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Vasco Pratolini, “Lo scialo”

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Vasco Pratolini - Lo scialoNon c’è la freschezza rumorosa della vita di quartiere, le storie di amicizia e amore o la dolce amara vendetta de Le ragazze di San Frediano nelle pagine de Lo scialo di Vasco Pratolini, la seconda parte dell’affresco storico dal titolo Una storia italiana, che prende avvio alla fine dell’Ottocento con Metello  e si conclude al termine della Seconda guerra mondiale con Allegoria e derisione.

In una Firenze su cui si allungano le ombre del trionfante Fascismo, cupa e quasi priva di scampo, il romanzo intreccia le vite di personaggi di diversa estrazione sociale, contadini, politici, villani arricchiti, nobili decaduti, bottegai e artigiani. In questo ampio racconto corale, che abbraccia due decenni, filo conduttore sono le vicende di Nella e Ninì, e delle rispettive famiglie.

Due donne profondamente diverse per storia e inclinazioni, ma entrambe percorse da un tormento interiore serpeggiante e implacabile, che si acuisce dolorosamente con la progressiva presa di coscienza del passare del tempo, delle occasioni irrimediabilmente perdute, della mediocrità dell’ambiente piccolo e medio borghese di cui fanno parte, e che le conduce là, nel gorgo. Esse vedono l’abisso verso cui si dirigono, ma non vi si sottraggono, in un estremo tentativo di rivolta al destino che altri – la famiglia, la società, l’educazione – hanno scelto per loro.

“La vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele.” 

Pratolini inanella questi triti, li incatena gli uni agli altri, in una prospettiva a spirale che tende all’infinito e in cui manca la luce dell’avvenire, o il bagliore dell’ideale: l’amore tragico di Ninì per la giovane contadina Maria, che finisce per inabissarle entrambe, e quello incondizionato di Adamo per la stessa Ninì, che non verrà da lei mai corrisposto nonostante il matrimonio, la vita familiare apparentemente irreprensibile di Nella (ma quel neo che cresce sulla guancia del marito Giovanni, con gli anni, e che sì, si rivela infine quel che è in realtà, un’orribile verruca!), e il fuoco che la travolge nell’incontro con Folco, subito spento dalla fatalità di una morte enigmatica, la miserabile tresca di Giovanni con Erina, che si conclude in una grottesca beffa: ogni cosa, anche l’amore, anzi sopratutto l’amore, si incenerisce nelle mani dei personaggi, o per lenta e inesorabile consunzione, o per troppo improvviso deflagrare.

I destini singoli fluttuano legati al ritmo minaccioso del respiro della Storia, che sullo sfondo compie la sua lenta parabola: la Prima guerra mondiale, la Marcia su Roma, l’impresa di Fiume, l’omicidio di Spartaco Lavagnini, le retate degli squadroni e le purghe ai dissidenti…

È possibile essere felici mentre accade tutto questo? Pratolini conduce i suoi personaggi ognuno nel proprio inevitabile gorgo, dando con decisione una risposta. E oggi, è possibile essere felici mentre accade tutto questo?

La cupola, la città. Quando tutto sembra in bilico

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Santa Maria del FioreSolo la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore è alta come un palazzo di sei piani, ardita come tutta l’incredibile creazione di Brunelleschi, “erta sopra e’cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani”. La guardo contro luce, volute e rosoni di marmo un po’ scomposti, il sole che filtra ancora, pur guizzando da dietro le colline, attraverso le vetrate porpora e oltremare. Mi volto ancora verso il parapetto: la città è distesa là sotto, la città amata, le strade conosciute, i palazzi con i loro inconfondibili lineamenti, i giardini e le corti nascoste che solo da questa altezza si svelano.

Ma tutto sembra in bilico.

Guardo accanto a me i profili delle mie amiche. Ci attardiamo nel freddo, al tramonto, senza parlare ormai, dopo aver giocato a lungo a indovinare l’identità degli edifici che si distendono sotto di noi, per un inespresso desiderio comune di fermare questo momento. Il gioco ci ha consentito di non parlare di quello che proviamo davvero oggi, ma insieme scava già come un solco di nostalgia.

Un tramonto che ci appare carico di significato. I capelli biondi dell’una e i ricci indomabili dell’altra. Occhi chiari entrambe ma così profondamente diversi: dolci e pacati gli uni, guizzanti di energia gli altri. Siamo diventate amiche abbastanza da adulte da serbare nei nostri rapporti, per quanto quotidiani e intensi, un velo di riserbo che ci impedisce di superare un segno, di sciogliere l’emozione nel gesto.La lanterna di Santa Maria del Fiore

Ancor più che all’interno della cattedrale, quando le scalette claustrofobiche si sono improvvisamente aperte in alto sulla vista della cupola affrescata dal Vasari con la sua immaginifica teoria di demoni infernali, e sul geometrico ordito bianco e nero del pavimento giù in basso, le proporzioni fra le cose sembrano prive di senso. Le persone, giù indicibilmente lontane, si fondono nell’indistinto. Sembra che la città esista indipendentemente da loro e, ovviamente, anche da noi, anche se le nostre mani posate sul ferro freddo della ringhiera sono più concrete delle ombre che tracciano percorsi sui marciapiedi, in basso.

