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La cupola, la città. Quando tutto sembra in bilico

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Santa Maria del FioreSolo la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore è alta come un palazzo di sei piani, ardita come tutta l’incredibile creazione di Brunelleschi, “erta sopra e’cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani”. La guardo contro luce, volute e rosoni di marmo un po’ scomposti, il sole che filtra ancora, pur guizzando da dietro le colline, attraverso le vetrate porpora e oltremare. Mi volto ancora verso il parapetto: la città è distesa là sotto, la città amata, le strade conosciute, i palazzi con i loro inconfondibili lineamenti, i giardini e le corti nascoste che solo da questa altezza si svelano.

Ma tutto sembra in bilico.

Guardo accanto a me i profili delle mie amiche. Ci attardiamo nel freddo, al tramonto, senza parlare ormai, dopo aver giocato a lungo a indovinare l’identità degli edifici che si distendono sotto di noi, per un inespresso desiderio comune di fermare questo momento. Il gioco ci ha consentito di non parlare di quello che proviamo davvero oggi, ma insieme scava già come un solco di nostalgia.

Un tramonto che ci appare carico di significato. I capelli biondi dell’una e i ricci indomabili dell’altra. Occhi chiari entrambe ma così profondamente diversi: dolci e pacati gli uni, guizzanti di energia gli altri. Siamo diventate amiche abbastanza da adulte da serbare nei nostri rapporti, per quanto quotidiani e intensi, un velo di riserbo che ci impedisce di superare un segno, di sciogliere l’emozione nel gesto.La lanterna di Santa Maria del Fiore

Ancor più che all’interno della cattedrale, quando le scalette claustrofobiche si sono improvvisamente aperte in alto sulla vista della cupola affrescata dal Vasari con la sua immaginifica teoria di demoni infernali, e sul geometrico ordito bianco e nero del pavimento giù in basso, le proporzioni fra le cose sembrano prive di senso. Le persone, giù indicibilmente lontane, si fondono nell’indistinto. Sembra che la città esista indipendentemente da loro e, ovviamente, anche da noi, anche se le nostre mani posate sul ferro freddo della ringhiera sono più concrete delle ombre che tracciano percorsi sui marciapiedi, in basso.

Oggi, anche se siamo qua travestite da turiste, combattiamo sordamente. Una battaglia inutile, ne sono certa, ma che restituisce un po’ di senso alla fatica, allo scoraggiamento, all’impotenza, alla rabbia e alla frustrazione così spesso provati negli ultimi due anni. Evidentemente, c’è qualcosa per cui vale la pena resistere. Quando le proporzioni si perdono, e quando ciò che sembra certo vacilla, è più facile scoprirlo.

Un sollievo si diffonde. La mia passione, che credevo morta, respira ancora. Aggiorniamo continuamente la pagina internet. Piano piano, la petizione raccoglie firme mentre l’ombra della cupola si allunga ancora come un immenso gnomone, divora angoli di strade, si affievolisce infine e scompare. Tramonto su Firenze

Storia di un sognatore, Frederick Stibbert

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Frederick Stibbert in armatura per il corteo storico del DuomoC’è una fotografia, un’albumina forse a giudicare dai toni cromatici, che mostra Frederick Stibbert con indosso l’armatura “inglese del 1370” con cui partecipò al solenne corteo per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1887.

È in piedi, leggermente di tre quarti, accanto al cavallo riccamente bardato, e ne tiene con la mano sinistra il morso. Dietro di loro, un grande portale aperto che li inquadra come una quinta teatrale. Forse la ripresa è stata fatta nel giardino della Villa di Montughi, perché di lato si intravedono arbusti e foglie. Quello stesso giardino in cui oggi, dopo la pioggia, perle di cielo rotolano sulle grandi foglie di Stelizia. A terra, è posato l’elmo dall’inconfondibile cimiero – un angelo che si stringe le braccia al corpo – che Stibbert aveva fatto realizzare per l’occasione.
AcquaAllora, non aveva ancora cinquant’anni, se la fotografia non è stata ripresa a posteriori, eppure sembra un uomo molto più anziano. Volge con naturale sicurezza il volto verso la macchina fotografica, piegandolo appena sulla spalla sinistra. Socchiude gli occhi, come a schermarli dalla luce o a soppesare chi ha di fronte, ma guarda fisso in camera, senza sorridere.

Non si sorrideva in verità, nel 1887, guardando un obiettivo.

Immagino che la maggior parte delle persone si sentisse allora piuttosto imbarazzata a mettersi in posa davanti a un apparecchio fotografico, e infatti spesso hanno sguardi tesi, opachi, o forzati. Forse si sentono in qualche modo giudicati, o messi alla prova. Forse tentano semplicemente, in uno sforzo disperato, di tenere gli occhi bene aperti, di non sbattere le palpebre, vanificando così la seduta di posa, per il tempo necessario a imprimere l’immagine sulla lastra di vetro.

Non Frederick Stibbert. Lui guarda fisso in camera, senza esitazione e senza tentennamenti. Soppesa noi, che lo guardiamo a distanza di più di un secolo dalla sua morte. Non dimentichiamo che era un uomo di mondo.

Lo chiamano sognatore. Lo chiamano eccentrico. Un riccone eccentrico con la morbosa fissazione per le armature antiche, per le chincaglierie esotiche, per spade e fucili.

