l’ombra della cupola si allunga ancora come un immenso gnomone, divora angoli di strade, si affievolisce infine e scompare. Tramonto su Firenze

Perché chiamarla Valle dell’Inferno?

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Timidi frammenti color indaco si riversano fluttuando nelle pozze d’acqua che il nubifragio si è lasciato dietro, la notte scorsa. O sono forse porte improvvisamente aperte, solo per oggi, verso un’altra dimensione, dove il cielo dimora in terra e le nubi si nascondono fra le radici degli alberi?

Coriandoli di foglie argentee orlano la superficie dell’acqua, si ispessiscono sui sentieri trasformandoli in morbidi tappeti, e se apparentemente possono sembrare solo uno scherzo bonario, disteso sul bosco da qualche folletto silvestre, sono in realtà testimoni di una furia degli elementi difficilmente immaginabile, ora che le dita del sole riscaldano le punte delle foglie, sfiorandosi in una reciproca carezza a mezz’aria.

Santa Brigida - Valle dell'Inferno 2Santa Brigida - Valle dell'InfernoGli stessi frammenti di cielo scorrono nel ruscello, si affrettano verso la cascate e si infrangono sulle rocce solo per ricomporsi dopo qualche voluta di danza, là dove i raggi trafiggono il tetto volante degli alberi e si diffondono a terra come in una caverna.

L’aria è spessa nella Valle dell’Inferno, nascosta fra i rilievi preappenninici sopra Santa Brigida, fra il Mugello e il Valdarno, pochi chilometri da Firenze che misurati in termini non convenzionali possono dilatarsi nello spazio e anche nel tempo. È spessa e calda ma senza inganni ed esalazioni oltremondane, solo il tepore quasi palpabile che si sprigiona dal sottobosco, investe l’olfatto, ottunde il rumore dei passi, addormenta i rami e risveglia insieme i riflessi multicolori dei coleotteri.IMG_1450IMG_1460

Dunque perché chiamarla Valle dell’Inferno se ti avvolge come in un nido? La domanda continua a risuonarmi dentro finché l’immobilità dei rami non assume i connotati dell’incantesimo.

Cercherai invano l’uomo, negli sprazzi di sole che infrangono la volta della Valle dell’Inferno. Solo il respiro trattenuto degli alberi, in un’incomprensibile stasi vegetale, e delicate ali di coleottero sotto la loro scorza metallica. Sarà questo il motivo del nome?

L’uomo lo ritroverai più in alto sul crinale, ma solo in segni sparsi e consunti, dove i rovi abbracciano i muri di qualche casolare, e sulla cima del Monte Rotondo, dove il lacerto di muro di un non più ravvisabile castello si protende ancora ostinato, come ad indicare una strada ancora più su. Solo scendendo nuovamente a valle i segni si fanno più concreti, a lato dei sentieri indicati da segnavia spolverati di licheni. IMG_1470IMG_1475Antico segnavia Pontassieve


Il post è stato scritto all’indomani del nubifragio che ha colpito Firenze il 1 agosto 2015

La seconda volta – [@Istanbul]

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Istambul 3La seconda volta è necessario essere un po’ più coraggiosi, perché è difficile sottrarsi al timore che venga meno la magia e che il disincanto irrompa a colmare senza pietà la distanza fra realtà e immaginazione. La seconda volta, le cose hanno un aspetto usato o sono forse gli occhi ad esserlo, la stessa musica ormai muove pupazzi appesi agli specchietti retrovisori e il vento spira meno fresco nelle strade, senza sollevare polvere di aspettative.

La seconda volta è ancora una volta Ramazan fra i minareti pavesati di lumi della Moschea Blu e nelle aiuole dell’Ippodromo, ancora si stendono tappeti sull’erba e le nonne li cospargono di pomodori e trionfi di miele, ancora si attende a piedi nudi il tramonto riverberato dal canto mentre i gozleme già sfrigolano sulle piastre. Per un attimo il copione sembra già noto e consunto l’amalgama degli ingredienti. IstambulInizia così la seconda volta, nella sera calda di Istanbul. Quella pericolosa sensazione che il momento attuale non possa gareggiare con il ricordo e con l’ideale si infrange immediatamente. Questa volta la notte della città è già un po’ nostra: non ci spaventano la sua complessa topografia, né i suoni di una lingua così diversa dalla nostra. La consapevolezza che parleremo con tutti senza sapere più di dieci parole di turco ci regala una disinvoltura nuova: questa volta non stiamo ai margini della festa ma sappiamo che possiamo sedere nell’erba con gli altri e godere lo strano e poetico risveglio crepuscolare che sta per compiersi.

