I regionali che partono da Roma Termini in direzione di Albano, Velletri e Frosinone sono caldi in inverno come in estate; sono rumorosi, affollati, stanchi crocevia di esistenze. Anche quando, salendovi, sembrano vuoti, inesorabilmente si riempiranno prima della partenza, costringendo i viaggiatori a una forzata convivenza in cui telefonate, litigi, odori, valige ingombranti, cani e gomiti si intrecciano senza pietà, fino alla prossima stazione (forse questo che ho accanto adesso scende), fino alla propria destinazione. Un mosaico le cui tessere, ogni giorno, sempre si scompongono, e sempre si ricompongono a formare un quadro di insindacabile omogeneità. Quante volte ho preso questi treni? Non lo ricordo. Un fluire di oscillazioni fra due stazioni, il treno appeso alla fuga prospettica dei fili elettrificati, sempre uguali a sé stesse.
Un giorno, scorgo in questa sconcertante uniformità spazio-temporale un elemento estraneo, difforme e sospetto. Sopra la rastrelliera, sospeso sopra la mia testa, un lungo tubo di fogli di giornale arrotolati in sezioni di diametro differente (crescenti o decrescenti secondo il punto di vista) e incastrate le une nelle altre: una sorta di cannocchiale cieco. I pendolari che salgono nella vettura vi lasciano scivolare sopra uno sguardo atono e disattento: ma che cosa è questo oggetto, che significa, perché è qui e a che cosa serve? La sua confusa policromia contrasta con le livree tutte uguali delle poltrone, delle tendine, delle pareti grigie del vagone; continuo a fissarla, con il naso rivolto all’insù. Il signore che si accascia nella poltrona di fronte a me segue il mio sguardo e dice: “Ah, quello. C’è un senza tetto alla stazione di Termini che fa questi cosi”. Mi chiedo come questa spiegazione possa essere definitiva come il tono dell’uomo lascia presupporre, visto che per quanto mi riguarda il mistero si infittisce e apre infinite possibilità parallele. Immagino innumerevoli cannocchiali colorati di fogli di giornale, in viaggio sulle linee ferroviarie che si diramano da Roma Termini e innervano tutta la penisola. Raggiungono stazioni sperdute nell’indifferenza generale, finiscono nella spazzatura quando vengono intercettati dagli addetti alle pulizie, solo in rari casi riescono a scendere dal treno e a muovere qualche passo nel mondo reale. Da qualche parte, c’è un uomo invisibile che arrotola fogli di giornale, raggiungendo con paziente perizia una sempre maggiore perfezione del risultato, e invia questo messaggio senza senso in giro per l’Italia. Il treno rallenta alla stazione di Ciampino, mi alzo con fare indifferente. Raccolgo i miei bagagli, afferro il caleidoscopio colorato e scendo dal treno.
Ho ripensato a quel giorno quasi dimenticato, alla sensazione di perdita di senso e allo stesso tempo di una necessaria esistenza di un senso nascosto e inaccessibile nelle pieghe del reale, leggendo (o meglio, rileggendo adesso) Se una notte d’inverno un viaggiatore, ritrovando nell’accumularsi di storie che non verranno poi sviluppate, ma resteranno sospese e senza scioglimento per motivazioni differenti, il clima sospeso di quella giornata, il vorticare di possibili spiegazioni, tutte paradossali, per la presenza di quello strano e incoerente oggetto nel vagone di un treno, la cui evidente inutilità contrastava con l’altrettanto evidente attenzione che era stata posta nella sua realizzazione. Ma perché tutto deve avere un senso?