Ma chi era davvero? Quello sguardo penetrante si fa beffe delle etichette che gli vengono attribuite.Cavalcata dettGuerrieri giapponesiCavalcata dett 2Frederick Stibbert eredita giovanissimo, alla morte precoce del padre, una enorme fortuna. Studiare non gli piace. O almeno non gli piace seguire i percorsi consueti. I suoi tutori pensano che presto dilapiderà il suo patrimonio. E in effetti, il giovane spende. Spende per acquistare oggetti meravigliosi in giro per il mondo. Eppure le fosche profezie non si avverano. Frederick Stibbert non è un avventato.

Pian piano prende forma l’idea di una creazione personale grandiosa, a cui dedica tutta la vita, senza diaframmi: la sua casa è il museo, il museo è la sua casa. La Villa di Montughi viene accresciuta, ristrutturata, adeguata alle proporzioni di una collezione che si arricchisce per decenni. Nuove passioni sbocciano con il tempo, e Stibbert le coltiva tutte, le asseconda tutte. I mezzi non gli mancano. Le sale si susseguono, non fredde sfilate di oggetti, ma ambientazioni, atmosfere, come frammenti di vita un tempo vissuta, congelata in un istante che mai sfiorisce.

Il progetto prende la sua forma definitiva alla sua morte, l’atto finale che suggella scelte consapevolmente perseguite. Stibbert lascia la sua casa, la sua collezione, il “suo museo”, come amava definirlo, con i suoi 56000 oggetti, oltre a un patrimonio in denaro di 800 lire, corrispondente oggi a qualcosa come 2 milioni di euro, alla Gran Bretagna, paese di origine del padre, con la possibilità di recesso a favore della città di Firenze, che ne entra in possesso nel 1908. A quale condizione? Che il “suo museo” sia aperto al pubblico, e resti per sempre così come lui l’ha ordinato.
Soffitto StibbertUn sognatore, sì. Un visionario, forse. Ma non chiamiamolo eccentrico. La sua visione era guidata da una volontà ferma, dalla traiettoria pulita e ineluttabile come una freccia scagliata contro un bersaglio. Questo dicono i suoi occhi a chi lo guarda dietro l’obiettivo.

Frederick Stibbert è uno che ha vissuto proprio come ha voluto. Onore a lui. Ha voluto lasciare una traccia duratura del suo passaggio su questa terra, e quella volontà ferma agisce ancora oggi.

Non è incredibile, essere capaci di proiettare così se stessi oltre il più grande degli ostacoli?
Giardino

La seconda volta – [La fine del Ramazan nella Valle di Ihlara]

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IMG_8515_FotorAlla fine del Ramazan si celebra Șeker Bayrami, la Festa dei Dolci, tre giorni di festività con cui si conclude il mese del digiuno. È una di quelle occasioni da trascorrere rigorosamente in famiglia, e dunque la Turchia nei giorni precedenti all’inizio della festa ribolle di vitale fermento: tutti si spostano, tornano dalle città al paese d’origine, caricano sugli autobus a lunga distanza, o sui più domestici dolmus, bambini e anziani genitori per andare in visita dai parenti lontani, recando con sé monumentali pacchi di provviste e doni.

Abbiamo notato, in effetti, un certo andirivieni più intenso del solito, ma senza allarmarci eccessivamente; abbiamo viaggiato un po’ stretti ma niente più.

Poi, durante la festa il paese si ferma, come la bonaccia improvvisamente investe la superficie del mare al calare del vento. I negozi sono chiusi, i taxi non circolano, i dolmus dormono negli otogar. Ci dà questa informazione, come fosse un’inconfutabile rivelazione divina ma con un tono fra l’esterrefatto e l’incredulo per la nostra dabbenaggine, il proprietario dell’Akar Pansion di Ihlara, servendo un enorme vassoio fumante di saç tava: il giorno dopo non ci possiamo sicuramente muovere di lì. Il padre si affaccia dalla porta della cucina asciugando le mani nel grembiule, e annuisce gravemente, suggellando la profezia con un lampo degli occhi profondi, nascosti fra sopracciglia color neve sul volto asciugato dal sole.

Ma l’inconveniente sopraggiunto non ci farà modificare il nostro piano: il giorno dopo vogliamo essere a Göreme in Cappadocia, dopo aver percorso la Valle di Ihlara, e ci saremo. La camminata nella valle faceva già parte del programma. Vuol dire che invece di tornare a prendere gli zaini, ce li porteremo dietro, come le lumache portano il guscio. In fondo basta percorrere la valle per circa 14 chilometri per ritrovarsi a Selime, sulla strada per Aksaray, dove in qualche modo si dovrà pur fare.

IMG_8513_FotorLa Valle di Ihlara è già quasi Cappadocia, ma non ancora, incastonata e quasi nascosta com’è fra ripidi fianchi rocciosi, brulli e modellati dall’erosione, ma rasserenata dallo scorrere sul fondovalle del Melendiz Suyu, che crea una inaspettata oasi verde, distendendosi con le sue acque fresche e scintillanti, su cui si allungano come lunghissimi capelli ciuffi di alghe, danzanti nella corrente. La osserviamo dall’alto al calare del sole, mentre una mandria di vacche rosse e stanche, visione campestre di infinita malinconia, incrocia il nostro cammino, e ci sembra in fondo una cosa fattibile.