Afferriamo a casaccio da uno degli enormi vassoi che gli ambulanti, grondando sudore ma senza tradire fatica in volto, fanno volteggiare senza posa per l’Ippodromo, questo millenario cuore pulsante di Bisanzio, un qualcosa di commestibile ma incomprensibile nella sua essenza e nella sua modalità di consumazione. Siamo dunque sprovvisti di tutto, nel nostro stile più caratteristico, eccetto una bottiglietta d’acqua e queste strane polpette in cui si indovina la forma del pugno chiuso che le ha modellate – scopriremo più avanti in quante varianti possono declinarsi queste deliziose çig köfte, carne cruda bulgur e spezie, piccantissime da far venire le lacrime agli occhi: ecco perché la vaschetta si vende sempre accompagnata da foglie di lattuga. Le persone che si affollano attorno, riempiendo pian piano ogni angolo della stretta aiuola fra la Colonna Serpentina e il muro perimetrale della Moschea Blu, scrutano fra lo stupito e il divertito la nostra totale mancanza di organizzazione, e si danno un po’ di gomito fra loro.

È buffo essere così esotici e strani in Turchia. E così, con quel misterioso incantesimo che ci accompagna in questo paese e fa diventare ogni cosa semplice, la nostra mensa si arricchisce lentamente: qualcuno accanto sbuccia cetrioli in quantità per una famiglia numerosa, ed ecco che adesso ne possediamo un paio anche noi, qualcun altro ci posa davanti un piatto colmo di involtini di riso e foglie di vite, un ragazzino porta due bicchieri di aranciata, arrivano dolci, frutta secca e bicchieri di tè bollente, continuamente riempiti, per concludere degnamente la cena. Finché non decidiamo ad alzarci qualcuno continua a portarci qualcosa: almeno sappiamo dire grazie in turco! I giovani sono come sempre curiosi, ci chiedono da dove veniamo, vogliono raccontare se stessi e lo spirito del Ramazan, si parla a lungo in inglese della Turchia e di Istanbul; gli anziani guardano e sorridono con gli occhi, agitano sacchetti di plastica e fanno gesti che vogliono dire: prendeteli e sedetevici sopra, che diamine, l’umidità inizia a sentirsi sull’erba! Istambul 1Per fortuna, anche la seconda volta la magia è intatta.

Il giorno dopo, la luce galleggia acquosa nelle stanze senza finestre del Topkapi, silenziose e ovattate, penetrando in lame dal soffitto, trascorrendo e ondeggiando sulle pareti ricoperte di piastrelle colorate (aggiunte, tolte, sostituite chissà quante volte nei secoli, fino a che i disegni hanno cessato di incorniciare le porte e di dare un senso all’intrico decorativo). Deve esserci il mare, lassù in alto, e noi siamo negli abissi: non si spiega altrimenti il fresco che trasmettono i muri.

Ma soprattutto la città. Camminiamo, vaghiamo per ore senza cercare niente in particolare nelle stradine di Beyoğlu, fra la Torre di Galata, Istiklar Caddesi e il mare, profumo di panetterie e vecchi negozi di antiquariato pieni di cianfrusaglie, bambole e bauli, velocipedi e sciabole. Le lunghissime strade fra Sultanhamet e la Yenikapi sono un susseguirsi ininterrotto di enormi negozi che commercializzano sfarzosi e improbabili abiti da cerimonia in quantità che difficilmente possono trovare un mercato (quanti matrimoni, quante ricorrenze, quante festività devono esserci a Istanbul per giustificarli?), un enigma di difficile comprensione sovrastato dai clacson di onnipresenti ingorghi metropolitani, che si spengono di colpo nei vicoli dove i seminterrati odorano di pelle semilavorata.

