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In cammino, 6. Da Torres del Río a Navarrete

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03.07.2016

Sveglia.

Il telefono vibra da qualche parte, là nel sacco lenzuolo. In silenzio, come un topolino, con una bracciata raccogli gli oggetti disposti con previdente cura, alla sera, sul letto e intorno al letto.

Dopo cinque giorni, il corpo obbedisce automaticamente alla routine che con minime ma piacevoli variazioni ti porta dalla branda, immersa ancora nel buio e nel tepore, al bagno, dove ricomponi i tuoi averi nello zaino e provvedi con rapido disinteresse all’igiene personale, fino alla porta e alla strada.

Dieci minuti al massimo per sparire da ogni luogo senza lasciare traccia, lasciando il paese ancora addormentato alle spalle.

Questo strappo, solo apparentemente brutale, che si riproduce ogni giorno, ha un potere salutare che è difficile da definire e spiegare, ma che giorno dopo giorno ti rigenera.

Al sorgere del sole, con pochi gesti semplici ed efficaci butti tutto alle spalle e ricominci daccapo.

Ogni giorno è un giorno fresco e nuovo, come le sfumature dell’alba, che sono sempre uguali ma sempre diverse.

A volte c’è proprio poco da dire.

Dopo cinque giorni i ricordi coscienti si impastano. Attraversi città e paesi senza ricordarne più il nome, osservando distrattamente campanili e volute barocche, annusando il profumo di incenso nelle chiese.

Segui semplicemente le frecce e le scie nel cielo, attraverso i vigneti per chilometri, fino al prossimo letto e alla prossima sveglia.

In cammino, 5. Da Estella a Torres del Río

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02.07.2016

L’albergue municipal di Estella è pervaso alla sera da un’atmosfera leggera e festosa, da sagra paesana: la penombra delle camerate si svuota al tramonto e il patio si riempie per la consueta cena, sbrigativa e improvvisata, in cui il gusto del cibo è completamente subordinato alla necessità di incamerare una certa quantità di energia per il giorno successivo, e al desiderio di condividere esperienze e pensieri.

Per la prima volta viaggio, con deliberata premeditazione, senza un libro nel bagaglio. Sulle fredde scale in travertino che portano al piano delle camerate, si allineano volumi lasciati chissà da chi, chissà da quanto tempo, che portano i segni non dissimulabili della strada percorsa per arrivare sin qui, dove sono diventati un peso o si sono semplicemente fermati.

Scorro i titoli, fino al primo libro in italiano: Le confessioni di Agostino.

Dai meandri della memoria riemergono frammenti e immagini della prima lettura dell’opera, un compito scolastico trasformatosi inaspettatamente in piacere autentico, la voce infantile che giunge dall’intima distanza di una casa vicina: «Prendi e leggi, prendi e leggi» a consolare e indirizzare la vita di Agostino… «Non volli leggere oltre né mi occorreva». Un rituale semimagico che talvolta ho ripetuto, nel tempo, senza mai conquistare quella pace: «appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». Apro allora a caso il libro, e leggo «ma il cielo e la terra ti contengono dunque, o Signore, dal momento che tu li riempi?»

Dal momento che terra e cielo, pieni di qualcosa che non si lascia definire, sono una costante di questi giorni, porterò con me Agostino.

Al mattino, salendo fino al monastero di Irache dove la famosa fontana del vino stilla infelice solo poche gocce di nettare, una coltre di nubi, sospesa sotto il cielo, fluttua così in basso da infrangersi contro un contrafforte di bianche scogliere, lontano, ricamandole di mistero. Mi fermo ad osservarle, a lungo, nell’aria immobile e già calda, affascinata da quel crinale affacciato nel vuoto, che si tinge di rosa mentre il sole avanza nel cielo. Ma forse qualcuno lo percorre nello stesso istante, osservando qualche dettaglio a me invisibile del luogo in cui mi trovo e trovandolo incredibilmente attraente…

Attraversando l’ultimo tratto della Navarra ed entrando nella Rioja, il paesaggio cambia di nuovo volto, il Cammino si distende in un ondulato fondovalle dove i campi di grano, ormai mietuti, lasciano il posto ai vigneti, in un susseguirsi di rapide pennellate dai colori contrastanti. Ci accompagnano fino a Torres del Río le stesse nuvole basse, che sfiorano le colline senza trasformarsi in pioggia, fondendosi con l’orizzonte come il tocco di pennello che conclude l’opera.