La mattina successiva, zaino in spalla, ci inoltriamo nella valle deserta. Come ci era capitato altrove l’anno precedente, si ripete l’incanto della biglietteria chiusa e sguarnita, i cancelli aperti, e con un misto di timore reverenziale e di incredulità iniziamo a scendere i ripidi gradini che conducono presto al sentiero di fondovalle, dove gorgoglia il fiume. Quella discesa conduce in una dimensione nuova, ammantata di silenzio austero e potente.

Chiese rupestriSui fianchi riarsi della montagna, apparentemente morbidi come nuvole di zucchero filato, fra i massi erratici che sembrano quasi compagni di viaggio, si aprono carichi di promesse gli ingressi delle chiese rupestri, dai nomi poetici ed evocativi, la Kokar Kilise, la Yilanli Kilise, la Sümbüllü Kilise: la Chiesa Profumata, la Chiesa del Serpente, la Chiesa dei Giacinti. Riecheggiano di storie perdute e incomprensibili, da inventare di nuovo, sempre diverse, una storia per ogni viaggiatore che vi giunga all’interno. Tutte ti accolgono con la stessa penombra lacerata da qualche polverosa striscia di sole, che appena lambisce gli affreschi dai vivaci contrasti.

Teorie di ieratici santi, dagli occhi vuoti e cancellati dalla parentesi iconoclasta, ma di cui si indovinano ancora i tratti volitivi segnati da pennellate compatte, si allineano sulle pareti silenziose, campite di tappeti geometrici che si distendono a coprire ogni angolo. Quella roccia che all’esterno, alla luce del sole, si modula semplicemente nelle tonalità dall’arancio al rosso al bruno, è che come se scavandola avesse liberato un mondo nuovo di colori e figure.Il fiume Melendiz SuyuQuesto silenzio surreale accompagna tutto il percorso: sembra uno di quei giorni in cui l’umanità si è nascosta e la natura è rimasta da sola. Di lontano, volteggia una piccola colonia di rapaci attraverso la stretta striscia di cielo racchiusa fra le cime delle colline. Sembra quasi sacrilego avventurarsi, e il viaggiatore si sente osservato.

Sulla sponda del fiume ci sediamo a consumare frutta secca e acqua prima di riprendere il cammino. I fianchi delle montagne si avvicinano, il fiume scivola in mezzo, basta continuare a seguirlo. Infine, nel pomeriggio ormai inoltrato, il respiro della valle si dilata e ci troviamo al termine del percorso, si scioglie l’incanto nelle voci delle persone che finalmente ricominciamo ad incontrare sul sentiero.

A Selime, come ci era stato predetto davvero non ci sono mezzi.

Per la prima – e unica – volta in Turchia, proviamo la sensazione, con i nostri zaini che denunciano chiaramente il nostro status di stranieri, di essere prede. Ci si avvicinano più persone, a turno, che offrono un passaggio in cambio di soldi, dicendo che tanto non troveremo un modo diverso per muoverci quel giorno. Quando cerchiamo un passaggio sui pulmini turistici, gli autisti ci mettono i bastoni fra le ruote e si rifiutano di farci salire, accampando problemi di assicurazioni e controlli, ridicoli per noi che abbiamo viaggiato seduti nei corridoi degli autobus e nei cofani posteriori dei taxi. Ma in effetti, camminando lungo la strada e provando ad alzare il pollice, la macchine che sfrecciano in direzione di Aksaray rispondono suonando il clacson, gli uomini alla guida alzano le spalle e allargano le braccia, tutte le vetture sono colme di nonni nipoti e animali domestici in corsa verso casa, verso la festa.
IMG_8517_FotorQuando ormai, passate alcune ore di inutile autostop, ci stiamo rassegnando, si fermano due ragazzi su una macchina rossa, musica a palla e finestrini completamente abbassati. Una cabrio, praticamente. Loro, vestiti di jeans attillati e camicie squillanti che dovrebbero essere alla moda, ma ti proiettano invece in una serie tv d’infima categoria. Ci fanno cenno di salire e partono lanciati come folli. Non parlano altra lingua eccetto la loro, non ci parlano ma non parlano nemmeno fra di loro.

Più volte, osservando le nude colline sfrecciare ai lati della macchina e a tratti il tachimetro che segna costante fra i 100 e i 120 km/h, mi chiedo se la mia vita non dovrà finire in un avventato sorpasso mediorientale. Ma poi questi enigmatici ragazzi ci porteranno davvero dove ci hanno detto che stanno andando? Non poter guardare in faccia due persone che ti portano in auto e non ti parlano ha un che di poco rassicurante. Gli incontri del pomeriggio hanno lasciato uno strascico amaro.

Arriviamo infine ad Aksaray, e la tensione inizia a sciogliersi quando di nuovo possiamo guardarli in viso: sorridono, rifiutano decisamente qualsiasi cosa per il passaggio, ripartono in una nube sonora che non si è mai interrotta, verso quel loro misterioso impegno che li ha condotti sulla nostra strada, e che resto con la curiosità di conoscere. Prendiamo l’ultimo autobus per Nevsehir, da dove si diparte la ragnatela dei percorsi della Cappodocia. Ci sediamo nell’ultimo sedile, stanchi e ancora silenziosi. Piano piano il dolmus si riempie.

