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Julio Cortásar, “Bestiario”

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BestiarioChiedere a un lettore quale genere preferisca fra romanzo e racconto è come imporre la fatidica scelta fra poli opposti: Beatles o Rolling Stones, cioccolato o crema, mare o montagna? Nella mia carriera di lettore, ho in genere preferito incondizionatamente il primo, senza preconcetti, ma per inclinazione naturale. Ho letto alcune raccolte di racconti, ma li ho trovati assaggi privi della goduriosa soddisfazione che mi hanno dato i ponderosi tomi che ho divorato negli anni, un finger food che ti lascia l’appetito e in fondo anche un po’ di fastidio.

Adesso che mi sto dedicando a una riscoperta del genere, ho riletto con occhi nuovi Raymond Carver apprezzandolo più di quanto avessi fatto in passato, ma sono gli otto racconti di Bestiario di Cortásar che per la prima volta mi rivelano un piacere inaspettato e fulmineo: la cifra segreta di questo difficile genere letterario.

Julio Cortásar, nella conferenza Alcuni aspetti del racconto, ha paragonato il racconto alla fotografia (e il romanzo al cinema): un mezzo espressivo limitato, per autoimposizione, entro un margine ben definito, che tuttavia si propone di infrangere il limite, offrendo un frammento di realtà ma in modo tale da trascenderlo contemporaneamente, da agire “come un’esplosione che apra su una realtà molto più ampia”. Mentre dunque il romanzo procede per accumulazione, tracciando una strada lentamente verso il lettore, costruendo un percorso in progressivo divenire, il racconto risponde ad una logica diametralmente opposta: la rapidità, la tensione e l’intensità sono le sue uniche armi. Niente perdite di tempo dunque, niente divagazioni e giri tortuosi. In qualche modo, il racconto è più vicino alla condensazione della poesia, alla profondità necessaria dell’archetipo mitico, che al romanzo.

Nei racconti di Bestiario il fantastico si intreccia con il quotidiano, destabilizzandolo, insinuando la possibilità che, in fondo, leggi non del tutto razionali muovano i fatti del mondo. L’esplosione che il racconto provoca non è l’irrompere dell’irreale, non è la rottura dell’ordine, perché l’ordine già rivela di per sé la sua inquietante imperfezione. Come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Bestiario, in cui c’è una tigre che si aggira nella casa in cui la famiglia Funes trascorre le vacanze, e nei suoi paraggi: i protagonisti non sono turbati da questa presenza, che non ha niente di eccezionale e fa parte della normalità delle cose, della routine di cui ciascuno subisce la cadenza. I Funes sono semplicemente costretti a organizzare la propria giornata in base a dove si trova la tigre, a evitare certe stanze della casa, a rincasare o a non uscire, in uno schema così banalmente consolidato da poter essere utilizzato dalla piccola Isabel per consumare la propria vendetta.

Esplosioni che continuano a deflagrare: ho sperato di non aver capito Lontana, incentrato sul tema inquietante del doppio e dello scambio di destini, il racconto che ho trovato più bello, carico di inquietudine e con un finale enigmatico e duro, che continua a riportarti lì, a scorrere le pagine con la segreta speranza di aver interpretato male. Ho seguito il lento rifiorire di Delia e creduto nella sua innocenza, in Circe, fantasticato sulla natura delle presenze di Casa occupata. Ciascuna di queste brevi storie riecheggia un mondo, pieno e denso ma allo stesso tempo aperto, capace di accogliere le proiezioni immaginifiche del lettore. “Ogni racconto durevole è come il seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco”.

Vasco Pratolini, “Lo scialo”

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Vasco Pratolini - Lo scialoNon c’è la freschezza rumorosa della vita di quartiere, le storie di amicizia e amore o la dolce amara vendetta de Le ragazze di San Frediano nelle pagine de Lo scialo di Vasco Pratolini, la seconda parte dell’affresco storico dal titolo Una storia italiana, che prende avvio alla fine dell’Ottocento con Metello  e si conclude al termine della Seconda guerra mondiale con Allegoria e derisione.

In una Firenze su cui si allungano le ombre del trionfante Fascismo, cupa e quasi priva di scampo, il romanzo intreccia le vite di personaggi di diversa estrazione sociale, contadini, politici, villani arricchiti, nobili decaduti, bottegai e artigiani. In questo ampio racconto corale, che abbraccia due decenni, filo conduttore sono le vicende di Nella e Ninì, e delle rispettive famiglie.