Oggi, anche se siamo qua travestite da turiste, combattiamo sordamente. Una battaglia inutile, ne sono certa, ma che restituisce un po’ di senso alla fatica, allo scoraggiamento, all’impotenza, alla rabbia e alla frustrazione così spesso provati negli ultimi due anni. Evidentemente, c’è qualcosa per cui vale la pena resistere. Quando le proporzioni si perdono, e quando ciò che sembra certo vacilla, è più facile scoprirlo.

Un sollievo si diffonde. La mia passione, che credevo morta, respira ancora. Aggiorniamo continuamente la pagina internet. Piano piano, la petizione raccoglie firme mentre l’ombra della cupola si allunga ancora come un immenso gnomone, divora angoli di strade, si affievolisce infine e scompare. Tramonto su Firenze

Storia di un sognatore, Frederick Stibbert

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Frederick Stibbert in armatura per il corteo storico del DuomoC’è una fotografia, un’albumina forse a giudicare dai toni cromatici, che mostra Frederick Stibbert con indosso l’armatura “inglese del 1370” con cui partecipò al solenne corteo per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1887.

È in piedi, leggermente di tre quarti, accanto al cavallo riccamente bardato, e ne tiene con la mano sinistra il morso. Dietro di loro, un grande portale aperto che li inquadra come una quinta teatrale. Forse la ripresa è stata fatta nel giardino della Villa di Montughi, perché di lato si intravedono arbusti e foglie. Quello stesso giardino in cui oggi, dopo la pioggia, perle di cielo rotolano sulle grandi foglie di Stelizia. A terra, è posato l’elmo dall’inconfondibile cimiero – un angelo che si stringe le braccia al corpo – che Stibbert aveva fatto realizzare per l’occasione.
AcquaAllora, non aveva ancora cinquant’anni, se la fotografia non è stata ripresa a posteriori, eppure sembra un uomo molto più anziano. Volge con naturale sicurezza il volto verso la macchina fotografica, piegandolo appena sulla spalla sinistra. Socchiude gli occhi, come a schermarli dalla luce o a soppesare chi ha di fronte, ma guarda fisso in camera, senza sorridere.

Non si sorrideva in verità, nel 1887, guardando un obiettivo.

Immagino che la maggior parte delle persone si sentisse allora piuttosto imbarazzata a mettersi in posa davanti a un apparecchio fotografico, e infatti spesso hanno sguardi tesi, opachi, o forzati. Forse si sentono in qualche modo giudicati, o messi alla prova. Forse tentano semplicemente, in uno sforzo disperato, di tenere gli occhi bene aperti, di non sbattere le palpebre, vanificando così la seduta di posa, per il tempo necessario a imprimere l’immagine sulla lastra di vetro.

Non Frederick Stibbert. Lui guarda fisso in camera, senza esitazione e senza tentennamenti. Soppesa noi, che lo guardiamo a distanza di più di un secolo dalla sua morte. Non dimentichiamo che era un uomo di mondo.

Lo chiamano sognatore. Lo chiamano eccentrico. Un riccone eccentrico con la morbosa fissazione per le armature antiche, per le chincaglierie esotiche, per spade e fucili.

Ma chi era davvero? Quello sguardo penetrante si fa beffe delle etichette che gli vengono attribuite.Cavalcata dettGuerrieri giapponesiCavalcata dett 2Frederick Stibbert eredita giovanissimo, alla morte precoce del padre, una enorme fortuna. Studiare non gli piace. O almeno non gli piace seguire i percorsi consueti. I suoi tutori pensano che presto dilapiderà il suo patrimonio. E in effetti, il giovane spende. Spende per acquistare oggetti meravigliosi in giro per il mondo. Eppure le fosche profezie non si avverano. Frederick Stibbert non è un avventato.

Pian piano prende forma l’idea di una creazione personale grandiosa, a cui dedica tutta la vita, senza diaframmi: la sua casa è il museo, il museo è la sua casa. La Villa di Montughi viene accresciuta, ristrutturata, adeguata alle proporzioni di una collezione che si arricchisce per decenni. Nuove passioni sbocciano con il tempo, e Stibbert le coltiva tutte, le asseconda tutte. I mezzi non gli mancano. Le sale si susseguono, non fredde sfilate di oggetti, ma ambientazioni, atmosfere, come frammenti di vita un tempo vissuta, congelata in un istante che mai sfiorisce.