Un ragazzino dal braccio ingessato e fermato al collo con un fazzoletto, poco dopo la partenza si alza dal suo posto a fianco della mamma e ci si siede accanto. Ci osserva, a lungo, incuriosito. Occhi scuri luccicanti come stelle sotto la frangetta nera. Infine rompe il silenzio, col suo coraggio di bambino. Parla per due ore, fa domande, ascolta attento le risposte perché vuole sapere molte cose, un dialogo in lingue eterogenee guidato dalla luce degli occhi.

Dire i numeri con le dita è la cosa più semplice del mondo, e se troviamo un argomento che contenga dei numeri si può parlare così per ore. Così ci dice quanti anni ha lui, otto, quanti ne hanno la mamma e le sorelle che viaggiano anche loro sull’autobus, quanti ne hanno tutte le persone che conosce. Si è rotto il braccio andando in bicicletta, anche questo è semplice da spiegare. Ma un’altra cosa facile da dire è il nome dei luoghi, e così dice i nomi dei paesi che attraversiamo, dei paesi che vediamo lontano sulle colline, di quelli a cui conducono le strade che incrociamo. È facile anche dire il nome delle persone, e quindi ci chiede il nostro, ci dice il suo, ci presenta tutti coloro che siedono nell’autobus, quando scendono e quando salgono.

Quando infine arriva alla sua fermata, scrivo sulla cartina, in corrispondenza del suo paese, Acigöl, un puntino vago sulle strade della Cappodocia, senza stelline a contrassegnare qualcosa di notevole da vedere, il suo nome. Mustafa. Allora davvero ci rilassiamo sui sedili, ci guardiamo e i nostri occhi sono bagnati di commozione: sottovoce, ci diciamo che tutti i momenti di quel giorno ci hanno portato lì, e gli occhi luminosi di Mustafa che saluta con la mano, incorniciato nel finestrino, hanno già cancellato le sensazioni spiacevoli delle ultime ore.IMG_8516_Fotor


La seconda volta era nel luglio 2014

La seconda volta – [Egirdir e Sagalassos, città antiche e moderne incastonate fra le vette]

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EgirdirArriviamo a Egirdir in un tramonto rarefatto, quando la montagna distende il suo vasto corpo stanco sull’acqua madreperlacea. Egirdir è uno smilzo funambolo sospeso sulla superficie senza onde, legato ancora alla sponda da un nastro sottilissimo ma ormai sul punto di sciogliersi per permettergli di iniziare il volteggio. È un fanciullo in calzamaglia verde che esegue il suo numero per la corte delle vette millenarie, su cui domina di lontano il turrito Davraz Daği.

Un paesaggio pacato, senza suono, senza eccessi, in cui l’apparente immobilità del quadro è il risultato di innumerevoli minutissimi moti: il granchio che si lascia lambire sulla battigia, la foglia che plana roteando senza peso, il sasso che canta sommesso quando il respiro del lago si ritira.

Forse ancor più della prima volta, questa seconda volta in Turchia non posso raggiungere una meta senza immaginarne infinite altre. Quante città perdute in mezzo a queste grandi montagne, quanti sentieri, quante gole ombrose e quante assolate pietraie. Come lo sguardo, volgendosi intorno ad interrogare il perimetro del lago, così anche il pensiero, instancabile, cerca di spingersi sempre oltre, come ad accarezzare almeno tutto ciò che non riesce a possedere. Ogni partenza non può essere che un arrivederci.

SagalassosDi città in città, da un otogar all’altro, si rivelano infiniti insondabili spazi inabitati, deserti, regno della capra e del rettile. Ma non si può escludere che un tempo questo paesaggio non fosse profondamente diverso. Ci sono città accuratamente nascoste sui fianchi delle montagne, dai nomi fantastici ad evocativi.

Su un altopiano dell’Ak Dağ, la Montagna Bianca, andiamo ad incontrare la pisidia Sagalassos, che forse già si cela dietro la Salawassos menzionata nelle tavolette ittite, più di tremila anni fa. Ad inafferrabile altezza, fra 1400 e 1700 metri sul livello del mare, i marmi bianchi distesi a scaldarsi fra gli arbusti spinosi rappresentano un immenso rompicapo archeologico. Ci saranno state risorse a giustificare la grandezza di questa città, ci saranno state strade e motivi per arrivarvi, per raggiungerla dopo un cammino certo faticoso: non solo la maestosa bellezza del luogo.

Bellezza, che parola abusata e logora. Ne detesto ormai il suono, trasformato in stolido vessillo promozionale, così facile e di sicuro effetto. Eppure sotto il bagliore accecante del sole è complicato trovare un altro termine che riassuma i contrasti violenti dei colori, la forza della roccia, la purezza dell’aria e l’enormità dell’abbraccio di cielo e terra in cui ci troviamo stretti.

Sacro. Forse, la parola sacro mi piace di più. In bilico con le spalle alla montagna e il volto esposto al vento che sale dalle gole montane, penso a Delfi, al respiro sotterraneo che emerge dal profondo. Penso alle incisioni rupestri che nella Valle delle Meraviglie, sulle Alpi Marittime, omaggiano il Monte Bego da tempi immemorabili. Penso alla danza dei dervisci, un palmo rivolto al cielo e uno alla terra. Anche Sagalassos in mezzo alle montagne potrebbe roteare così, selvaggia e primordiale.

