Archivi tag: history

E sconfinati spazi io nel pensier… – A Rocca Calascio

Standard

Nel 1911 il paese di Calascio, sulla strada che dall’altopiano di Navelli raggiunge i pascoli estivi sui monti che da meridione preannunciano le vette più elevate del Gran Sasso, contava quasi 1600 abitanti, ed erano già in calo rispetto ai numeri del censimento del 1881. Non c’era l’acqua in paese, fino a quel momento, perché la natura carsica del terreno impedisce la formazione di sorgenti perenni a quote basse; e la modernità incalzava, così come il richiamo delle città. Chi poteva permetterselo costruiva cisterne sotto le proprie abitazioni, in cui raccogliere la neve e l’acqua piovana, ma i più dovevano recarsi al laghetto vicino al paese per attingerla: acqua spesso stagnante e di cattiva qualità.

Proprio in quell’anno, grazie alle donazioni delle famiglie ricche del paese e dei molti migranti che avevano trovato fortuna lontano da quelle montagne, un ingente sforzo ingegneristico portò a Calascio una conduttura di quasi 20 chilometri, da una sorgente alle falde del Monte Prena: e l’acqua zampillò finalmente nelle fontane.

Chissà se risale a quell’epoca la sfera terrestre tracciata con un chiodo e ripassata col carboncino sulla facciata di una casa, con l’indicazione dei Tropici e delle fasce climatiche del pianeta. Ho immaginato un volenteroso maestro dell’eroica Italia postunitaria, e una torma di bimbetti scalzi e con le gote sporche, seduti a terra colle faccine rivolte estatiche verso la magia sprigionata dalla Terra disegnata semplicemente sull’intonaco.

Eppure, era una paese ricco, Calascio, aggrappato al fianco della montagna e posto fin dall’epoca normanna a controllo dei tratturi che collegavano i pascoli estivi dell’Abruzzo con il tavoliere delle Puglie, dove le greggi andavano spostate durante il rigido inverno che serra i monti.

Nel 2011, gli abitanti erano 137.IMG_0013_2E infatti è difficile incontrare qualcuno, nelle viuzze in cui le facciate degli edifici quasi si toccano, e se senti voci allegre di bambini, immagini che provengano da qualche televisore acceso, tanto sembrano incongruenti. Frammenti di conversazioni.

Un’anziana esce concitata dal portone sghembo di una casetta di pietra, e si avvicina alla  finestra di una vicina:

“Maria, c’è il furtivendolo, vieni. Tiene tutto, broccoletti, rape, cavoli. Arance”.

“Sì ora vengo, ma quanto sta?”, risponde Maria invisibile dietro alle tendine di pizzo immacolato.

“Eh vieni, vieni subito, che se ne va”.

Il furtivendolo (questa strana figura professionale, da cui forse bisogna diffidare) non ha un negozio, ma passa col furgoncino telonato fornito di bilancia, si ferma lungo la strada e aspetta un po’ lo sciamare degli acquirenti, ma poi passa al prossimo paese: Maria, affrettati…
CalascioIMG_0015_2Perché vivere sui monti, in un ambiente così ostile anche nei primi giorni di primavera? Oggi, la sopravvivenza di questi paesi in cui non puoi arrivare con l’auto alla porta di casa a lasciare la spesa, perché le strade ripidissime sono fatte di gradini di pietra, è appesa a un filo tenue, sospesa fra l’irrimediabile progressivo abbandono, man mano che si esaurisce la generazione di Maria e della sua tenace vicina, e lo snaturamento che lo sfruttamento turistico già insinua nelle poche case ristrutturate e trasformate in strutture ricettive.

Ma il motivo della passata grandezza di Calascio si scopre arrampicandosi per le strade acciottolate fino a Rocca Calascio, il castello che, sulla dorsale sopra il paese, domina un paesaggio sconfinato che abbraccia tutto il Gran Sasso. Dal punto più alto della Baronia di Carapelle, come dalla prua di una nave sospesa sulle nuvole, si dominavano le vie della transumanza: chi tiene Rocca Calascio tiene mezzo Abruzzo.IMG_0011_2Respirando l’aria fresca, cerco di non pensare aggettivi, perché sono superflui alla nuda potenza di questo luogo. Mi torna alla mente, per la prima volta da anni, un’immagine del Pendolo di Foucault: la terra percorsa sotterraneamente da meridiani di energia che in alcuni luoghi emergono in superficie. Luoghi magnetici in cui l’uomo, fin dalla sua più lontana storia, ha sentito una presenza: luoghi in cui ha abitato sempre, per cui ha lottato e combattuto con altri uomini, in cui ha costruito luoghi di culto e pregato divinità che cambiavano al volgere delle ere.

Questo deve essere uno di quei luoghi.