Il progetto prende la sua forma definitiva alla sua morte, l’atto finale che suggella scelte consapevolmente perseguite. Stibbert lascia la sua casa, la sua collezione, il “suo museo”, come amava definirlo, con i suoi 56000 oggetti, oltre a un patrimonio in denaro di 800 lire, corrispondente oggi a qualcosa come 2 milioni di euro, alla Gran Bretagna, paese di origine del padre, con la possibilità di recesso a favore della città di Firenze, che ne entra in possesso nel 1908. A quale condizione? Che il “suo museo” sia aperto al pubblico, e resti per sempre così come lui l’ha ordinato.
Soffitto StibbertUn sognatore, sì. Un visionario, forse. Ma non chiamiamolo eccentrico. La sua visione era guidata da una volontà ferma, dalla traiettoria pulita e ineluttabile come una freccia scagliata contro un bersaglio. Questo dicono i suoi occhi a chi lo guarda dietro l’obiettivo.

Frederick Stibbert è uno che ha vissuto proprio come ha voluto. Onore a lui. Ha voluto lasciare una traccia duratura del suo passaggio su questa terra, e quella volontà ferma agisce ancora oggi.

Non è incredibile, essere capaci di proiettare così se stessi oltre il più grande degli ostacoli?
Giardino

14_Aldo Palazzeschi, “Sorelle Materassi”

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Sorelle MaterassiSanta Maria a Coverciano, 1918.

Firenze è lontana, non lambisce ancora con la sua espansione edilizia il paese sonnolento ai piedi di Settignano, fra l’Affrico e il Mensola. Nel loro appartatissimo nido, Teresa e Caterina Materassi conducono un’esistenza monotona fatta di ferrea disciplina e duro lavoro. Cucitrici in bianco e ricamatrici, le due sorelle sono riuscite a riscattare gli sperperi e le dissolutezza del padre, e a conquistare un posto rispettabile nella società: davanti al loro cancello stazionano ad ogni ora del giorno le auto delle signore del bel mondo, contesse marchese ereditiere, che si contendono le meraviglie di seta e taffettà che escono dalle loro mani.

Il prezzo da pagare è tuttavia la vita stessa, che hanno completamente sacrificato alla missione che si sono prefisse. Nel loro laboratorio esse sono altere regine, ma del mondo reale sono completamente estranee, cullate dalle loro ridicole ma commoventi fantasie di esperienze non vissute, di incontri mai avvenuti, di uomini inesistenti che non le hanno amate.

Il tranquillo scorrere della loro esistenza sempre uguale, cadenzata dal rumore del telaio, è interrotto soltanto in occasioni precise e strettamente codificate: la domenica pomeriggio, quando osservano il riposo per mezza giornata, che passano ad addobbarsi riesumando da vecchi armadi e cassettoni vestiti delle nonne e lustrini ormai irrimediabilmente fuori moda, la vendemmia, quando sono di malavoglia costrette a presiedere al rito collettivo del taglio dell’uva nel loro terreno, e per la festa di San Francesco a Fiesole.

La morte improvvisa della sorella Augusta, trasferitasi da giovane con il marito ad Ancora, dove conduce ora una squallida esistenza di vedova, fa piombare come un fulmine nella loro vita il nipote quattordicenne, Remo.

Fin dal primo ingresso di Remo nella storia, una sottile inquietudine si distende nell’incolore vita agreste sin a quel momento descritta nel romanzo.

Il ragazzo compare in piedi in mezzo alla camera della madre morente. Non piange. Non piangerà mai. Osserva. Spettatore impassibile in attesa di iniziare ad agire nel percorso della vita. Basta questo per indurre nel lettore un senso di pericolo imminente che non lo abbandonerà più.

Le zie pure fiutano il pericolo, ma il bellissimo giovinetto che porta la luce e la pienezza della vita nella loro casa le strega, le ammalia, le riduce in catene, succubi alla sua volontà. Irradia un fascino a cui quasi nessuno può sottrarsi: la vecchia Niobe, serva delle zie, è una delle prime vittime, ma ne seguono schiere innumerevoli, uomini e donne sembrano gareggiare per conquistare la sua amicizia, la sua considerazione, il suo amore. Ma amore Remo non ne prova, procede semplicemente e ineluttabilmente nel cammino che ha scelto: la vita è semplice è il suo motto, apparentemente innocuo, e senz’altro il denaro delle zie gli apre possibilità che, povero orfano, non aveva neppure immaginato.Remo

Quell’inquietudine, quel senso di pericolo imminente che Palazzeschi insinua nel lettore all’apparire di Remo piano piano si accresce, gonfia, dilaga: perché crescendo, il giovane alza sempre più la mira, le sue marachelle adolescenziali diventano presto veri peccati, bramosia di denaro, raggiri, mefistofeliche macchinazioni.

Remo, dietro la bella fronte, i capelli ondulati, la bocca perfetta in cui splendono i denti bianchi come un lampo di luce paradisiaca, è un demonio privo di sentimenti, di rimorso, di pudore. Le zie, le trascina nella rovina: i suoi piccoli debiti diventano progressivamente salati conti da pagare, spese che infine divengono insostenibili, in un crescendo teso e inesorabile. Quando i soldi non bastano più, le case e le terre vanno ipotecate.

Sola voce contraria, Giselda, la quarta sorella: Remo non la incanterà mai, lei che un matrimonio sbagliato ha gettato in una prigione di odio e risentimento verso tutti ma soprattutto verso i maschi. Remo non la incanta, ma sa volgere a proprio favore anche la sua ostilità, perché Teresa e Carolina in odio alla sorella sembrano impuntarsi a fare tutto il contrario di quello che consiglia.