Due donne profondamente diverse per storia e inclinazioni, ma entrambe percorse da un tormento interiore serpeggiante e implacabile, che si acuisce dolorosamente con la progressiva presa di coscienza del passare del tempo, delle occasioni irrimediabilmente perdute, della mediocrità dell’ambiente piccolo e medio borghese di cui fanno parte, e che le conduce là, nel gorgo. Esse vedono l’abisso verso cui si dirigono, ma non vi si sottraggono, in un estremo tentativo di rivolta al destino che altri – la famiglia, la società, l’educazione – hanno scelto per loro.

“La vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele.” 

Pratolini inanella questi triti, li incatena gli uni agli altri, in una prospettiva a spirale che tende all’infinito e in cui manca la luce dell’avvenire, o il bagliore dell’ideale: l’amore tragico di Ninì per la giovane contadina Maria, che finisce per inabissarle entrambe, e quello incondizionato di Adamo per la stessa Ninì, che non verrà da lei mai corrisposto nonostante il matrimonio, la vita familiare apparentemente irreprensibile di Nella (ma quel neo che cresce sulla guancia del marito Giovanni, con gli anni, e che sì, si rivela infine quel che è in realtà, un’orribile verruca!), e il fuoco che la travolge nell’incontro con Folco, subito spento dalla fatalità di una morte enigmatica, la miserabile tresca di Giovanni con Erina, che si conclude in una grottesca beffa: ogni cosa, anche l’amore, anzi sopratutto l’amore, si incenerisce nelle mani dei personaggi, o per lenta e inesorabile consunzione, o per troppo improvviso deflagrare.

I destini singoli fluttuano legati al ritmo minaccioso del respiro della Storia, che sullo sfondo compie la sua lenta parabola: la Prima guerra mondiale, la Marcia su Roma, l’impresa di Fiume, l’omicidio di Spartaco Lavagnini, le retate degli squadroni e le purghe ai dissidenti…

È possibile essere felici mentre accade tutto questo? Pratolini conduce i suoi personaggi ognuno nel proprio inevitabile gorgo, dando con decisione una risposta. E oggi, è possibile essere felici mentre accade tutto questo?

Raymond Carver, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”

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CarverQuando una persona non si sente valorizzata, coinvolta, considerata, o al contrario all’altezza della situazione e crede di soccombere, finisce spesso per scivolare in un angolo angusto e opaco, dietro una cortina di protezione più o meno densa, più o meno fumosa, più o meno irta di spine.

Sono quelli che si nascondono da qualche parte a leggere il giornale, che non salutano, che non puoi dir loro niente senza essere aggredito, quelli che assumono comportamenti irrazionali e imprevedibili, oppure al contrario standardizzati in una routine imprescindibile e inattaccabile da qualunque evento esterno.

Quante volte, soprattutto nella vita lavorativa, capita di incontrare persone così?

Le stesse persone che magari, prese nel verso giusto o motivate, sanno rivelarsi preziose, sfoderando risorse ed energie inattese. Non sai mai, in fondo, che storia o quale tortuoso percorso si celi dietro alla maschera dell’indifferenza, della maleducazione, del disinganno.

Leggendo tutti d’un fiato i racconti raccolti in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, ho dato inconsapevolmente ai personaggi di Carver i volti delle tante persone che, intorno a me, mostrano segni di sofferenza e di disagio nelle loro piccole o grandi idiosincrasie quotidiane. Travolti dallo scorrere degli eventi, dall’ascolto di sé stessi, è comodo giudicare sbrigativamente. Ma quanto è resistente l’argine che si può opporre alla forza della corrente? Quanto è lontano quel guizzo apparentemente incomprensibile di follia che cogliamo negli altri?

Nella catena serrata che si snoda da uno all’altro dei diciassette racconti, da una storia di scivolamento – nell’alcool, nella violenza, nella solitudine, nell’incomunicabilità – all’altra, l’amore del titolo sembra il grande assente. Eppure, l’amore finito, l’amore deluso, l’amore mal diretto, l’amore leggero, l’assenza d’amore o il troppo amore – l’amore dunque, in definitiva – è il motore immoto di ciascuna delle vicende narrate da Carver, nella loro nuda, spietata realtà. La scrittura – asciutta, essenziale, implacabile – coglie in un lampo fulmineo giusto un istante nel flusso continuo e inarrestabile della vita, proprio quell’attimo appena prima o appena dopo che si mostri la crepa nell’argine, che si compia l’irreparabile, che inizi lo scivolamento nel fondo limaccioso. Lascia narrare agli oggetti la loro nascosta, sublime, poetica e disperata tristezza, quella che resta imprigionata lì quando li dimentichiamo, o quando ci sopravvivono.