Entriamo nelle moschee a tutte le ore per trovare il silenzio o il canto: nella Moschea Blu al mattino presto, nella Moschea di Beyazit sfuggendo al caos del Gran Bazar, nella Moschea di Solimano poco prima che inizi la preghiera e che l’immenso spazio orizzontale definito dalle basse orbite dei candelabri si riempia di gente. Poco prima di imbarcarci, allo scalo di Yenikapi, per Bursa, entriamo nella Küçük Aya Sofya Camii, la piccola Santa Sofia: piccolo gioiello del VI secolo voluto da Giustiniano e Teodora. Le colonne bizantine dai complicati capitelli a traforo, gli architravi in marmo che si incurvano a formare ampi golfi incorniciano le calligrafie cinquecentesche in azzurro e bianco. Non c’è nessuno in questo spazio che odora ancora un poco di polvere e di tappeti ma già respira di vento marino. Finché un gruppo di bambini e bambine irrompe nella moschea, i tappeti ospitano spericolate capriole, le nicchie si trasformano in nascondigli e le volte risuonano di grida e risate.
Istambul 7Istambul 8Istambul 9


La seconda volta era nel luglio 2014

Un nuovo inizio

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In due anni ho fotografato i fiori del Thelocactus exaedrophorusin tutti i modi, eppure non riesco proprio a stancarmene. Pochi dei miei fiori mi piacciono così tanto. Mi piacciono i primi fiori della stagione, come questo che fiorisce adesso, ancora indecisi e fragili con i loro petali spiegazzati di sonno, venati di rosa, sottili e trasparenti come ali di libellula. Mi piacciono i fiori che si aprono più avanti nell’estate, gloriosi e splendenti di riflessi metallici. Mi piacciono i fiori che preannunciano l’autunno, più pacati e distratti.

Eppure ogni anno qualcosa è diverso: il primo fiore del Thelocactus mi dice che un nuovo ciclo inizia, ma che cosa ci sia in serbo ancora non è dato saperlo, quale sfumatura avrà il prossimo fiore?
Thelocactus exaedrophorus Thelocactus exaedrophorus Thelocactus exaedrophorus Thelocactus exaedrophorus

L’Echinopsis chamacereus e la messa a fuoco del rosso

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L’Echinopsis chamacereus è una pianta decisamente solida e resistente: quando è arrivata qua nel 12 mq era solo una talea di belle speranze, ma nel giro di due anni è ormai diventata una delle decane del balcone, continuando a proliferare con nuovi fusti che spuntano sia dal terreno che dai fusti già esistenti. Se ne è altamente fregata della pioggia, non ha dato alcun segno di sofferenza per la molta e imprevista umidità di questo inverno, e adesso ha iniziato a fiorire. L’unico accorgimento che mi sono accorto di doverle usare p di non esporla ai raggi troppo diretti del sole: è una pianta che preferisce posizioni sì soleggiate ma riparate nelle ore più calde della giornata. Eppure, mi sono accorto di non aver mai premiato abbastanza la sua fedeltà nel corso di questi anni: non le dedico mai molte foto. Solo ora credo di aver capito il perché: in realtà io le foto le faccio, ma il colore dei petali di questo fiore manda in tilt la macchina fotografica, e le foto vengono sempre un pochino fuori fuoco, o completamente fuori fuoco. Non ho una spiegazione scientifica per questo fenomeno, posso solo prenderne atto… Peccato, perché sono fiori comunque molto belli, per quanto non spettacolari come le altre Echinopsis che possiedo!
Echinopsis chamacereus Echinopsis chamacereus Echinopsis chamacereus

Solo per un giorno

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I fiori delle Echinopsis sono decisamente fra i miei preferiti, per le loro grandi corolle delicate e dal profumo intenso. Questa magia dura a stento il tempo di una giornata: dalla mattina alla sera, o dalla sera alla mattina a seconda della specie, la stella dei petali si distende e appassisce. Eppure, il prodigio si prepara nel corso di lunghe settimane, durante le quali il boccio prima spunta, poi si allunga progressivamente e con grande lentezza, per poi ingrossarsi poco a poco, e infine fremere ed aprirsi di colpo. Quanto lavoro, quanta attesa e quanta preparazione, per godere del sole e del vento appena poche ore, che sono evidentemente sufficienti, nell’economia della natura, perché la pianta compia la propria missione biologica.