Eppure, anche nel momento della rovina finale, non smettono di amarlo mai, nonostante tutto il male che sa procurare loro con un’indifferenza assoluta per i loro sentimenti. Venite a vedere le mie scimmie ammaestrate dice agli amici quando li invita a Coverciano a casa delle zie.

Bellissimo, non è una lettura indolore, Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi. Tutta l’amara ironia che può riservare la vita si rivela dietro il paravento di una scrittura piana, oggettuale, senza inutili voli, dietro una vicenda apparentemente banale nella Firenze di inizio Novecento. Ti avvinghia alle pagine, ti costringe a divorarle una dopo l’altra, in attesa dell’inevitabile crollo, che già si scorge all’orizzonte dopo il secondo capitolo, ma quando? Dopo quante umiliazioni, dopo quale altro durissimo colpo?SORELLE MATERASSI

Informazioni, nebbia, le vite degli altri

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Quando sono in cammino, a volte mi diverte fermarmi a chiedere informazioni inutili così, tanto per incrociare lo sguardo e la voce di qualcuno, per sollecitare un contatto, per aprire uno squarcio nel mistero di una vita sconosciuta.

Quelle vite degli altri che immagino nell’occhio caldo delle finestre illuminate, da incerti frammenti sconnessi: condensa, ombre, pareti colorate, vecchi incongrui lampadari e sommità di librerie. Finestra lungo la via Vecchia Fiesolana

Vorrei incontrare di nuovo quell’anziano signore a cui oggi ho chiesto, in piazza Mino a Fiesole, se dalla via Vecchia Fiesolana sarei potuta tornare a Firenze. Una trovata di una stupidità sconcertante, con cui l’ho costretto a sollevare il suo sguardo azzurro dalle mani incrociate in grembo e a guardarmi, ferendosi con i raggi bassi ma diretti del sole di dicembre. Mani nodose come quelle di mio nonno, mani antiche, mani di orti e vanga. Una casacca verde militare e, sotto, un maglione ruvido da cui sbucava un’improvvida maglietta di Topolino, capelli candidi e quello sguardo enorme e brillante, indimenticabile.

Raramente il segnale lanciato dalla domanda ingannevole si disperde invano: è assai più frequente che anche l’altro desideri in realtà quel contatto, e colga con un guizzo di empatia la realtà così malamente celata.

Si sposta impercettibilmente in modo da entrare nella mia ombra e ripararsi così dal sole, e il suo sguardo ora divertito accompagna una lunga e articolata spiegazione del percorso, altrettanto inutile quanto la domanda che l’ha sollecitata: perché basta davvero imboccarla, quella strada, e lasciarsi andare giù per la discesa a tornanti, superare Villa Medici e una per una le tante ville che fanno da corolla all’antica strada che univa le due città sorelle, per arrivare a San Domenico e da lì a Firenze, discendendo lungo via Boccaccio.

Ma non è forse bello indugiare a scambiarsi futili informazioni in questa giornata di sole, così in alto sopra il mare di nebbia che copre la vallata?

Vorrei incontrarlo di nuovo per dirgli che aveva ragione, che davvero dopo Villa Medici, dopo quel tornante, dove si dipartono due strade che poco più sotto si uniscono nuovamente, ed è indifferente se prendere a destra o a sinistra, il paesaggio su Firenze è proprio bello. Anche se la città è nascosta dalla nebbia, si indovinano lo stesso i contorni del Campanile e di Santa Maria del Fiore, quelle coordinate così inconfondibili per tutti i viaggiatori che scoprono da lontano la città del giglio, anche così trasfigurata dal bagliore latteo che si sprigiona dal basso.

Una fila di cipressi, il muretto scaldato dai raggi del sole: assaporo in silenzio il piacere di chi, accanto a me, ha avuto la buona idea di portarsi un libro, mentre un sommesso brusio d’insetti sale dall’edera che riveste il muretto, prima di riprendere il cammino.Firenze sotto la nebbia 2

Firenze sotto la nebbia

Lucide nuvole rosa e il Tepidario del Roster

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Ieri l’altro, scendendo l’Appennino per arrivare a Firenze, il cuore mi batteva forte. Che puerilità! Finalmente, a una svolta, il mio sguardo si è tuffato nella pianura e ha scorto di lontano come una massa oscura, Santa Maria del fiore e la sua famosa cupola… Ho guardato sovente tante di quelle vedute di Firenze che la conoscevo già e ho potuto camminare senza guida…

Così Stendhal, nella descrizione dei suoi viaggi in Italia, sintetizza l’emozione condivisa da tanti viaggiatori al momento di incontrare finalmente, ad una svolta della strada, la vista di Firenze, città di sogno carica di promesse, adagiata dolcemente nel nido dei suoi colli all’ombra della cupola del Brunelleschi.