A nord-ovest, lontano dalle nevi emergono i bastioni rocciosi del Corno Grande, nella prospettiva all’infinito che si apre dietro la chiesa barocca di Santa Maria della Pietà. Dietro di noi, guardando a est, si elevano le torri cilindriche della Rocca, che affondano le radici come un albero fantastico nelle profondità della montagna.

Non c’è solo una logica difensiva nella progettazione di questo castello, perché sarebbe stato sufficiente farlo meno bello. C’è un desiderio di fusione con l’indicibile perfezione della montagna, di presa di possesso da pari a pari di un luogo sino ad allora appartenuto agli dei.IMG_0010_2 IMG_0016_2

La seconda volta – [Tre giorni in Cappadocia]

Standard

Per chi voglia visitare la Cappadocia, Göreme è probabilmente il posto più comodo per fare base, visto che si trova praticamente al centro della regione, ed è collegato comodamente tramite dolmus alle altre cittadine: UçhisarÇavusinÜrgüp, Ortahisar, Avanos, Zelve, molte delle quali d’altra parte si possono anche raggiungere a piedi in giornata, distando pochi chilometri, magari prendendo un passaggio per il ritorno.

A lungo abbiamo esitato, nel programmare il viaggio, se andare davvero in Cappadocia, temendo di ricevere una grande delusione: dopo il primo incredibile viaggio ormai abbiamo elaborato una nostra personale idea platonica di Turchia, in cui la possibilità di condividere un paesaggio mozzafiato con orde di turisti russi in maglie fluo che scattano selfie con selfiestick (con tutto il rispetto, ma la poesia ne risente davvero) non trova facilmente posto.

Ma alla fine ci andiamo, in Cappadocia. Scegliamo, per puro spirito di contraddizione, e anche per mantenere basso il budget giornaliero in uno dei luoghi più turistici del paese, l’hotel più scrauso che sia possibile reperire su Booking.com. In questo non veniamo delusi affatto: la camera è circa sei metri quadrati, il letto è incastrato in una nicchia e stando sdraiato puoi aprire graziosamente la finestra con l’alluce. Il bagno – che pure è presente, per quanto incluso nei sei metri quadrati – è chiuso da una tenda da doccia, con buona pace della privacy.

Da qui possiamo partire per i nostri trekking improvvisati, dopo aver fatto sulla splendida terrazza la tipica colazione composta di pomodori e cetrioli, muniti di una cartina totalmente inadatta a rappresentare la complessità degli intrichi geologici della zona. L’incoscienza ci sospinge come sempre.CappadociaIl primo giorno ci dirigiamo decisi verso il Museo a Cielo Aperto di Göreme, patrimonio dell’Unesco, un complesso imperdibile di chiese, cappelle e monasteri scavati nella morbida roccia, collegati da scalette e affrescati. La coda irta di selfiestick che si presenta alla biglietteria ci convince in circa 5 secondi ad abbandonare il progetto. Dunque, che fare con la nostra ridicola cartina? Saltiamo semplicemente il guardrail, ci allontaniamo dalla strada lungo sentieri segnati nella sterpaglia, e via. Ci dirigiamo, seguendo da un certo punto – imprecisabile – in poi, improvvisati cartelli scritti con la bomboletta su cartone, verso la Valle delle Rose (Güllüdere), una delle mete indicate anche dalla Lonely Planet.

Se si vuole, una delle cose più assurde della Cappadocia è che le cittadine hanno una densità di bancarelle di ridicoli souvenir, ristorantini e pensioni che nemmeno la Riviera romagnola a Ferragosto, e le strade sono ingombre di torpedoni come S. Pietro la domenica mattina, però basta saltare il guardrail per entrare immediatamente in un’altra dimensione. Non importa inoltrarsi nella boscaglia per chilometri, bastano pochi metri per essere catapultati in uno dei paesaggi più incredibili che abbia mai visto.

Cappadocia 2In tre giorni, abbiamo camminato per circa venti chilometri al giorno, perdendoci continuamente e ritrovando la strada sempre, semplicemente, salendo più in alto e riorientandoci: Uçhisar arroccata sul suo pinnacolo come un castello di sabbia ha un profilo inconfondibile, ed è perciò il punto di riferimento per eccellenza della Cappadocia.

Sui sentieri che si inerpicano fra i camini delle fate e le intricate volute scavate dalle acque nella tenera roccia vulcanica, non troverai molte persone: c’è troppo caldo, e troppa polvere, evidentemente. Deve essere più comodo ammirare il paesaggio dalle mongolfiere, all’alba, e ritenere così di aver visto la Cappadocia. Cappadocia 3

Ogni valle ha le sue caratteristiche geologiche particolari, ed è perciò unica: ci sono quelle in cui i fianchi delle colline sono stondati, bianchi e soffici come nuvole di zucchero filato, e luccicano al sole in mezzo alle viti color smeraldo. In quelle valli non c’è polvere, c’è sempre un gran silenzio, e ci fermiamo a cogliere qualche ciocca d’uva e a mangiarla, pur temendo il classico arrivo del contadino imbelvito, perché abbiamo dimenticato di portare il pranzo.