Quando il tempo che possiedo mi sembra poco per tutto ciò che vorrei fare e non riesco a fare, per i progetti che non riesco mai a portare a termine, per gli argomenti da studiare, per i libri da leggere, per le persone da incontrare, penso a tutta questa effimera perfezione che dura solo per un giorno, e mi sembrano vane, almeno per un po’, tutte le preoccupazioni.
Echinopsis Echinopsis Echinopsis Echinopsis Echinopsis Echinopsis

Le mie delicate trasparenze e uno schiacciante confronto

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Dirò a mia parziale discolpa che le Echinopsis di cui mi fregiavo hanno sofferto molto questo inverno per il disastro della serra: molte sono marcite dopo aver preso incidentalmente l’acqua per due giorni, ma nonostante tutto uno dei polloni che mi furono regalati ormai due anni fa a Casciana Terme sta fiorendo proprio in questi giorni. Questa corolla si apre a partire da un lunghissimo stelo internamente cavo, come un tubo (e perciò temo che la nomenclatura corretta non sia esattamente stelo…), e si apre con petali bianchi al centro e rosa chiaro, con una striatura centrale di un rosa più intenso, quelli esterni. Il bianco dei petali è delicatamente trasparente, etereo e impalpabile.

IMG_0255_2 IMG_0257_2Non mi è per niente di consolazione rivedere alcune foto che ho scattato poche settimane fa all’Isola d’Elba, che mostrano come può diventare un’Echinopsis se opportunamente coltivata… O sarà semplicemente una questione di terra, illuminazione e aria buona? Voglio pensarla così, va…Echinopsis EchinopsisEchinopsis

Diaspri rossi e ofioliti per Pasqua. Olè! Il pranzo è servito!

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Il giorno di Pasqua solo due pazzi potevano rinunciare al tradizionale e lauto pranzo in famiglia. Al telefono ci raccontano di mostruose mangiate di lasagne e pastiera, ma noi mettiamo nello zaino due panini con il formaggio, prosciutto e insalata e due con frittata di zucchine e ci dirigiamo senza rimpianto (lei) e lacrime agli occhi (lui) verso la spiaggia di Nisportino, sulla costa settentrionale dell’Elba. Anche se la giornata non arride appieno, la bellezza del luogo, selvaggio quanto basta e deserto (gli altri stanno finendo le lasagne e attaccando la pastiera), stempera la nostalgia del tetto e della tavola parentale.

Nisportino

Il golfo di Nisportino dalla scogliera a Nord

Ma ciò che veramente svolta la giornata ed evita la crisi di senso di colpa incombente è la meravigliosa geologia del luogo. L’entusiasmo ci fa dimenticare quanto gli strati di roccia somiglino a immensi millefoglie e possiamo dunque passare serenamente un paio d’ore a guardare gli infiniti e cangianti colori dei ciottoli arrotondati dal mare e la parete di arenaria che si erge a chiudere il lato settentrionale della spiaggia, che si scaglia in corrispondenza dei piani di deposizione frammentandosi in migliaia di schegge, punte e blocchi. Se non condividono la medesima dieta, un archeologo e un naturalista possono tuttavia essere accomunati da una smisurata ammirazione per le fratture concoidi dei diaspri rossi e per le striature brune causate dai fenomeni ossidativi. Terminati i gridolini isterici possiamo attaccare la vera meta dell’escursione: il percorso denominato “delle Pietre Rosse” proprio per i suddetti diaspri, che forma un anello di 8 chilometri con partenza e arrivo proprio dalla scogliera settentrionale di Nisportino e un simpatico dislivello totale di 430 metri in salita.

Arenaria Isola d'Elba

Strati di arenaria, Nisportino

Insomma c’è da sentirsi male, ma il sentiero (perfettamente indicato dai classici segnavia rossi e bianchi, come sempre ci è capitato nelle nostre escursioni all’Elba) sale veloce senza dartene il tempo fino in cima alla scogliera, si inoltra in una bella faggeta con stupendi scorci sulla costa, per riemergere poi su un crinale da mozzare il fiato. A camminare sul filo della montagna con il mare a strapiombo non si sa quanti metri sotto sembra di volare, a patto di non soffrire di vertigini. La risacca sfuma il blu del mare in un celeste brillante, quasi turchino, e il sole finalmente si mostra deciso illuminando di smeraldi il sottobosco.