Il viaggio in calesse attraverso l’Appennino, provenendo da Bologna, era particolarmente gravoso: la strada era lunga, difficile e non priva di pericoli, ma la fatica era ampiamente ripagata da quel momento unico, magico, in cui la città si svela all’improvviso, avvolta in una bruma irreale o splendente dei riflessi del tramonto. Una visione che tanti viaggiatori, nel Settecento e nell’Ottocento, cullano a lungo, nei febbrili preparativi preliminari al Grand Tour e lasciando alle spalle, una dopo l’altra, le tappe intermedie; e poi quel batticuore, inevitabile, commovente, che Stendhal si rimprovera ma con una punta di tenera condiscendenza per se stesso, per il suo sognare svagato il cielo sopra Firenze.

Questa visione antica e insieme senza tempo, per chi viaggia oggi in treno o in aereo, è quasi irrimediabilmente perduta; per ritrovarne in parte la suggestione ho percorso tante volte, di notte, via Trento appena sopra al Giardino dell’Orticoltura. Siamo nella parte finale della via Bolognese, nel punto in cui il declivio termina e il ponte sul Mugnone segna uno degli ingressi in città.

Interminabili momenti invernali così, l’odore di vento, la bicicletta in mano, la strada deserta, il cielo scuro e la cupola di Santa Maria del Fiore, il cuore per un attimo acquietato.Tepidario del Roster

Poco sotto, il Tepidario disegnato da Giacomo Roster e inaugurato nel 1880 risplende come un’immensa, delicata lanterna dalle nervature di solido metallo, così sfacciatamente ottocentesco con le sue decorazioni in stile moresco, le nicchie neorinascimentali e una fiducia un po’ ingenua per il progresso che allora era forse impossibile non condividere.

Il modello cui Roster si ispirò, apportando tuttavia significative variazioni ornamentali e strutturali, era il celebre Chrystal Palace, che aveva ospitato a Londra, nel 1851, la prima Esposizione Universale e che finì in una nuvola di fiamme, fumo e fuliggine in una notte del 1936. Un doppio ballatoio sospeso in alto, a sei metri di altezza, consentiva un tempo di ammirare le piante curiose ed esotiche che erano conservate nel Tepidario.Tepidario nell'Ottocento

Dopo un lungo periodo di offuscamento e un’intensa campagna di restauri, oggi il Tepidario e il Giardino dell’Orticoltura sono tornati ad essere un riferimento nella geografia del verde fiorentino: una passeggiata, un momento per leggere un libro sotto le foglie… Due volte l’anno, ad aprile-maggio e il primo fine settimana di ottobre, il giardino ospita una preziosa mostra mercato di fiori e piante, al cui richiamo non è facile sfuggire…

Quest’anno, complice l’arrivo dell’autunno, la mia scelta è caduta su una piccola pianta di Pernettya mucronata, avvolta in una nuvola di bacche lucide dal vivace colore rosa acceso. Si tratta di un piccolo arbusto sempreverde dal portamento cespuglioso e compatto, appartenente alla famiglia delle Ericacee, che predilige una posizione in ombra luminosa o a mezz’ombra, non tollera il caldo ed è resistente al gelo senza bisogno di particolari precauzioni. Va tenuta con il terriccio umido ma ben drenato, con annaffiature più abbondanti in primavera ed estate e diradate durante i restanti periodi dell’anno.

All’ultimo momento è saltato nel vaso un piccolo intruso, riuscite a trovarlo?

Pernettya mucronata var. rosea

Perché chiamarla Valle dell’Inferno?

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Timidi frammenti color indaco si riversano fluttuando nelle pozze d’acqua che il nubifragio si è lasciato dietro, la notte scorsa. O sono forse porte improvvisamente aperte, solo per oggi, verso un’altra dimensione, dove il cielo dimora in terra e le nubi si nascondono fra le radici degli alberi?

Coriandoli di foglie argentee orlano la superficie dell’acqua, si ispessiscono sui sentieri trasformandoli in morbidi tappeti, e se apparentemente possono sembrare solo uno scherzo bonario, disteso sul bosco da qualche folletto silvestre, sono in realtà testimoni di una furia degli elementi difficilmente immaginabile, ora che le dita del sole riscaldano le punte delle foglie, sfiorandosi in una reciproca carezza a mezz’aria.

Santa Brigida - Valle dell'Inferno 2Santa Brigida - Valle dell'InfernoGli stessi frammenti di cielo scorrono nel ruscello, si affrettano verso la cascate e si infrangono sulle rocce solo per ricomporsi dopo qualche voluta di danza, là dove i raggi trafiggono il tetto volante degli alberi e si diffondono a terra come in una caverna.

L’aria è spessa nella Valle dell’Inferno, nascosta fra i rilievi preappenninici sopra Santa Brigida, fra il Mugello e il Valdarno, pochi chilometri da Firenze che misurati in termini non convenzionali possono dilatarsi nello spazio e anche nel tempo. È spessa e calda ma senza inganni ed esalazioni oltremondane, solo il tepore quasi palpabile che si sprigiona dal sottobosco, investe l’olfatto, ottunde il rumore dei passi, addormenta i rami e risveglia insieme i riflessi multicolori dei coleotteri.IMG_1450IMG_1460

Dunque perché chiamarla Valle dell’Inferno se ti avvolge come in un nido? La domanda continua a risuonarmi dentro finché l’immobilità dei rami non assume i connotati dell’incantesimo.