Ci sono valli invece dai profili acuti e taglienti, tormentati, in cui strati di roccia rossa si sovrappongono a strati di roccia gialla. In quelle valli si cammina su uno strato spesso e finissimo di polvere morbida come talco, che finisce per colorarti i piedi di splendide nuance arcobaleno, sembra che non finiscano mai ed è davvero difficile orientarsi. Ti prende un po’ di sconforto, ti sembra di esserti perso definitivamente, ma poi avvisti in alto, in mezzo a due pinnacoli, un incongruo insieme composto da una tettoia di canne e un tappeto con intorno un divano e due poltrone: là c’è modo di riposare e di bere qualcosa.

C’è una valle (Valle dell’Amore – Görkündere) in cui enormi blocchi di pietra hanno protetto dall’erosione colonne altissime di sedimenti vulcanici, e ti chiedi come facciano ad essere ancora in piedi, così sottili e apparentemente fragili. In altre, in mezzo agli sterpi bruciati dal sole, improvvisamente appare un giardino verde e curato, e c’è un uomo che con la zappa arieggia il terreno intorno alle bietole.

Nella Valle dei Piccioni (Güvercinlik) incontriamo, del tutto inaspettato, un maestoso albero di gelso rosso, carico di more. Sono anni che non ne mangio e, per quanto possa temere l’ira funesta del contadino turco, non resisto, ne afferro qualcuna, le mani, le braccia, la maglia bianca si tingono di succo come fosse sangue: le more di gelso, ormai del tutto mature, si spaccano solo a sfiorarle. Allora mi metto sotto l’albero e stacco i frutti direttamente con i denti, e sanno di sole e polvere insieme quando esplodono in bocca. Ormai, se i passi che si sentono in avvicinamento sono quelli del suddetto contadino, sarà difficile dissimulare la malefatta: mi vedo già al posto di polizia di Göreme.
Cappadocia 4L’attesa del tramonto è un momento magico, sempre. Quando l’ora si avvicina, desidero sempre restare ferma dove mi trovo, e guardare il paesaggio, seppure immobile, cambiare a vista d’occhio al mutare delle ombre, percepire il momento preciso in cui davvero, indipendentemente dall’orologio, con l’inabissarsi del sole il giorno finisce.

E così abbiamo atteso il tramonto nella Valle di Zelve, seduti su un crinale, le ombre che si allungavano a complicare i già labirintici merletti di cenere vulcanica, il vento fresco che si alzava e l’ultimo autobus che partiva, lasciandoci da soli nel silenzio.Cappadocia 5Cappadocia 6

Storia di un sognatore, Frederick Stibbert

Standard

Frederick Stibbert in armatura per il corteo storico del DuomoC’è una fotografia, un’albumina forse a giudicare dai toni cromatici, che mostra Frederick Stibbert con indosso l’armatura “inglese del 1370” con cui partecipò al solenne corteo per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1887.

È in piedi, leggermente di tre quarti, accanto al cavallo riccamente bardato, e ne tiene con la mano sinistra il morso. Dietro di loro, un grande portale aperto che li inquadra come una quinta teatrale. Forse la ripresa è stata fatta nel giardino della Villa di Montughi, perché di lato si intravedono arbusti e foglie. Quello stesso giardino in cui oggi, dopo la pioggia, perle di cielo rotolano sulle grandi foglie di Stelizia. A terra, è posato l’elmo dall’inconfondibile cimiero – un angelo che si stringe le braccia al corpo – che Stibbert aveva fatto realizzare per l’occasione.
AcquaAllora, non aveva ancora cinquant’anni, se la fotografia non è stata ripresa a posteriori, eppure sembra un uomo molto più anziano. Volge con naturale sicurezza il volto verso la macchina fotografica, piegandolo appena sulla spalla sinistra. Socchiude gli occhi, come a schermarli dalla luce o a soppesare chi ha di fronte, ma guarda fisso in camera, senza sorridere.

Non si sorrideva in verità, nel 1887, guardando un obiettivo.

Immagino che la maggior parte delle persone si sentisse allora piuttosto imbarazzata a mettersi in posa davanti a un apparecchio fotografico, e infatti spesso hanno sguardi tesi, opachi, o forzati. Forse si sentono in qualche modo giudicati, o messi alla prova. Forse tentano semplicemente, in uno sforzo disperato, di tenere gli occhi bene aperti, di non sbattere le palpebre, vanificando così la seduta di posa, per il tempo necessario a imprimere l’immagine sulla lastra di vetro.

Non Frederick Stibbert. Lui guarda fisso in camera, senza esitazione e senza tentennamenti. Soppesa noi, che lo guardiamo a distanza di più di un secolo dalla sua morte. Non dimentichiamo che era un uomo di mondo.