Smeraldi nel sottobosco

Smeraldi nel sottobosco

Nisportino

Il vento modella rocce e radici

Nisportino

Blu e azzurro

Subito dopo questo passaggio da fibrillazione cardiaca il sentiero scende rapidamente, attraversando un vasto affioramento di diaspri rossi che assumono in alcuni punti un andamento a gradini curiosamente di forma triangolare, fino alla cosiddetta Cala dell’Inferno, che veramente niente ha di infernale se non il completo isolamento. Una bellissima spiaggia di ciottoli colorati, il mare cristallino, il piacevole sole primaverile, il silenzio assoluto rotto solo dal frangersi delle onde, un tronco trasportato dal mare che reca impresse nelle venature del legno chissà quali storie di vita, sradicamento e attesa… Non c’è un luogo migliore per trascorrere un’ora di pace con l’universo.

Albero

Le storie argentee dell’albero

Cala dell'Inferno

Cala dell’Inferno

Diaspri

Diaspri sulla scogliera meridionale di Cala dell’Inferno

Sassi

Ciottoli e colori

Imprigionando gocce di pioggia

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Non c’è fiore difficile da fotografare quanto quello del Pachyphytum oviferum. Ne possiedo una pianta dai primordi della mia collezione, e ne ho propagate diverse talee, perché questa succulenta ha grandi foglie carnose apparentemente forti e solidissime, ma in realtà pronte a staccarsi ad ogni contatto un po’ più brusco del solito. Ogni anno la pianta emette un lungo gambo obliquo nella parte terminale del fusto, in cima al quale cresce una enorme infiorescenza che somiglia ad una spiga un po’ pendula, composta da tanti fiori di un verde chiarissimo e fresco, che pian piano si schiudono rivelando il rosso del loro interno. Li trovo sempre molto belli, anche perché racchiudono spesso una goccia lucente che non ho ancora capito ma che immagino trattarsi di pioggia imprigionata. Pachyphytum oviferum Pachyphytum oviferum Pachyphytum oviferum Pachyphytum oviferum Pachyphytum oviferum Pachyphytum oviferum

I segni dell’uomo: le vie del granito e i rifugi dei pastori

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Salire le pendici del Monte Capanne, la vetta più elevata dell’Isola d’Elba, sopra il paese di San Piero in Campo, significa confrontarsi con un passato solo apparentemente remoto. I sentieri che risalgono la montagna attraversano infatti un paesaggio modellato prima, fino ad una cera quota, dall’attività di estrazione del granito, che dall’epoca romana prosegue tuttora, benché in misura molto minore, e successivamente disseminato di strutture in pietra dall’aspetto ancestrale: i caprili, ricoveri poverissimi per i pastori e le bestie, realizzati sovrapponendo filari di pietre a secco, così semplici da fondersi con la roccia da cui sembrano trarre radici.

Il Golfo di Lacona da sopra San Piero in Campo

Il Golfo di Lacona da sopra San Piero in Campo

Ci incamminiamo, lasciandoci alle spalle il campo sportivo di San Piero, in una incerta giornata di vento e di nubi che non appaiono minacciose ma offuscano solo a momenti la luce del sole. Un percorso che le nostra cartina indica di circa otto chilometri, da percorrere in sei ore. Sono le due e chissà dove riusciremo ad arrivare, ma tanto i sentieri della zona sono molti, ed è possibile volendo tornare indietro prima del previsto seguendo un diverticolo del percorso principale.

Saliamo seguendo il sentiero al di sopra delle cave tuttora attive e delle cave romane, da cui provenne forse il granito per il Pantheon e per il Colosseo, a Roma, e quello per la Torre pendente di Pisa. Ma in questo paesaggio, che presto diviene quasi lunare, non risuonano le memorie degli antichi romani: qui c’è solo cielo e macchia, il profumo delle ginestre che si mescola al ronzare dei calabroni, il riverbero bianco degli asfodeli e i petali appena aperti e ancora spiegazzati dal sonno del cisto. In questo oceano verde di foglie in cui nuotano i fiori come pesci colorati, i massi di granito sono isole, su cui ci arrampichiamo come esploratori: talvolta sono piatti, lisci e levigati, abbacinanti e infidi come scogli, talvolta invece si innalzano e si contorcono, modellati dall’erosione in forme fantastiche, come fossero spuma marina.

I petali appena aperti del cisto

I petali appena aperti del cisto

Asfodelo

Stelle di asfodelo

"Odorata ginestra, contenta dei deserti..."