Alessandro Magno e gli imperatori romani adornarono di merletti di marmo queste solitudini. Quando ripetute serie di terremoti ne ebbero ragione, nel VII secolo della nostra era, semplicemente la città fu abbandonata, senza rimpianti forse, lasciando indietro i complicati intrecci e i sapienti lavori di trapano e scalpello. Mentre altrove le città crescono una sull’altra, o servono da cava per gli insediamenti futuri, in Pisidia sotto la cupa vegetazione le colonne, gli architravi, i fregi scolpiti giacciono come castelli di carte atterrati per scherzo dal soffio di un bambino, che attendono solo, con altrettanta grazia, di essere risvegliati per nuovi giochi.

Ninfeo di SagalassosNinfeo di Sagalassos


La seconda volta era nel luglio 2014

4_Wladimiro Settimelli, “Garibaldi. L’album fotografico”

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GaribaldiAll’indomani della caduta della Repubblica romana, nel luglio 1849, un fotografo percorre con la sua apparecchiatura le strade deserte della città, per documentare i luoghi dove più aspri si sono svolti i combattimenti: l’obiettivo si sofferma sulle barricate, sui tetti sventrati, sui muri crivellati di proiettili. La fotografia è nata da appena 10 anni, ma già tutte le sue dirompenti potenzialità sono ben evidenti, sia a chi ne fa uso, sia al potere.

La nuova tecnica ha tutte le caratteristiche per essere democratica e sovversiva, potenzialmente rivoluzionaria: finalmente, trattenere un ricordo visivo non è più appannaggio di chi può permettersi di pagare un pittore. Farsi eseguire un ritratto diviene un’operazione alla portata se non di tutti, sicuramente di buona parte della popolazione. Ma soprattutto chiunque, armato semplicemente di carta salata, di una camera oscura e di sali d’argento può scendere in strada e fermare per sempre frammenti di realtà così come essa è, senza il filtro propagandistico o agiografico dell’incisione e della stampa. E forse ancor peggio, il confine fra realtà e finzione è messo in serio pericolo dal fotografo che in studio, con l’uso sapiente dell’aerografo e del taglierino, può dare una sicura parvenza di realtà alla finzione, come si vedrà nel 1862, quando scoppia a Roma lo scandalo dei fotomontaggi infamanti che hanno per protagonista Maria Sofia di Baviera, ex Regina delle due Sicilie.

Comprende bene tutti i rischi della fotografia Napoleone III, che nel 1859 vieta alle macchine fotografiche l’accesso al campo di battaglia di Solferino, dove si è svolto un massacro destinato a sollevare l’indignazione di tutta Europa; li comprende bene il governo papale che nel 1861 subordina la detenzione di apparecchiature fotografiche, sia per diletto personale che per professione, al controllo delle autorità di polizia. Li comprende bene anche Giuseppe Garibaldi: ma con spirito visionario egli ne mette a fuoco soprattutto gli straordinari vantaggi.

Il volume esamina il ruolo della fotografia nel Risorgimento italiano, soffermandosi in particolare proprio sull’uso che di questo mezzo espressivo seppe fare uno dei maggiori protagonisti di quella controversa stagione che portò alla liberazione della penisola dai poteri europei e alla formazione del Regno d’Italia. Valutata da questo punto di vista, la figura di Garibaldi acquista una sconcertante modernità.

Davanti all’obiettivo, si può scegliere di apparire naturali, incuranti della macchina, oppure di affrontarla e sostenerne lo sguardo: fin dai primi ritratti fotografici noti, risalenti agli anni ’50 dell’Ottocento, Garibaldi ha fatto la sua scelta. Si mette sempre in posa accuratamente, preferisce mostrarsi in piedi, eretto e in atteggiamento fiero, sceglie l’abbigliamento e gli accessori, ma soprattutto guarda sempre diritto in camera, consapevole che il suo sguardo si poserà su tutti coloro che osserveranno la sua immagine. Sembra essere estremamente consapevole del fatto che quelle immagini andranno oltre la sua stessa vita, saranno uno degli ingredienti essenziali della creazione del “personaggio” Garibaldi e della mitopoiesi delle sue imprese: per questo seleziona i fotografi da cui farsi ritrarre, autografa con cura maniacale le fotografie che dona generosamente in tutta Italia, patrocina la creazione di un album che conservi il ricordo  dei volti di tutti i Mille.

Il vestiario congiuseppe_garibaldi_1866 cui si fa fotografare, lo stesso con cui si presenta alle sedute parlamentari, diviene la sintassi di una politica dell’immagine consapevole e mai gratuita. La camicia rossa, il fazzoletto annodato al collo, il berretto cilindrico coi ricami, il poncho a righe gettato sulle spalle, il bastone su cui si appoggia dopo la ferita in Aspromonte: nessuno allora, eccetto Garibaldi, poteva vestire così ed essere considerato una persona rispettabile. Noi che viviamo nell’epoca del casual, difficilmente comprendiamo la carica sovversiva di questo stile, che ricorda al popolo le avventure sudamericane e le tante lotte sostenute e insieme sputa in faccia all’establishment un chiaro “non sono come voi!”.