Lo chiamano sognatore. Lo chiamano eccentrico. Un riccone eccentrico con la morbosa fissazione per le armature antiche, per le chincaglierie esotiche, per spade e fucili.

Ma chi era davvero? Quello sguardo penetrante si fa beffe delle etichette che gli vengono attribuite.Cavalcata dettGuerrieri giapponesiCavalcata dett 2Frederick Stibbert eredita giovanissimo, alla morte precoce del padre, una enorme fortuna. Studiare non gli piace. O almeno non gli piace seguire i percorsi consueti. I suoi tutori pensano che presto dilapiderà il suo patrimonio. E in effetti, il giovane spende. Spende per acquistare oggetti meravigliosi in giro per il mondo. Eppure le fosche profezie non si avverano. Frederick Stibbert non è un avventato.

Pian piano prende forma l’idea di una creazione personale grandiosa, a cui dedica tutta la vita, senza diaframmi: la sua casa è il museo, il museo è la sua casa. La Villa di Montughi viene accresciuta, ristrutturata, adeguata alle proporzioni di una collezione che si arricchisce per decenni. Nuove passioni sbocciano con il tempo, e Stibbert le coltiva tutte, le asseconda tutte. I mezzi non gli mancano. Le sale si susseguono, non fredde sfilate di oggetti, ma ambientazioni, atmosfere, come frammenti di vita un tempo vissuta, congelata in un istante che mai sfiorisce.

Il progetto prende la sua forma definitiva alla sua morte, l’atto finale che suggella scelte consapevolmente perseguite. Stibbert lascia la sua casa, la sua collezione, il “suo museo”, come amava definirlo, con i suoi 56000 oggetti, oltre a un patrimonio in denaro di 800 lire, corrispondente oggi a qualcosa come 2 milioni di euro, alla Gran Bretagna, paese di origine del padre, con la possibilità di recesso a favore della città di Firenze, che ne entra in possesso nel 1908. A quale condizione? Che il “suo museo” sia aperto al pubblico, e resti per sempre così come lui l’ha ordinato.
Soffitto StibbertUn sognatore, sì. Un visionario, forse. Ma non chiamiamolo eccentrico. La sua visione era guidata da una volontà ferma, dalla traiettoria pulita e ineluttabile come una freccia scagliata contro un bersaglio. Questo dicono i suoi occhi a chi lo guarda dietro l’obiettivo.

Frederick Stibbert è uno che ha vissuto proprio come ha voluto. Onore a lui. Ha voluto lasciare una traccia duratura del suo passaggio su questa terra, e quella volontà ferma agisce ancora oggi.

Non è incredibile, essere capaci di proiettare così se stessi oltre il più grande degli ostacoli?
Giardino

15_Neil MacGregor, “La storia del mondo in 100 oggetti”

Standard

Storia del mondo in 100 oggettiNel 2010 la BBC propone a Neil MacGregor, Direttore del British Museum dalle notevoli doti di comunicatore e protagonista di una strepitosa rinascita dell’istituzione da un passivo di milioni di sterline, di partecipare a una trasmissione radiofonica in cui gli viene richiesto di parlare in pochi minuti di 100 oggetti rappresentativi selezionati fra le collezioni del museo londinese, uno al giorno per 5 giorni a settimana, per 20 settimane.

L’iniziale perplessità di MacGregor viene respinta con disarmante semplicità dalla popolare emittente. No, non è un problema parlare di cose che chi ascolta non può vedere, anzi: in questo modo ogni ascoltatore potrà formarsi una sua personale visione dell’oggetto di cui sta seguendo la storia, facendo volare la propria fantasia trasportata dalla magia evocativa delle parole. Il programma ottiene un successo inaspettato e straordinario, da cui scaturisce l’idea per questo affascinante libro.

A ciascun oggetto, illustrato in genere da una, talvolta da due fotografie (di altissima qualità), viene dedicato un testo sintetico e pregnante, di circa 5 pagine. Una pillola breve ma intensa che riassume la sua storia in relazione alla storia mondiale: l’epoca e il contesto in cui è stato prodotto, la sua finalità e i messaggi che poteva veicolare ai contemporanei, il modo in cui culture diverse lo hanno interpretato o usato nel corso del tempo, il motivo per cui è stato perduto o sepolto, la sua riscoperta e il suo significato nel mondo attuale. Partendo da semplici oggetti, siano capolavori celebri come il busto di Ramses II che ispirò la celebre poesia Ozymandias di Shelley o pietre miliari per il loro valore storico, come la stele di Rosetta, o ancora oggetti assolutamente banali in sé, come i cocci di ceramica raccolti su una spiaggia della Tanzania, MacGregor fornisce da vero affabulatore un magistrale saggio di divulgazione storica, intrigante quanto scarno e privo di facile prosopopea, un affresco di ampio respiro della cultura umana dal chopper di Olduvai, uno dei primi prodotti in cui 2 milioni di anni fa si esprime la creatività umana, fino alla lampada solare prodotta in Cina nel 2010.