“Odorata ginestra, contenta dei deserti…”

Leopoldia comosa

Leopoldia comosa, detta anche Lampascione

Saliamo rapidamente, in un silenzio mai rotto dalla presenza umana, fino ad un quadrivio dove ci fermiamo per consumare un panino e riposare un poco. Capiamo, scambiando qualche parola con un paio di escursionisti che incrociamo in quel punto, che abbiamo sbagliato strada rispetto al percorso che volevamo compiere, ma due ragazzi ci consigliano di proseguire comunque e di arrivare in un punto detto Masso alla Quata, dove si trova un caprile di avvistamento. Il nome sembra suggestivo e proseguiamo.

Salendo sulla montagna, le formazioni piatte di granito su cui abbiamo camminato sino ad ora lasciano il posto a enormi massi che spuntano erratici nel paesaggio, lo disegnano e lo caratterizzano profondamente. Uno di essi è la Pietra Murata, un blocco allungato e piatto alla sommità, che sembra fatto apposta per fungere allo stesso tempo da punto di riferimento e da punto di controllo dei territorio. Da quassù, la costa si distende ai nostri piedi alternando promontori e calette, Pianosa sembra di vederla su una carta geografica e Montecristo disegna all’orizzonte il suo profilo misterioso e carico di promesse. Alla Pietra Murata sedettero a scrutare il mare vedette etrusche, a giudicare dai graffiti e dai resti di ceramica che vi sono stati rinvenuti, e vedette medievali, come indicano alcuni documenti d’archivio. Da qua si possono infatti avvistare senza difficoltà le navi in avvicinamento e comunicare tramite segnali luminosi le loro manovre. Da questo punto in poi, tuttavia, la montagna è il regno del pastore e della capra, e il terreno è disseminato di ricoveri e recinti. Poco sopra Pietra Murata si trovano i due caprili di Collaccio Basso e di Collaccio Alto, con le loro volte a filari progressivamente aggettanti di scaglie di pietra, e segni ancora recenti di fuochi accesi al loro interno.

Isola d'Elba

Pietra Murata e il recinto di Collaccio Alto

Se ci voltiamo adesso verso la montagna, cercando con gli occhi il sentiero che dobbiamo seguire, scorgiamo in alto una struttura assurda e surreale: in cima ad un masso, apparentemente invalicabile se non dal passo di giganti, si staglia contro il cielo una piccola costruzione. Sicuramente quello è il Masso alla Quata. Continuiamo l’ascesa, in un vuoto che sa di sospensione del tempo, fino ad un ultimo caprile prima della meta, una vera e propria tholos in miniatura, che ripropone soluzioni architettoniche antichissime, uguali forse sin dall’età del Bronzo e diffuse ovunque nel Mediterraneo dalla Spagna, alla Croazia, alla Turchia, alla Palestina, e che parlano di un destino comune a tante esistenze, di solitudine e fatica.

Il caprine poco sotto il Masso alla Quata

Il caprile poco sotto il Masso alla Quata

Masso alla Quata

Il Masso alla Quata

Ma eccoci nella radura appena ai piedi del Masso, che affrontiamo infine dalla parte posteriore, dopo aver avvistato degli animali selvatici, camosci o cervi, pascolare ai suoi piedi… Senza fatica, e ormai come volando per l’impazienza, raggiungiamo la cima dello sperone roccioso, da dove la vista spazia su tre lati dell’isola: si vede il mare a nord, a Portoferraio, si vede la costa orientale che prospetta la terraferma, e naturalmente tutta la costa a sud. Lontanissimo nel tempo e nello spazio il nostro punto di partenza, San Piero in Campo: e meraviglia quanto si possa percorrere a piedi in poche ore, superando quasi cinquecento metri di dislivello, senza preparazione e quasi senza pensarci, seguendo l’istinto e la voglia di scoperta, snocciolando i pensieri dietro ai passi, su per le rocce e nel silenzio della montagna.

Vengono a mente le parole di Rousseau riguardo al suo viaggio fra Parigi e Soleure: “Impiegai in quel viaggio una quindicina di giorni, che posso annoverare fra i più felici della mia vita. Ero giovane, in buona salute, avevo sufficiente denaro e molte aspettative, e viaggiavo… Viaggiavo a piedi e viaggiavo da solo. Mai ho pensato, ho vissuto, sono stato vivo e me stesso, come in quei viaggi che ho fatto a piedi e da solo…”

Dal Masso alla Quata

La vista dal Masso alla Quata