Non ci sono molti motivi validi per fermarsi a Torres del Río, un altro agglomerato di case basse, cemento e facciate di pietra in anacronistico accostamento. L’elenco è banale: la stanchezza, che in effetti oggi si fa sentire di meno, il caldo e il desiderio di togliere le scarpe dopo quasi trenta chilometri di cammino.

Ma la signora Mari Carmen apre la Chiesa del Santo Sepolcro al tardo pomeriggio.

Restiamo dunque, solo per passare un’ora immemore nell’ombra fresca della cupola, innervata dalla geometria mistica dei costoloni e dalla vibrazione del vuoto. Se in basso il ghigno di qualche animale fantastico ricorda ancora la multiforme varietà del mondo, lassù in alto la forma si dissolve in una metafisica perfezione.

In cammino, 3. Da Larrasoaña a Uterga

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30.06.2016

Mentre il sole alla sera tramontava, nel patio dell’Albergue Municipal di Larrasoaña, abbiamo condiviso una cena improvvisata, una pastasciutta al pomodoro che ha girato tutti i tavoli, un’insalata e una scatoletta di legumi freddi, per poi fantasticare un po’ sull’ingresso, il giorno successivo, a Pamplona, capitale della Navarra. Dopo tre giorni di solitudini arboree e montane, abbiamo convenuto che dormire in città avrebbe potuto essere un piacevole diversivo, insieme a cose come mangiare una cena vera e fare due passi fra la gente prima di collassare nella branda.

Con questa idea ci mettiamo in cammino all’alba, in mezzo alle ginestre, sotto il cielo opaco di un’umidità che non riesce a trasformarsi in pioggia. Poche ore di cammino per attraversare il Puente de la Magdalena, che segna l’arrivo in città, e riprendere lentamente contatto con il mondo. Ma incontrare di nuovo persone, pulite e vestite normalmente, in giro per compiere gli atti usuali (fare la spesa, accompagnare il cane, andare dal medico o alla posta…), quegli atti anche nostri da cui solo tre giorni prima ci siamo distaccati, è uno shock difficilmente prevedibile poche ore prima. Solo tre giorni di cammino fra le montagne ci separano da loro. Eppure… eppure mi sorprendo a guardarli come esseri straordinari, e mi sembra un po’ di provare ciò che provarono gli Incas quando videro per la prima volta in vita loro i Conquistadores spagnoli.

Ma la sorpresa, a dire il vero, appare reciproca. Sul ponte, ci soffermiamo ad osservare l’acqua fresca scorrere in basso, e una coppia di anziani si avvicina. Ci prendono le mani, ci chiedono da dove veniamo e ci dicono tutti commossi quanto siamo bravi, che avrebbero sempre voluto fare il Cammino ma alla fine non l’hanno mai fatto. E io mi chiedo, secondo le statistiche ufficiali ogni anno più di 250.000 pellegrini percorrono questa via, solo a giugno ne sono passati 38.000… e questi due riescono ad accoglierci con sorrisi così freschi di sincera ammirazione? E che cosa stiamo facendo mai di straordinario? Stiamo solo camminando, un passo dopo l’altro, verso ovest. Nascondiamo una lacrima, prendiamo quei sorrisi e quelle mani rugose e incerte e li mettiamo in un angolo del cuore, ed entriamo a Pamplona.