Un libro da tenere sul comodino e leggere uno o due capitoli alla volta, riflettendo, ricomponendo man mano un mosaico fatto di tessere collegate da fili sottili che legano le epoche e le diverse parti del mondo in una rete di relazioni potenzialmente infinita, che si diramano nello spazio, attraverso le vie di comunicazione, e nel tempo, segnate dai passaggi di mano che gli oggetti subiscono e da cui scaturiscono sempre nuovi significati. Un esercizio salutare: nel volume la storia dell’Europa, che siamo abituati dai nostri programmi scolastici a considerare in una prospettiva centrale e centripeta, è solo una parte in mezzo a tante di questo insieme multiforme e caleidoscopico, in cui da una storia ne scaturiscono sempre di nuove come nel racconto de Le Mille e una notte.

100 oggetti per ricostruire la storia del mondo

7_Vasco Pratolini, “Metello”

Standard

Metello_PratoliniQuando entra a Firenze, attraversando porta alla Croce in un luminoso e trionfale mattino di giugno, Metello ha appena quindici anni ma già è un uomo. Rimasto orfano, è cresciuto come un figlio nella famiglia di contadini in cui era stato messo a balia, condividendone la fatica nei campi di Rincine: ma quando i Tinaj decidono di andarsene in Belgio per cercare fortuna, Metello avverte irresistibile il richiamo della città dove è nato e dove ha vissuto suo padre, l’anarchico Caco, lui che si sente “cittadino” e diverso dalla gente di campagna in mezzo a cui ha vissuto. È deciso anche lui a cercare fortuna, ma soprattutto a trovare la sua strada, quella che la sorte e le sue capacità sapranno indicargli: è solo, giovane, forte, è ruvido ma giusto, ha labili legami con un passato che per lo più ignora e voglia di futuro.

È il 1887: troverà ad accoglierlo una città in pieno fermento, in cui il turbine di Firenze capitale è passato lasciando il pesante retaggio, come un grigio strascico, del Decennio di carestia: ma anche quello è ormai volto al termine, e le occasioni non mancano per chi sa coglierle. Metello, riconosciuto da un antico compagno del padre, il vecchio Betto, sale rapidamente i diversi gradini della scala sociale cui può accedere: dapprima si accontenta di lavoretti di fatica a giornata, ma presto diviene manovale, e poi mezzo muratore e muratore in una Firenze che sta ricominciando a respirare e a crescere al di fuori dell’antica cerchia delle mura, conosce la vita di città, le donne, il piacere di avere in tasca i soldi che si è guadagnato e di disporne, la vanità e la tentazione. Conosce l’amicizia disinteressata di Betto, che lo inizia alla vita insegnandogli a leggere e a scrivere, donandogli le ali che potrà utilizzare per affrontare l’avvenire. Conosce l’amore di Ersilia, che lo completa e lo rinnova anche quando la loro unione sembra prossima a vacillare.

Ma l’apparente benessere in cui la città si ammanta nasconde profonde contraddizioni che hanno antiche radici: sono anni segnati da aspri conflitti di classe. Legge sempre, ragiona, Metello, con la sua logica ineluttabile e testarda: cerca le chiavi per comprendere il presente e per conquistare l’avvenire. Si avvicina al movimento operaio, al socialismo, diviene presto un punto di riferimento per i compagni nella lotta per migliorare i salari dei lavoratori, finirà in carcere e al confino, sarà quasi involontariamente uno dei protagonisti degli scioperi dell’estate del 1902, in cui per sei settimane i muratori di Firenze ingaggiarono un braccio di ferro con gli impresari, riuscendo infine ad ottenere condizioni di lavoro migliori nei cantieri. A quale prezzo tuttavia: la fame, la disperazione, il tradimento, gli scontri a fuoco, la morte.

Intenso e poetico, Metello ha cambiato il mio modo di vedere la città che amo, Firenze, attraverso gli occhi dei personaggi, vivi e reali, che animano la vicenda narrata da Pratolini: non è più possibile passare lungo il Mugnone per via XX settembre senza pensare all’episodio culminante dello sciopero, ai volti cotti dal sole e tesi dei muratori, al silenzio rotto solo dalle grida delle rondini che si disperdono verso campi che adesso non esistono più, ai fucili che tremano in mano ai soldati di leva, agli spari che cementano improvvisamente la solidarietà contro i padroni, agli occhi azzurri del giovane Renzoni, che muore precipitando da un ponteggio insieme al vecchio Lippi, il decano, proprio quando la lotta ha prodotto un’insperata vittoria, quando il futuro sembra realizzabile. Non è più possibile passare da via Ghibellina senza pensare a Ersilia, accecata dal furore, che pedina la bella Ida, minuscola e danzante nuvola lilla destinata a svaporare come rugiada al sole di fronte alla determinazione e alla forza dell’amore tradito ma non vinto.