Cercherai invano l’uomo, negli sprazzi di sole che infrangono la volta della Valle dell’Inferno. Solo il respiro trattenuto degli alberi, in un’incomprensibile stasi vegetale, e delicate ali di coleottero sotto la loro scorza metallica. Sarà questo il motivo del nome?

L’uomo lo ritroverai più in alto sul crinale, ma solo in segni sparsi e consunti, dove i rovi abbracciano i muri di qualche casolare, e sulla cima del Monte Rotondo, dove il lacerto di muro di un non più ravvisabile castello si protende ancora ostinato, come ad indicare una strada ancora più su. Solo scendendo nuovamente a valle i segni si fanno più concreti, a lato dei sentieri indicati da segnavia spolverati di licheni. IMG_1470IMG_1475Antico segnavia Pontassieve


Il post è stato scritto all’indomani del nubifragio che ha colpito Firenze il 1 agosto 2015

7_Vasco Pratolini, “Metello”

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Metello_PratoliniQuando entra a Firenze, attraversando porta alla Croce in un luminoso e trionfale mattino di giugno, Metello ha appena quindici anni ma già è un uomo. Rimasto orfano, è cresciuto come un figlio nella famiglia di contadini in cui era stato messo a balia, condividendone la fatica nei campi di Rincine: ma quando i Tinaj decidono di andarsene in Belgio per cercare fortuna, Metello avverte irresistibile il richiamo della città dove è nato e dove ha vissuto suo padre, l’anarchico Caco, lui che si sente “cittadino” e diverso dalla gente di campagna in mezzo a cui ha vissuto. È deciso anche lui a cercare fortuna, ma soprattutto a trovare la sua strada, quella che la sorte e le sue capacità sapranno indicargli: è solo, giovane, forte, è ruvido ma giusto, ha labili legami con un passato che per lo più ignora e voglia di futuro.

È il 1887: troverà ad accoglierlo una città in pieno fermento, in cui il turbine di Firenze capitale è passato lasciando il pesante retaggio, come un grigio strascico, del Decennio di carestia: ma anche quello è ormai volto al termine, e le occasioni non mancano per chi sa coglierle. Metello, riconosciuto da un antico compagno del padre, il vecchio Betto, sale rapidamente i diversi gradini della scala sociale cui può accedere: dapprima si accontenta di lavoretti di fatica a giornata, ma presto diviene manovale, e poi mezzo muratore e muratore in una Firenze che sta ricominciando a respirare e a crescere al di fuori dell’antica cerchia delle mura, conosce la vita di città, le donne, il piacere di avere in tasca i soldi che si è guadagnato e di disporne, la vanità e la tentazione. Conosce l’amicizia disinteressata di Betto, che lo inizia alla vita insegnandogli a leggere e a scrivere, donandogli le ali che potrà utilizzare per affrontare l’avvenire. Conosce l’amore di Ersilia, che lo completa e lo rinnova anche quando la loro unione sembra prossima a vacillare.

Ma l’apparente benessere in cui la città si ammanta nasconde profonde contraddizioni che hanno antiche radici: sono anni segnati da aspri conflitti di classe. Legge sempre, ragiona, Metello, con la sua logica ineluttabile e testarda: cerca le chiavi per comprendere il presente e per conquistare l’avvenire. Si avvicina al movimento operaio, al socialismo, diviene presto un punto di riferimento per i compagni nella lotta per migliorare i salari dei lavoratori, finirà in carcere e al confino, sarà quasi involontariamente uno dei protagonisti degli scioperi dell’estate del 1902, in cui per sei settimane i muratori di Firenze ingaggiarono un braccio di ferro con gli impresari, riuscendo infine ad ottenere condizioni di lavoro migliori nei cantieri. A quale prezzo tuttavia: la fame, la disperazione, il tradimento, gli scontri a fuoco, la morte.

Intenso e poetico, Metello ha cambiato il mio modo di vedere la città che amo, Firenze, attraverso gli occhi dei personaggi, vivi e reali, che animano la vicenda narrata da Pratolini: non è più possibile passare lungo il Mugnone per via XX settembre senza pensare all’episodio culminante dello sciopero, ai volti cotti dal sole e tesi dei muratori, al silenzio rotto solo dalle grida delle rondini che si disperdono verso campi che adesso non esistono più, ai fucili che tremano in mano ai soldati di leva, agli spari che cementano improvvisamente la solidarietà contro i padroni, agli occhi azzurri del giovane Renzoni, che muore precipitando da un ponteggio insieme al vecchio Lippi, il decano, proprio quando la lotta ha prodotto un’insperata vittoria, quando il futuro sembra realizzabile. Non è più possibile passare da via Ghibellina senza pensare a Ersilia, accecata dal furore, che pedina la bella Ida, minuscola e danzante nuvola lilla destinata a svaporare come rugiada al sole di fronte alla determinazione e alla forza dell’amore tradito ma non vinto.