La città si sta preparando alla festa di San Fermín e le strade sono già pavesate di bandierine. Ma la piacevolezza che immaginavamo si scontra subito con una diversa realtà, la pressione delle auto, il pigia pigia di fronte ai locali, il caldo che sale inesorabile dai basoli della strada. Il desiderio di restare scolora velocemente, il pensiero di passare qua la notte è inaccettabile, e ci ritroviamo già sul Cammino, via, verso l’Alto del Perdón che si profila con la sua collana di pale eoliche. Meglio un’altra salita, meglio sudore e polvere.
Il sentiero, di un bianco accecante sotto il sole del mezzogiorno, si snoda flessuoso fra le colline, in un mare di grano maturo, a perdita d’occhio, sinché non incontra il cielo. Al di là dei crinali, si affacciano perduti campanili di paesi che resteranno sconosciuti.

Silenzio: assoluto, irreale. Se ti fermi in mezzo alla via, ad occhi chiusi, respirando, incameri tutta l’energia della Terra.

La salita verso l’Alto del Perdón è più clemente di quello che sembra, e in poco tempo raggiungiamo l’altura e il monumento ai pellegrini, donde se cruza el camino del viento con el de las estrellas. Da lì, alle spalle, si scorgono ancora i Pirenei, dove il cammino è iniziato, e qua e là quel nastro bianco appena percorso, che si nasconde fra le pieghe di spighe. Davanti, la strada si distende verso il futuro.

Il vento ti scuote in uno stato di stordimento così piacevole, che non vorresti più andar via.

Ma non è solo questo: la realtà è che sulla cima non c’è niente, se non un improbabile baracchino di panini e bibite, e da qualche parte bisogna arrivare, per dormire. Per farlo, c’è adesso un’infida discesa, il vero nemico, adesso, se hai un menisco incrinato e ogni passo è uno sforzo disumano nonostante la profusione di Ibuprofene. Il Cammino, che altrove è come un grande drago lungo disteso sui campi, adesso si trasforma a tradimento in uno stretto sentiero, un canale, cosparso di grossi ciottoli che rotolano giù appena appoggi il piede. Intorno, cessato il vento, di nuovo caldo e indifferenti colline, alberi sparsi che offrono appena qualche istante d’ombra e conforto. A Uterga, al primo paese, ci fermiamo, sfinite. Ma anche stanotte sogno di camminare, non dormo, e aspetto almeno che siano le cinque per ripartire.

In cammino, 2. Da Roncisvalle a Larrasoaña

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29.06.2016

Al risveglio, un mattino plumbeo avvolge la Collegiata di Roncisvalle, ieri così gialla e verde e accogliente, di una spessa nebbia che sa quasi di Transilvania e sgocciola dai tetti sul selciato, stilla sul nostro misero bucato lasciato all’aperto durante la notte, rotola sulle foglie dei boschi cupi, tutt’intorno. La natura sembra stringerci sotto assedio. Colazione a base di caffè, pane con marmellata e Ibuprofene, fidato compagno dei giorni a venire.

Ci addentriamo sotto le volte degli alberi, sul terreno morbido di foglie che accoglie gentilmente i nostri passi. Eppure, bastano pochi minuti e fa allegria anche il volto bagnato di una pioggia che non è pioggia, i colori brillanti degli impermeabili e il fresco inatteso sulla pelle.

Appena fuori Roncisvalle, il cartello indica la distanza che ci separa da Santiago: so che non ci arriverò, almeno non quest’anno.

Con l’arrivo del sole, la nebbia si dissolve per lasciare posto ad un sole magnifico che accende il verde dei boschi di roveri, abeti e pini. Possiamo appuntare finalmente il bucato allo zaino, irriverente vessillo, per rimediare all’imprudenza della sera precedente. Procediamo velocemente, il cammino si dispiega seguendo i dolci pendii della fascia pedemontana dei Pirenei, attraversa pascoli e prati, piccoli paesi in cui per un attimo sembra di ritrovarsi in altre epoche. Per l’ora di pranzo siamo a Zubiri, che la guida indica come meta della seconda tappa, attraversiamo il ponte sulle acque cristalline dell’Arga, gironzoliamo ma alla fine decidiamo di continuare ancora.