La geografia immaginaria tracciata nel romanzo dall’andirivieni dei suoi personaggi, con la loro umanità imperfetta e fugace, si sovrappone ormai alla geografia attuale e consueta di Firenze, intessendone le strade di voci e di volti, di storie insieme dure e piene di speranza.firenze_ottocento

5_Ugo Pesci, “Firenze capitale (1865-1870)”

Standard

Ugo PesciNel 1864, quando la clausola segreta della Convenzione di Settembre stabilì il trasferimento della capitale del neonato Regno d’Italia da Torino ad altra città da individuare (segno tangibile della rinuncia a Roma, nelle intenzioni della Francia, che aveva imposto la clausola come condizione del ritiro da Roma), Firenze era ancora una città medievale: le mura arnolfiane (XIII-XIV secolo), progettate in vista di un auspicato incremento demografico che sarebbe stato interrotto bruscamente dalle ondate di peste del Trecento, racchiudevano un tessuto urbano disomogeneo, in cui la mole imponente del Duomo gettava la sua ombra su basse casupole, e in cui i palazzi nobiliari erano intervallati agli orti e ad ampie distese non edificate. Pochi mesi dopo, la modernità avrebbe bussato prepotentemente alle porte della città, mutandone per sempre il volto. L’abbattimento delle mura, la creazione dei viali di circonvallazione, l’estensione del centro urbano con la nascita di nuovi quartieri residenziali, la demolizione dei quartieri più cadenti del centro storico e l’apertura di nuove piazze ci consegnano Firenze così come è oggi.

Il libro di Ugo Pesci, scritto all’inizio del Novecento, offre una semplice ma vivida cronaca degli anni in cui Firenze ebbe il rango di Capitale del Regno d’Italia, dalle vicende politiche alla vita mondana, improntata ad una visione ottimistica (non so quanto sincera e quanto ancillare) che mi ha molto colpita. Non vi è spazio, nelle pagine di Pesci, per la nostalgia di quella vecchia Firenze che si annidava nelle sordide strade del centro e che fu spazzata via, in quei cinque anni e nei decenni successivi, nel corso di una febbrile operazione urbanistica del tutto ignara (o volutamente ignara) del valore delle testimonianze storiche e architettoniche che si cancellavano in nome dell’avanzare del progresso, dell’igiene e della sicurezza pubblica. Una nostalgia che tuttora aleggia e che ho sempre provato, con il cuore di chi ama il passato e ne vorrebbe comprendere le ragioni e le storie, passeggiando in Piazza della Repubblica, dove solo la Colonna dell’Abbondanza resta a testimoniare la presenza, un tempo, di quello che fu il Mercato Vecchio e il Ghetto, con le sue botteghe, la sua gente e le sue rumorose e non sempre limpide attività. Eppure, afferma nettamente Pesci, Firenze non avrebbe potuto incontrare il nuovo secolo abbigliata con le sue vecchie vesti, per quanto auliche fossero: il cambiamento era necessario, in effetti era già iniziato, in sordina, a partire dagli anni della dominazione francese ed era proseguito durante il regno degli ultimi Granduchi. Certo, sarebbe avvenuto gradualmente e in modo meno traumatico, vogliamo immaginare, se non fosse stato sotto la pressione di una trasformazione decisa dall’alto e imposta in tempi serratissimi.

Telemaco Signorini, Mercato Vecchio a Firenze (1882-1883)

Telemaco Signorini, Mercato Vecchio a Firenze (1882-1883)

Nonostante il rimpianto per ciò che è irrimediabilmente scomparso, le austere facciate della Firenze umbertina in fondo fanno ormai parte della sua identità quanto Palazzo Vecchio e Santa Maria Novella. Nessuna città, come ogni organismo, può restare ancorata ad un momento unico del suo destino se il cambiamento è la cifra unica di tutte le cose, ci piaccia o meno. Abbracciare il cambiamento è una virtù che va saputa coltivare. Quel quinquennio di Firenze capitale, che proprio quest’anno si celebra con una serie interessantissima di iniziative promosse sia dal Comune che da altri enti, porta un turbine di cambiamento improvviso e fugace, segnato dalla percezione della provvisorietà. Era infatti chiaro a tutti i contemporanei, sia a chi cercò di contrastare il trasferimento della capitale o lo criticò vedendovi solo un rischio per Firenze, sia a chi si affrettò a trarne rapidi quanto effimeri guadagni, che quella stagione non sarebbe stata eterna: troppo forte era il richiamo di Roma e il suo statuto simbolico come centro ideale del Regno.

Per pochi anni si affollano dunque a Firenze migliaia di impiegati giunti al seguito del Governo e dei Ministeri, che lasciano con rimpianto Torino immaginando ingenuamente la città toscana una sorta di far west privo delle comodità cui erano abituati e ne restano invece incantati; per pochi anni deputati provenienti da zone diverse del Regno e che per la prima volta si chiamano italiani siedono sugli scranni di Palazzo Vecchio; per pochi anni è Firenze il fulcro della nuova Italia, fino al settembre del 1870, fino a Porta Pia. E così, il vento passò.

