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E sconfinati spazi io nel pensier… – A Rocca Calascio

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Nel 1911 il paese di Calascio, sulla strada che dall’altopiano di Navelli raggiunge i pascoli estivi sui monti che da meridione preannunciano le vette più elevate del Gran Sasso, contava quasi 1600 abitanti, ed erano già in calo rispetto ai numeri del censimento del 1881. Non c’era l’acqua in paese, fino a quel momento, perché la natura carsica del terreno impedisce la formazione di sorgenti perenni a quote basse; e la modernità incalzava, così come il richiamo delle città. Chi poteva permetterselo costruiva cisterne sotto le proprie abitazioni, in cui raccogliere la neve e l’acqua piovana, ma i più dovevano recarsi al laghetto vicino al paese per attingerla: acqua spesso stagnante e di cattiva qualità.

Proprio in quell’anno, grazie alle donazioni delle famiglie ricche del paese e dei molti migranti che avevano trovato fortuna lontano da quelle montagne, un ingente sforzo ingegneristico portò a Calascio una conduttura di quasi 20 chilometri, da una sorgente alle falde del Monte Prena: e l’acqua zampillò finalmente nelle fontane.

Chissà se risale a quell’epoca la sfera terrestre tracciata con un chiodo e ripassata col carboncino sulla facciata di una casa, con l’indicazione dei Tropici e delle fasce climatiche del pianeta. Ho immaginato un volenteroso maestro dell’eroica Italia postunitaria, e una torma di bimbetti scalzi e con le gote sporche, seduti a terra colle faccine rivolte estatiche verso la magia sprigionata dalla Terra disegnata semplicemente sull’intonaco.

Eppure, era una paese ricco, Calascio, aggrappato al fianco della montagna e posto fin dall’epoca normanna a controllo dei tratturi che collegavano i pascoli estivi dell’Abruzzo con il tavoliere delle Puglie, dove le greggi andavano spostate durante il rigido inverno che serra i monti.

Nel 2011, gli abitanti erano 137.IMG_0013_2E infatti è difficile incontrare qualcuno, nelle viuzze in cui le facciate degli edifici quasi si toccano, e se senti voci allegre di bambini, immagini che provengano da qualche televisore acceso, tanto sembrano incongruenti. Frammenti di conversazioni.

Un’anziana esce concitata dal portone sghembo di una casetta di pietra, e si avvicina alla  finestra di una vicina:

“Maria, c’è il furtivendolo, vieni. Tiene tutto, broccoletti, rape, cavoli. Arance”.

“Sì ora vengo, ma quanto sta?”, risponde Maria invisibile dietro alle tendine di pizzo immacolato.

“Eh vieni, vieni subito, che se ne va”.

Il furtivendolo (questa strana figura professionale, da cui forse bisogna diffidare) non ha un negozio, ma passa col furgoncino telonato fornito di bilancia, si ferma lungo la strada e aspetta un po’ lo sciamare degli acquirenti, ma poi passa al prossimo paese: Maria, affrettati…
CalascioIMG_0015_2Perché vivere sui monti, in un ambiente così ostile anche nei primi giorni di primavera? Oggi, la sopravvivenza di questi paesi in cui non puoi arrivare con l’auto alla porta di casa a lasciare la spesa, perché le strade ripidissime sono fatte di gradini di pietra, è appesa a un filo tenue, sospesa fra l’irrimediabile progressivo abbandono, man mano che si esaurisce la generazione di Maria e della sua tenace vicina, e lo snaturamento che lo sfruttamento turistico già insinua nelle poche case ristrutturate e trasformate in strutture ricettive.

Ma il motivo della passata grandezza di Calascio si scopre arrampicandosi per le strade acciottolate fino a Rocca Calascio, il castello che, sulla dorsale sopra il paese, domina un paesaggio sconfinato che abbraccia tutto il Gran Sasso. Dal punto più alto della Baronia di Carapelle, come dalla prua di una nave sospesa sulle nuvole, si dominavano le vie della transumanza: chi tiene Rocca Calascio tiene mezzo Abruzzo.IMG_0011_2Respirando l’aria fresca, cerco di non pensare aggettivi, perché sono superflui alla nuda potenza di questo luogo. Mi torna alla mente, per la prima volta da anni, un’immagine del Pendolo di Foucault: la terra percorsa sotterraneamente da meridiani di energia che in alcuni luoghi emergono in superficie. Luoghi magnetici in cui l’uomo, fin dalla sua più lontana storia, ha sentito una presenza: luoghi in cui ha abitato sempre, per cui ha lottato e combattuto con altri uomini, in cui ha costruito luoghi di culto e pregato divinità che cambiavano al volgere delle ere.

Questo deve essere uno di quei luoghi.

A nord-ovest, lontano dalle nevi emergono i bastioni rocciosi del Corno Grande, nella prospettiva all’infinito che si apre dietro la chiesa barocca di Santa Maria della Pietà. Dietro di noi, guardando a est, si elevano le torri cilindriche della Rocca, che affondano le radici come un albero fantastico nelle profondità della montagna.

Non c’è solo una logica difensiva nella progettazione di questo castello, perché sarebbe stato sufficiente farlo meno bello. C’è un desiderio di fusione con l’indicibile perfezione della montagna, di presa di possesso da pari a pari di un luogo sino ad allora appartenuto agli dei.IMG_0010_2 IMG_0016_2