Quelle ore fra le radici dei monti, nei boschi, ti proiettano in un tempo senza fine, che si dilata e ti avvolge, rompendo infine i legami e i meccanismi delle abitudini.

La strada è ben segnata e non è mai un pensiero. Tutto quello che devi fare è portare un piedi innanzi all’altro. Realizzi che sarà così per le prossime due settimane, e già ti sembra di non aver fatto altro per tutta la vita. In tanti, al ritorno, mi hanno chiesto cosa pensassi in quelle sei, sette, otto ore di cammino al giorno. Niente. Non pensavo a niente. Osservi le file di formiche che incrociano il sentiero e inizi a saltarle per non calpestarle. Il momento mattutino in cui si aprono i fiordalisi. La sospensione dei suoni del mezzogiorno e la brezza che si alza più tardi, alla sera. Il tuo tempo si riduce alla distanza che intercorre fra il tuo petto e l’orizzonte visibile. Tutto ciò che è appena dietro le spalle, è già andato. Se lasci il bastone accanto ad una fontanella, dopo aver bevuto, e te ne accorgi dopo chilometri, è andato. Non lo tornerai più a prendere. Forse lo rivedrai fra le mani di qualcun altro. E cosa c’è davanti, oltre la curva, oltre il pendio, oltre il paese? Non importa. Tutto ciò che non vedi non esiste ancora. Questa dimensione preziosa del qui ed ora è forse il dono più bello del Cammino. La pienezza dell’istante presente, in cui hai a disposizione tutto ciò che ti serve: le tue gambe che ti portano avanti, il tuo respiro che è il ponte con te stesso, e la loro unione che dà vita al ritmo in cui la mente, come cullata, si acquieta.

Si dice che sul Cammino non si è mai soli: è vero. Io e Laura ci separiamo presto, perché io vado veloce, divoro la strada spinta da una forza che è come un fiume in piena, che non posso fermare, che durante la notte mi toglie il sonno dal desiderio di andare avanti. E così, naturalmente ci lasciamo e ci ritroviamo durante la giornata, con l’accordo di aspettarci per la notte. Eppure trovi sempre qualcuno con cui condividere un tratto di strada, parlando, oppure no.

Ma quei momenti, quei momenti in cui ti trovi solo sul sentiero, il sole dietro alle spalle o davanti agli occhi ad indicarti la via, in mezzo all’enorme flusso di energia che scorre da est a ovest, accumulata dal passaggio incessante, per secoli, di pellegrini, re e penitenti, ricchi e pezzenti, uomini e donne, sono momenti di grazia assoluta. L’odore di sole sulla pelle. Gambe e polmoni, e poco più: due cambi di vestiario, un sacco a pelo, un asciugamano, spazzolino e dentifricio, saponetta. La vita è così incredibilmente semplice.

Preludio, a Saint-Jean-Pied-de-Port. 27 giugno 2016

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Accipe hanc peram habitum peregrinationis tuae ut bene castigatus et emendatus pervenire merearis ad limina Sancti Jacobi, quo pergere cupis, et peracto itinere tuo ad nos incolumis cum gaudio revertaris, ipso praetestante qui vivit et regnat Deus in omnia saecula saeculorum.
Ricevi questa bisaccia, segno esteriore del tuo pellegrinaggio affinché, vestito nel modo migliore, tu sia degno di giungere alla soglia di San Giacomo, dove desideri arrivare e, compiuto il tuo viaggio, torni da noi incolume con grande gioia, se così vorrà Dio che vive e regna per tutti i secoli dei secoli.
Accipe hunc baculum, sustentacionem itineris ac laboris ad viam peregrinationis tuae ut devincere valeas omnes catervas inimici et pervenire securus ad limina Sancti Jacobi, et peracto cursu tuo ad nos revertaris cum gaudio, ipso annuente qui vivit et regnat Deus in omnia saecula saeculorum.
Ricevi questo bastone, per sostegno del viaggio e della fatica sulla strada del tuo pellegrinaggio affinché tu possa sopraffare qualunque nemico e arrivare tranquillo alla porta di San Giacomo e, compiuto il tuo viaggio, torni da noi con grande gioia, con la protezione di Dio che vive e regna per tutti i secoli dei secoli.