Fu in casa Corsini, si può dire, l’ultima festa di Firenze capitale, la sera del lunedì grasso del 1870 – riuscita stupendamente quantunque ballerine e ballerini fossero stanchi davvero, dopo una ventina di notti di non interrotto lavoro – ma la mattina dopo, quando sul far del giorno andavamo per via Palazzuolo verso il centro della città, nessuno di noi pensava che nell’inverno del 1871 si sarebbe ballato a Roma.

4_Wladimiro Settimelli, “Garibaldi. L’album fotografico”

Standard

GaribaldiAll’indomani della caduta della Repubblica romana, nel luglio 1849, un fotografo percorre con la sua apparecchiatura le strade deserte della città, per documentare i luoghi dove più aspri si sono svolti i combattimenti: l’obiettivo si sofferma sulle barricate, sui tetti sventrati, sui muri crivellati di proiettili. La fotografia è nata da appena 10 anni, ma già tutte le sue dirompenti potenzialità sono ben evidenti, sia a chi ne fa uso, sia al potere.

La nuova tecnica ha tutte le caratteristiche per essere democratica e sovversiva, potenzialmente rivoluzionaria: finalmente, trattenere un ricordo visivo non è più appannaggio di chi può permettersi di pagare un pittore. Farsi eseguire un ritratto diviene un’operazione alla portata se non di tutti, sicuramente di buona parte della popolazione. Ma soprattutto chiunque, armato semplicemente di carta salata, di una camera oscura e di sali d’argento può scendere in strada e fermare per sempre frammenti di realtà così come essa è, senza il filtro propagandistico o agiografico dell’incisione e della stampa. E forse ancor peggio, il confine fra realtà e finzione è messo in serio pericolo dal fotografo che in studio, con l’uso sapiente dell’aerografo e del taglierino, può dare una sicura parvenza di realtà alla finzione, come si vedrà nel 1862, quando scoppia a Roma lo scandalo dei fotomontaggi infamanti che hanno per protagonista Maria Sofia di Baviera, ex Regina delle due Sicilie.

Comprende bene tutti i rischi della fotografia Napoleone III, che nel 1859 vieta alle macchine fotografiche l’accesso al campo di battaglia di Solferino, dove si è svolto un massacro destinato a sollevare l’indignazione di tutta Europa; li comprende bene il governo papale che nel 1861 subordina la detenzione di apparecchiature fotografiche, sia per diletto personale che per professione, al controllo delle autorità di polizia. Li comprende bene anche Giuseppe Garibaldi: ma con spirito visionario egli ne mette a fuoco soprattutto gli straordinari vantaggi.

Il volume esamina il ruolo della fotografia nel Risorgimento italiano, soffermandosi in particolare proprio sull’uso che di questo mezzo espressivo seppe fare uno dei maggiori protagonisti di quella controversa stagione che portò alla liberazione della penisola dai poteri europei e alla formazione del Regno d’Italia. Valutata da questo punto di vista, la figura di Garibaldi acquista una sconcertante modernità.

Davanti all’obiettivo, si può scegliere di apparire naturali, incuranti della macchina, oppure di affrontarla e sostenerne lo sguardo: fin dai primi ritratti fotografici noti, risalenti agli anni ’50 dell’Ottocento, Garibaldi ha fatto la sua scelta. Si mette sempre in posa accuratamente, preferisce mostrarsi in piedi, eretto e in atteggiamento fiero, sceglie l’abbigliamento e gli accessori, ma soprattutto guarda sempre diritto in camera, consapevole che il suo sguardo si poserà su tutti coloro che osserveranno la sua immagine. Sembra essere estremamente consapevole del fatto che quelle immagini andranno oltre la sua stessa vita, saranno uno degli ingredienti essenziali della creazione del “personaggio” Garibaldi e della mitopoiesi delle sue imprese: per questo seleziona i fotografi da cui farsi ritrarre, autografa con cura maniacale le fotografie che dona generosamente in tutta Italia, patrocina la creazione di un album che conservi il ricordo  dei volti di tutti i Mille.

Il vestiario congiuseppe_garibaldi_1866 cui si fa fotografare, lo stesso con cui si presenta alle sedute parlamentari, diviene la sintassi di una politica dell’immagine consapevole e mai gratuita. La camicia rossa, il fazzoletto annodato al collo, il berretto cilindrico coi ricami, il poncho a righe gettato sulle spalle, il bastone su cui si appoggia dopo la ferita in Aspromonte: nessuno allora, eccetto Garibaldi, poteva vestire così ed essere considerato una persona rispettabile. Noi che viviamo nell’epoca del casual, difficilmente comprendiamo la carica sovversiva di questo stile, che ricorda al popolo le avventure sudamericane e le tante lotte sostenute e insieme sputa in faccia all’establishment un chiaro “non sono come voi!”.