Dalle fotografie di Garibaldi saranno tratte innumerevoli stampe, incisioni, cartoline: la sua immagine viene consegnata all’idolatria popolare, perdendo mano a mano concretezza e scivolando nella retorica e talvolta nel grottesco, fino all’identificazione con Gesù Cristo. Il burattinaio di se stesso sembra restare vittima del potere dell’immagine.

O forse aveva previsto anche questo?

3_Lorenzo Scaramella, “Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici”

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scaramellaSi fa presto a parlare di lastre al collodio, stampe all’albumina e calotipi: ma che cosa sono e come si riconoscono? Il libro di L. Scaramella, fotografo e specialista delle antiche tecniche fotografiche, esamina in modo analitico le diverse tecniche che si sono succedute dalla nascita ufficiale della fotografia (1839) fino ad oggi per la produzione di negativi e di positivi. Un libro certamente molto tecnico e destinato a un pubblico settoriale, ma che si legge con piacere e regala spunti di riflessione interessanti sulla storia del mezzo fotografico e l’evoluzione della cultura visiva.

Dal punto di vista tecnico, la storia della fotografia si può suddividere in tre ere principali, in ciascuna delle quali c’è una predominanza di uno o due procedimenti particolari. Il libro, essendo del 1998, si arresta alle soglie del digitale (se ben ricordo allora le foto digitali a risoluzione piena erano grandi quanto un francobollo e se le avevi non sapevi proprio che farne): adesso siamo di fatto nella quarta era.

Dal 1839 alla fine degli anni ’60 dell’Ottocento coesistono i due procedimenti più antichi, estremamente differenti concettualmente e per aspetto finale. Il dagherrotipo veniva realizzato sensibilizzando una lastra di rame argentato, che viene posta nell’apparecchio dagherrotipico: l’immagine si forma direttamente sulla lastra e viene successivamente stabilizzata. Si tratta di un positivo diretto, unico: dal dagherrotipo non si possono infatti ottenere altre stampe della medesima immagine. La sua unicità e la sua delicatezza (esposto all’aria tende inevitabilmente a ossidare, e deve dunque essere protetto da una apposita custodia) ne fanno un oggetto di lusso. Il calotipo è invece un negativo su carta cerata, da cui si possono tirare innumerevoli positivi, che in questa fase vengono realizzati su carta salata, ovvero su di un semplice foglio di carta di buona qualità su cui viene spalmata (successivamente l’operazione si compie per galleggiamento) prima una soluzione di acqua e sale, e dopo una soluzione contenente nitrato d’argento).

Questi antichi procedimenti possiedono ciascuno un fascino particolare. Il dagherrotipo è davvero un oggetto magico: l’immagine con tutti i suoi dettagli è di una nitidezza sorprendente, che la fa apparire viva; questo effetto è aumentato anche dal fatto che, muovendolo, l’immagine appare successivamente positiva e negativa, e sembra danzare. Poiché l’immagine si trova su una superficie riflettente, guardandola essa si arricchisce dei riverberi dello spazio che si trova attorno all’osservatore, acquisendo la sua profondità e i suoi colori, e l’osservatore stesso entra a far parte dell’immagine attraverso il suo riflesso. L’osservazione di un dagherrotipo è un’esperienza temporale del tutto particolare. Le carte salate, invece hanno in genere un aspetto opaco, ma il loro fascino risiede nel fatto che l’immagine si forma nelle fibre stesse della carta, acquisendo una piacevole morbidezza di piani e di toni. Un aspetto molto interessante, che Scaramella mette più volte in evidenza, è che i precursori della sperimentazione fotografica avevano per obiettivo la realizzazione di immagini direttamente positive della realtà: il concetto di negativo/positivo, a cui noi siamo ormai abituati e che diamo per scontato (ma lo sarà ancora fra qualche decennio? – la fotografia digitale non lo contempla, e i nativi digitali non conoscono il brivido di incertezza che si prova ad “andare a sviluppare un rullino”), era allora sentito come una limitazione nella capacità della fotografia di porsi come “pencil of nature”.Memnon

Queste tecniche vengono soppiantate a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento dalla rivoluzione del negativo su vetro al collodio (umido o secco) e dalla stampa all’albumina, che costituiscono il binomio per eccellenza fino a circa il 1880. L’evoluzione tecnica consente di ridurre drasticamente i tempi di esposizione: la fotografia si avvia ad essere praticabile davvero ovunque e in qualunque situazione. In questo momento, le vedute di città e paesaggi si animano improvvisamente: nel periodo precedente infatti i lunghi tempi di ripresa non consentivano di fermare l’immagine delle persone in movimento, ragion per cui le città di metà Ottocento sembrano invariabilmente deserte e sospese in un tempo in cui gli esseri umani non esistono più o non sono mai esistiti.