Poco più di una doppia fila di casette, Saint-Jean-Pied-de-Port, finestre e tendine di pizzo affacciate su quella via selciata che, appena oltre il paese, varcata la Porte d’Espagne e salutato il ponte e il fiume Nive, si perde sulle pendici dei Pirenei in ripidi tornanti, prima di puntare, decisa e una volta per tutte, a ovest. Il bianco dell’intonaco, il rosso delle imposte, il grigio dell’arenaria sono il fondale immobile, quieto, di un andare che attraversa i tempi. In mezzo ai ciottoli della via, ho già individuato il segno più caro che guiderà da domani il cammino.

Le pecore brucano ora silenziose nel tramonto, sui prati della Cittadella.

La breve ascesa è avvolta in una luce ormai grigia e rosata, quasi opaca, che ha smesso, là oltre le montagne, gli ultimi bagliori del mantello arancio. Si avverte una calma dolce, quel momento sospeso fra il giorno e la notte in cui la terra respira calore mentre i rondinoni compiono volteggi spericolati intorno alle torri e ai campanili. Sospeso ancor più oggi, nella vigilia della partenza, sulla soglia.

Eppure il vento leggero, così fresco, che spira dai pascoli, mi fa pensare al mare. Guardo i monti, blu contro il cielo, dal belvedere del castello e mi sento sulla prua di una nave che sta per prendere il largo in mezzo agli scogli. Non mi oriento ancora in questo paesaggio nuovo, e non avrò tempo di farlo, ma riconosco segni noti, la geografia familiare della montagna: per ora mi basta sapere che la direzione in cui adesso tramonta il sole, là dietro i monti in un luogo ancora ignoto, è la direzione che seguirò nelle prossime due settimane.

Questa notte dormirò in una piccola stanza, cinque letti a castello e otto sconosciuti. Alcuni orientali che sono scomparsi immediatamente dentro al sacco a pelo, altri misteriosi compagni di cui ho avuto il piacere di conoscere solo il bagaglio, e un inglese che dimostra più di cinquant’anni ma deve averne meno, il volto scavato e i denti trascurati di chi non ha più messo ordine nella propria vita, e anzi ha smesso di ricercarlo. Ha aperto, con le sue mani dalle screpolature scure, la credenziale, per mostrarmi i timbri, mentre sceglievamo i letti per la notte; un gesto che questa sera mi ha riempita di tenerezza, ma che è in realtà un rituale che ancora non so e che si ripeterà ad ogni nuovo incontro. Arriva da qualche paese nel centro della Gran Bretagna, ha camminato lungo la costa atlantica della Francia, e ha già così tanti chilometri nelle gambe che la tappa di domani, e i Pirenei che incombono scuri nella sera, lo terrorizzano.

La mia credenziale, che conservo gelosamente nello zaino, è ancora intonsa, bianca, profuma di carta nuova e di aspettative, e le mie gambe sono ancora leggere. Il pellegrinaggio inizia domani. Mi sorprende, all’improvviso, pensare questo del cammino che mi accingo ad intraprendere. Non ho pianificato molto, non ho letto siti o guide, ho semplicemente preparato uno zaino il più leggero possibile e sono partita con il desiderio di camminare. Eppure, se osservo in profondità quello che provo, ora che sono lontana da casa, dai giudizi, dal consueto scorrere delle cose, sorretta dal senso di libertà che si prova a viaggiare solo con uno zaino, questo è ciò che sono venuta a fare qui, con il senso pienamente religioso di una iniziazione.

Guardo il cielo a ovest dall’alto della cittadella e il paese disteso là sotto, che si srotola come un tappeto, le mani appoggiate al parapetto di pietra, ancora caldo del contatto del sole.

Domani.