La geografia immaginaria tracciata nel romanzo dall’andirivieni dei suoi personaggi, con la loro umanità imperfetta e fugace, si sovrappone ormai alla geografia attuale e consueta di Firenze, intessendone le strade di voci e di volti, di storie insieme dure e piene di speranza.firenze_ottocento

6_Edward M. Forster, “Camera con vista”

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Firenze, inizi del Novecento. Nelle stanze della Pensione Bertolini il caso raduna un gruppo di viaggiatori britannici assai diversi gli uni dagli altri per età e condizione sociale. La giovane Lucy viaggia per la prima volta fuori dal suo paese, accompagnata dalla cugina Charlotte; al loro arrivo scoprono che le stanze che avevano chiesto, quelle con vista sull’Arno, sono state assegnate ad altri turisti. Questo banale incidente crea il presupposto per una grottesca rappresentazione delle norme sociali che regolano i rapporti fra le persone: gli Emerson, un anziano signore e il figlio George, propongono uno scambio di stanze che lascerebbe alle due signore le camere migliori. La generosa offerta, ritenuta contraria alla buona educazione, viene accolta con un imbarazzato diniego, segue un’estenuante e affettata schermaglia, al termine della quale Lucy e la cugina prendono possesso delle camere, senza che nessuno ne tragga piacere, poiché gli Emerson ne escono umiliati e come se l’accettazione della loro proposta costituisse un gesto di condiscendenza nei loro confronti, mentre le due donne continuano a provare insieme senso di colpa e offesa.  

L’episodio definisce fin da subito i due poli fra cui si dibatteranno tutti i personaggi del romanzo: spontaneità e convenzione, libertà e rispetto delle regole, natura e cultura, alcuni soggiacendo consapevolmente o inconsapevolmente al polo negativo, altri in lotta con esso, altri nella ricerca di un impossibile compromesso. La “camera” è la gabbia in cui ci spingono le norme che siamo abituati a rispettare, mentre la “vista” indica un mondo più ampio cui è possibile affidarsi e in cui è possibile proiettare il proprio destino.

Gli Emerson sembrano vivere una loro dimensione libera dalle norme sociali, ma senza goderne la felicità: su di loro aleggia continuamente il giudizio degli altri, che li trovano sempre fuori luogo, sopra le righe, ignoranti e fastidiosi. Ogni loro tentativo di comunicazione si infrange in una commedia del ridicolo. Lucy avverte la distanza che la separa da questi spiazzanti compagni di viaggio con un imbarazzo misto a curiosità: non può fare a meno di restarne in qualche modo affascinata. Finché, durante una luminosa passeggiata sulle colline di Fiesole, George Emerson la bacia, in un lampo di sole vento e fiori di campo. La ridda di emozioni, turbamenti, sensi di colpa culmina in una improvvisa fuga delle due donne a Roma. I due si incontreranno nuovamente in Inghilterra, quando Lucy ha già accettato di sposare un altro uomo. Posta davanti alla realtà, ella comprende di non amarlo, e deciderà di rompere il fidanzamento per inseguire la vera felicità.

Non so celare il mio disappunto verso questo romanzo, ricco di spunti narrativi interessanti (fra tutti, il bagno liberatorio di George e di Freddy nel laghetto della foresta) e di contrasti concettuali carichi di significato ma risolti tuttavia in modo sbrigativo e banalizzante. Il senso di fastidio maggiore è dato dalla descrizione dell’Italia e degli Italiani costantemente mantenuta su un taglio etnoantropologico da spedizione coloniale, senza risparmio di luoghi comuni triti e disprezzabili, dalla truffaldina proprietaria della pensione al vetturino lussurioso e infido, al venditore di fotografie che inscena una miserabile tragedia da quattro soldi per ottenere un rimborso. Non c’è un briciolo di verità e di spessore in questa Firenze di inizio secolo vista attraverso la lente degli stereotipi e non senza un malcelato senso di superiorità. Lo stesso taglio si percepisce nelle pagine introspettive dedicate al personaggio principale, Lucy, basate su una visione maschilista e convenzionale del mondo femminile, analizzato come su un tavolo anatomico con conclusioni inconsistenti. Dopo aver ricevuto il primo bacio della sua vita (il primo bacio!),  improvviso come un fulmine, tutto il turbamento emotivo di Lucy si risolve nell’aspettativa della prossima confessione con la cugina, senza che il suo pensiero si posi un istante su di lui, sull’uomo che l’ha stretta fra le braccia. Dopo questo episodio, non sei più disposto a a dare un po’ di fiducia al narratore e ai pensieri della protagonista. Imperdonabile.