Intorno al 1870-1880 viene introdotto il procedimento alla gelatina sali d’argento che, pur con evoluzioni, miglioramenti e modifiche rimane sostanzialmente quello principale fino all’avvento del digitale: con esso termina l’era della “protofotografia” e inizia quella dell’industria fotografica. Avviene un salto epocale su cui è interessante riflettere: fino a quel momento, in genere ciascun fotografo preparava autonomamente i materiali di ripresa e di stampa (per quanto le carte albuminate fossero disponibili anche in commercio). Era un’epoca di sperimentazione e di fantasia: si diffondevano manuali e riviste che spiegavano i materiali e le tecniche, ma poi ciascuno faceva miscugli e prove per ottenere effetti adatti al gusto personale, aveva i suoi zibaldoni e i suoi ricettari. Da questa sperimentazione nascevano in continuazione procedimenti alternativi a quelli più diffusi, destinati magari a vivere solo una breve stagione, per non parlare delle contraffazioni e delle imitazioni. Non desti stupore trovare fra i fotografi della prima ora tanti medici e farmacisti, gente abituata a mescolare polverine e a produrre pozioni. L’industria fotografica spazza via alla fine dell’Ottocento tutto questo, al grido voi premete il bottone, noi facciamo il resto! (era lo slogan pubblicitario della Kodak nel 1888): certo, la fotografia diventa davvero alla portata di tutti. Il Romanticismo però si arresta alle soglie del Novecento.

2_Frederick N. Boher, “Photography and Archaeology”

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boherDa quando ho memoria avverto il profondo richiamo del passato, in tutte le sue forme: è una malia da cui è assai difficile guarire, come sanno tutti quelli che la inseguono fino a farne una professione, come gli storici e gli archeologi; un filtro che pervade il presente e il modo di percepire la realtà.

Le fotografie storiche sono una delle sirene al cui canto l’ammaliato non si può resistere. Quella carta ingiallita dal passare del tempo, le macchie che denunciano le vicende che hanno passato e i luoghi che hanno attraversato, gli sguardi delle persone fissati in un attimo ormai trascorso, che ci osservano da profondità incommensurabili. Nei mercatini dell’usato e dell’antiquariato capita di trovarne: chi è specializzato in questo genere le propone spesso ordinate in raccoglitori, suddivise per tematiche o per epoche, così depotenziate e quasi innocue. Più spesso accade di vederne gettate alla rinfusa in qualche vecchia valigetta, in mezzo a flaconi da farmacia in vetro e a rocchetti di filo da cucito, testimoni muti di vite ormai senza nomi, senza legami, prossime a dissolversi. Non ne ho mai acquistate: mi affascinano, ma anche mi inquietano. No, non vorrei portare con me, nella mia casa, questo fardello di vite trascorse.

Il volume di F.N. Boher, elegante e curatissimo, ricco di strepitose illustrazioni, tratta un aspetto particolare della storia della fotografia: il suo rapporto con l’archeologia. Un connubio indissolubile  che si stabilisce fin dal primo apparire della nuova tecnica: sia J.-L. Daguerre, inventore del dagherrotipo, sia W.F. Talbot, inventore della tecnica a sviluppo e del negativo in carta, percepiscono immediatamente l’importanza della fotografia non solo per la riproduzione di monumenti, oggetti d’arte e iscrizioni, e per la conservazione dei dati relativi al loro aspetto, ma anche per il modo di avvicinarsi ad essi e di studiarli. Boher analizza questo rapporto in quattro diversi capitoli che trattano la fotografia archeologica dalle origini a oggi come documentazione della realtà (cap. 1), come pratica nel concreto della campagna archeologica e del viaggio di esplorazione (cap. 2), come oggetto di archivio (cap. 3) e infine come base per lo studio scientifico (cap. 4).

Siamo nel 1839. Pochi mesi dopo l’annuncio della nascita della fotografia, i cinque continenti pullulano già di fotografi che applicano la nuova tecnica per documentare la realtà come essa è: questa è la promessa della fotografia, come annuncia già nel 1844 il titolo del volume di W.F. Talbot, The Pencil of Nature. L’immagine si crea sul supporto sensibile senza l’intervento mistificatore dell’uomo, la natura ritrae se stessa. Questa ingenua convinzione degli albori verrà presto smascherata: se l’uomo non produce fisicamente l’immagine, opera tuttavia una serie di scelte (soggetto, inquadrature, esposizione, per non parlare delle elaborazioni successive, in fase di stampa) che imprimono all’immagine la propria volontà e creano un documento che è altro dalla realtà che rappresenta.

La nascita della tecnica fotografica e i rapidi sviluppi che determinano nel volgere di pochi anni la riduzione dei tempi di posa, la possibilità di preparare precedentemente i supporti, la riduzione dell’ingombro degli strumenti di ripresa consentono di documentare in tempi in precedenza inimmaginabili architetture, scavi, sculture e reperti in ogni parte del globo. Nelle campagne di esplorazione il disegnatore viene sostituito – non immediatamente ma inesorabilmente – dal fotografo. La prima campagna di esplorazione archeologica a fare uso di apparecchiature fotografiche è la spedizione prussiana in Egitto condotta da Karl Richard Lepsius nel 1842-1843: sono passati appena tre anni dalla data di nascita ufficiale della fotografia.

La fotografia sostanzia il soggetto di una verità che il disegno e l’incisione, con la loro dimensione necessariamente mediata e quindi metafisica, concettuale o agiografica, non poteva avere. Ma forse ancor più che nella documentazione, la vera rivoluzione portata dalla fotografia in campo archeologico è, come mette in evidenza Boher, nell’archiviazione e nello studio. L’immagine fotografica consente di avvicinare oggetti lontani nello spazio, di confrontarli, di porli in serie, di praticare montaggi di parti separate dalle vicissitudini storiche o non più esistenti ed è in quanto tale elemento essenziale della metodologia archeologica.