Dalle fotografie di Garibaldi saranno tratte innumerevoli stampe, incisioni, cartoline: la sua immagine viene consegnata all’idolatria popolare, perdendo mano a mano concretezza e scivolando nella retorica e talvolta nel grottesco, fino all’identificazione con Gesù Cristo. Il burattinaio di se stesso sembra restare vittima del potere dell’immagine.

O forse aveva previsto anche questo?

Waterloo – 200 anni dopo

Standard
La collina del leone - Leeuw van Waterloo

La collina del leone – Leeuw van Waterloo

Waterloo, un piazzale stagnante di sabbie umide, vecchi edifici ciechi dai denti dirupati, insegne cadenti, vernici scrostate, un improbabile caffè: una pozza nel tempo, un gorgo in cui la storia ha cessato di scorrere; un senso di vuoto e di abbandono ti attanaglia sotto il cielo plumbeo, slavato dalla pioggia appena cessata, nonostante il verde rassicurante dei campi e la caligine che sorride fra i rami degli alberi.

Un polveroso diorama tenta coraggiosamente di salvare almeno la memoria, malinconico ma dolce come una piazza di paese alla fine della festa, quando i cartelli strappati si attardano fra le gambe dei passanti.

Così deve aver piovuto nella notte fra il 17 e il 18 giugno 1815: la pioggia fatale che cancellò il sorriso dal volto di Napoleone e tramutò un trionfo già spavaldamente annunciato in disfatta.

Bastò alla Provvidenza un po’ di pioggia perché Waterloo distruggesse Austerliz; una nube che attraversò il cielo fuori stagione fu sufficiente a far crollare un mondo.

Quarantasei anni dopo la battaglia, Victor Hugo portò a termine qui il suo romanzo I miserabili. Gli echi dell’immane scontro si erano spenti da tempo, ma nel percorrere il paesaggio dolcemente ondulato della piana di Waterloo i segni della sofferenza impressi nella terra, nelle ferite degli alberi, nei mattoni crivellati di colpi e nei muri non ancora ricostruiti urlavano prepotentemente il ruolo del destino nelle vicende umane. L’eroismo dei soldati, il carisma del comandante, la tattica militare con i suoi minuziosi calcoli di uomini e mezzi: niente valsero contro la forza superiore che governa il mondo. La carica dei dragoni francesi, sfavillanti nelle loro armature, macchine da guerra più che uomini, si spegne in un crepaccio inatteso, non visibile: con loro si inabissa la stella dell’Imperatore, la battaglia è perduta, si intravede già il profilo dell’Isola di Sant’Elena.

Duecento anni dopo, man mano che saliamo alla Collina del Leone che oggi domina il paesaggio di Waterloo, si intravede finalmente il blu del cielo fra le nubi che si sciolgono e le ali dei gabbiani. I fantasmi evocati da Hugo popolano ancora la piana, una strana energia percorre sotterraneamente questo luogo, ma il cielo di Waterloo è il cielo di Tolstoj, indifferente senza malvagità, pieno e infinito in contrasto con la pochezza umana.

Sopra di lui non c’era più nulla, se non il cielo: un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto, con nuvole grigie che vi strisciavano sopra dolcemente. «Che silenzio! Che quiete! Che solennità!», pensò il principe Andréj, «non è più come quando correvamo gridando e battendoci; non è così che le nuvole scorrono su questo cielo alto, infinito. Come non lo vedevo prima, questo cielo così alto? E come son felice di averlo finalmente conosciuto. Sì! Tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è niente, niente all’infuori di esso. Ma anch’esso non esiste, non c’è nulla all’infuori del silenzio e della tranquillità. E Dio ne sia lodato!…»

Ad Austerliz, nonostante gli ordini mal recepiti, la mancanza di comunicazione fra i reparti dell’esercito, il caos che si impadronisce della truppa, un meccanismo invisibile porta inesorabilmente alla vittoria di Napoleone. A Waterloo nonostante la migliore posizione, la superiorità numerica, il genio tattico, lo stesso meccanismo invisibile trascina Napoleone nel fango.

Austerliz e Waterloo, la gloria e la disfatta, Guerra e pace e I miserabili, Andrej e Pontmercy: un unico fato che governa tutte le sorti. Non ho cercato, aprendo questi libri, racconti di battaglia: non li ho mai amati particolarmente. Eppure questi eventi formidabili di appena due secoli fa sono fra le pagine che più ho amato e mi sono rimaste care di entrambi: metafore potenti della forza della storia, del fluire inarrestabile, dell’inutilità degli sforzi affannosi che si rivelano inevitabilmente miseri nella prospettiva temporale, cannocchiale rovesciato con cui dovremmo imparare a valutare i nostri atti.

Nulla é piú imminente dell’impossibile… quello che dobbiamo sempre prevedere é l’imprevedibile.