Firenze

5_Ugo Pesci, “Firenze capitale (1865-1870)”

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Ugo PesciNel 1864, quando la clausola segreta della Convenzione di Settembre stabilì il trasferimento della capitale del neonato Regno d’Italia da Torino ad altra città da individuare (segno tangibile della rinuncia a Roma, nelle intenzioni della Francia, che aveva imposto la clausola come condizione del ritiro da Roma), Firenze era ancora una città medievale: le mura arnolfiane (XIII-XIV secolo), progettate in vista di un auspicato incremento demografico che sarebbe stato interrotto bruscamente dalle ondate di peste del Trecento, racchiudevano un tessuto urbano disomogeneo, in cui la mole imponente del Duomo gettava la sua ombra su basse casupole, e in cui i palazzi nobiliari erano intervallati agli orti e ad ampie distese non edificate. Pochi mesi dopo, la modernità avrebbe bussato prepotentemente alle porte della città, mutandone per sempre il volto. L’abbattimento delle mura, la creazione dei viali di circonvallazione, l’estensione del centro urbano con la nascita di nuovi quartieri residenziali, la demolizione dei quartieri più cadenti del centro storico e l’apertura di nuove piazze ci consegnano Firenze così come è oggi.

Il libro di Ugo Pesci, scritto all’inizio del Novecento, offre una semplice ma vivida cronaca degli anni in cui Firenze ebbe il rango di Capitale del Regno d’Italia, dalle vicende politiche alla vita mondana, improntata ad una visione ottimistica (non so quanto sincera e quanto ancillare) che mi ha molto colpita. Non vi è spazio, nelle pagine di Pesci, per la nostalgia di quella vecchia Firenze che si annidava nelle sordide strade del centro e che fu spazzata via, in quei cinque anni e nei decenni successivi, nel corso di una febbrile operazione urbanistica del tutto ignara (o volutamente ignara) del valore delle testimonianze storiche e architettoniche che si cancellavano in nome dell’avanzare del progresso, dell’igiene e della sicurezza pubblica. Una nostalgia che tuttora aleggia e che ho sempre provato, con il cuore di chi ama il passato e ne vorrebbe comprendere le ragioni e le storie, passeggiando in Piazza della Repubblica, dove solo la Colonna dell’Abbondanza resta a testimoniare la presenza, un tempo, di quello che fu il Mercato Vecchio e il Ghetto, con le sue botteghe, la sua gente e le sue rumorose e non sempre limpide attività. Eppure, afferma nettamente Pesci, Firenze non avrebbe potuto incontrare il nuovo secolo abbigliata con le sue vecchie vesti, per quanto auliche fossero: il cambiamento era necessario, in effetti era già iniziato, in sordina, a partire dagli anni della dominazione francese ed era proseguito durante il regno degli ultimi Granduchi. Certo, sarebbe avvenuto gradualmente e in modo meno traumatico, vogliamo immaginare, se non fosse stato sotto la pressione di una trasformazione decisa dall’alto e imposta in tempi serratissimi.

Telemaco Signorini, Mercato Vecchio a Firenze (1882-1883)

Telemaco Signorini, Mercato Vecchio a Firenze (1882-1883)

Nonostante il rimpianto per ciò che è irrimediabilmente scomparso, le austere facciate della Firenze umbertina in fondo fanno ormai parte della sua identità quanto Palazzo Vecchio e Santa Maria Novella. Nessuna città, come ogni organismo, può restare ancorata ad un momento unico del suo destino se il cambiamento è la cifra unica di tutte le cose, ci piaccia o meno. Abbracciare il cambiamento è una virtù che va saputa coltivare. Quel quinquennio di Firenze capitale, che proprio quest’anno si celebra con una serie interessantissima di iniziative promosse sia dal Comune che da altri enti, porta un turbine di cambiamento improvviso e fugace, segnato dalla percezione della provvisorietà. Era infatti chiaro a tutti i contemporanei, sia a chi cercò di contrastare il trasferimento della capitale o lo criticò vedendovi solo un rischio per Firenze, sia a chi si affrettò a trarne rapidi quanto effimeri guadagni, che quella stagione non sarebbe stata eterna: troppo forte era il richiamo di Roma e il suo statuto simbolico come centro ideale del Regno.

Per pochi anni si affollano dunque a Firenze migliaia di impiegati giunti al seguito del Governo e dei Ministeri, che lasciano con rimpianto Torino immaginando ingenuamente la città toscana una sorta di far west privo delle comodità cui erano abituati e ne restano invece incantati; per pochi anni deputati provenienti da zone diverse del Regno e che per la prima volta si chiamano italiani siedono sugli scranni di Palazzo Vecchio; per pochi anni è Firenze il fulcro della nuova Italia, fino al settembre del 1870, fino a Porta Pia. E così, il vento passò.

Fu in casa Corsini, si può dire, l’ultima festa di Firenze capitale, la sera del lunedì grasso del 1870 – riuscita stupendamente quantunque ballerine e ballerini fossero stanchi davvero, dopo una ventina di notti di non interrotto lavoro – ma la mattina dopo, quando sul far del giorno andavamo per via Palazzuolo verso il centro della città, nessuno di noi pensava che nell’inverno del 1871 si sarebbe ballato a Roma.