La fotografia archeologica nasce, per così dire, già saggia, con criteri e regole che, una volta fissati, resteranno immutabili e che chiunque abbia partecipato ad uno scavo archeologico ben conosce: li individua chiaramente già W.M. Petrie nel suo Methods and Aims in Archaeology del 1904. StillmanInquadrature frontali o laterali, che descrivano il soggetto nelle sue diverse componenti e nelle sue articolazioni; minimizzazione delle ombre; assenza degli esseri umani e delle loro tracce; inserimento di un termine di confronto dimensionale; uso preferenziale del bianco e nero (a lungo contrapposto al colore, riservato alle riviste e alle pubblicazioni non di carattere scientifico)… E così via. Ma queste poche e inflessibili regole non rendono conto  dell’alchimia di queste visioni oniriche sospese in un tempo indefinito. Una delle loro cifre, l’assenza dell’uomo, ne rende impossibile, spesso, decifrare l’enigma della datazione.

Allora nuove e rivoluzionarie, allora prodigio della tecnica: neppure un secolo fa. Il passare del tempo ha trasformato queste fotografie stesse in “reperti” provocando un loro graduale, insensibile ma ormai avvenuto slittamento indietro, nel passato. Vestigia anch’esse di modi di vivere, di vedere, di approcciarsi alla realtà ormai desueti e inafferrabili. Il cielo color crema della stampa all’albumina al di sopra dell’Eretteo è lontano e muto quasi quanto il cielo di Pericle.

Un nuovo inizio

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In due anni ho fotografato i fiori del Thelocactus exaedrophorusin tutti i modi, eppure non riesco proprio a stancarmene. Pochi dei miei fiori mi piacciono così tanto. Mi piacciono i primi fiori della stagione, come questo che fiorisce adesso, ancora indecisi e fragili con i loro petali spiegazzati di sonno, venati di rosa, sottili e trasparenti come ali di libellula. Mi piacciono i fiori che si aprono più avanti nell’estate, gloriosi e splendenti di riflessi metallici. Mi piacciono i fiori che preannunciano l’autunno, più pacati e distratti.

Eppure ogni anno qualcosa è diverso: il primo fiore del Thelocactus mi dice che un nuovo ciclo inizia, ma che cosa ci sia in serbo ancora non è dato saperlo, quale sfumatura avrà il prossimo fiore?
Thelocactus exaedrophorus Thelocactus exaedrophorus Thelocactus exaedrophorus Thelocactus exaedrophorus

L’Echinopsis chamacereus e la messa a fuoco del rosso

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L’Echinopsis chamacereus è una pianta decisamente solida e resistente: quando è arrivata qua nel 12 mq era solo una talea di belle speranze, ma nel giro di due anni è ormai diventata una delle decane del balcone, continuando a proliferare con nuovi fusti che spuntano sia dal terreno che dai fusti già esistenti. Se ne è altamente fregata della pioggia, non ha dato alcun segno di sofferenza per la molta e imprevista umidità di questo inverno, e adesso ha iniziato a fiorire. L’unico accorgimento che mi sono accorto di doverle usare p di non esporla ai raggi troppo diretti del sole: è una pianta che preferisce posizioni sì soleggiate ma riparate nelle ore più calde della giornata. Eppure, mi sono accorto di non aver mai premiato abbastanza la sua fedeltà nel corso di questi anni: non le dedico mai molte foto. Solo ora credo di aver capito il perché: in realtà io le foto le faccio, ma il colore dei petali di questo fiore manda in tilt la macchina fotografica, e le foto vengono sempre un pochino fuori fuoco, o completamente fuori fuoco. Non ho una spiegazione scientifica per questo fenomeno, posso solo prenderne atto… Peccato, perché sono fiori comunque molto belli, per quanto non spettacolari come le altre Echinopsis che possiedo!
Echinopsis chamacereus Echinopsis chamacereus Echinopsis chamacereus

Solo per un giorno

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I fiori delle Echinopsis sono decisamente fra i miei preferiti, per le loro grandi corolle delicate e dal profumo intenso. Questa magia dura a stento il tempo di una giornata: dalla mattina alla sera, o dalla sera alla mattina a seconda della specie, la stella dei petali si distende e appassisce. Eppure, il prodigio si prepara nel corso di lunghe settimane, durante le quali il boccio prima spunta, poi si allunga progressivamente e con grande lentezza, per poi ingrossarsi poco a poco, e infine fremere ed aprirsi di colpo. Quanto lavoro, quanta attesa e quanta preparazione, per godere del sole e del vento appena poche ore, che sono evidentemente sufficienti, nell’economia della natura, perché la pianta compia la propria missione biologica.

Quando il tempo che possiedo mi sembra poco per tutto ciò che vorrei fare e non riesco a fare, per i progetti che non riesco mai a portare a termine, per gli argomenti da studiare, per i libri da leggere, per le persone da incontrare, penso a tutta questa effimera perfezione che dura solo per un giorno, e mi sembrano vane, almeno per un po’, tutte le preoccupazioni.
Echinopsis Echinopsis Echinopsis Echinopsis Echinopsis Echinopsis