“Grammatica creativa” (corso di sopravvivenza per secchioni)

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Grammatica creativaEbbene sì, adesso che sono più vicina agli anta che agli enta posso ammetterlo serenamente a me stessa: la scuola superiore, per chi è stato segnato (ingiustamente!) dal marchio del secchione è una sorta di Purgatorio posto in mezzo fra l’Inferno delle medie e la liberazione, se proprio non vogliamo definirla Paradiso per non tirare per le lunghe l’analogia, dell’università.

Perché alle medie non c’è proprio pietà né via di scampo se riveli al nemico la tua passione per la lettura piuttosto che per la tv, mentre alle superiori almeno puoi impegnarti con qualche successo a passare semplicemente per un eccentrico se i tuoi parametri di vita sono del tutto incompatibili con l’ambiente che ti circonda, se ascolti musica che ha come minimo trent’anni, leggi romanzi russi dell’Ottocento e ti prende una crisi di panico all’idea di uscire il sabato pomeriggio per fare la classica e attesissima “vasca” sul corso principale del paese.

Certo, devo dire che al passaggio al temuto triennio un elemento potenzialmente a sfavore della mia popolarità, appena in tiepida ascesa grazie alla partecipazione poco convinta alla tradizionale okkupazione dell’istituto, fu il voto inaudito ottenuto al primo compito in classe di italiano: quello a due cifre, quello leggendario e improponibile. La voce si sparse in tutta la scuola, e quando mi fermarono in corridoio chiedendomi: “oh ma te sei quella che ha preso 10?”, pensai, “vai, è la volta che le piglio”. Invece no, stranamente. Il voto, con quella sua aura mitologica, servì a conquistare un inaspettato e plenario rispetto.

Una delle autrici di questo libro, che ho riletto adesso dopo quasi vent’anni, è stata la mia insegnante del Liceo. Allora noi avevamo quindici anni, e lei trentadue: meno di quelli che ho io adesso, ma ovviamente per noi era un’adulta, e un’insegnante per di più. Se penso adesso a quella differenza d’età, capisco (e sorrido di me stessa) l’inspiegabile deferenza con cui talvolta vengo apostrofata.

I temi che ci venivano proposti erano poco convenzionali: si partiva dai testi studiati in classe, i classici della letteratura italiana, per divagare da un autore all’altro, fino ad arrivare saltellando di parola in parola e di verso in verso fino agli scrittori e alla musica contemporanei. Gli altri insegnanti storcevano apertamente il naso di fronte a un metodo così poco ortodosso, così poco “scolastico”, che invitava gli studenti a confrontare una poesia di Eugenio Montale e una canzone di Francesco Guccini, lasciava ampio spazio alla creatività, ai percorsi personali, anche (ma con la richiesta di un uso rigoroso, pena la censura) all’emotività.

Il libro è un originale manuale di scrittura, che affronta dieci diversi aspetti, in progressione crescente di complessità, di quella magia rara che è l’atto di dare una forma stabile al pensiero, esemplificando lì con brani tratti da opere di scrittori italiani e non. I dieci capitoli in cui si struttura il volume rispecchiano i parametri di valutazione utilizzati dalla nostra insegnante (ed elaborati in seno al “Progetto creatività” – ma mica lo sapevamo allora – del Ministero della Pubblica Istruzione), da un livello 1 (grafia e ortografia), 2 (precisione lessicale) a salire fino ad un livello 9 (approfondimento critico) e 10 (creatività).

Ricordo il senso di sfida che accompagnava la mattina di ogni compito in classe. La sfida non consisteva tanto nella possibilità o meno, in quelle due ore, di produrre un buon compito. Non mi interessava. La sfida era stare a vedere quale nuova porta mi avrebbe aperto quella prova: era incredibile come ogni volta lo stimolo intellettuale della traccia facesse germogliare idee, immagini, collegamenti che io stessa faticavo a riconoscere come miei. Quello che mi si chiedeva nella maggior parte dei casi, in realtà, era ciò che mi piace(va) di più: creare ponti di senso fra testi apparentemente lontani, farli dialogare fra loro per mettere in evidenza il sottotesto, il nondetto, lo spazio meraviglioso lasciato all’arbitrio e alla fantasia del lettore.

Scrivevo poco. Gli anni precedenti ero stata rimproverata spesso dai professori per questo mio stile così conciso. Eppure non potevo fare diversamente. Il mio pensiero distilla in alambicchi, non dilaga. Scrivevo tre pagine a rigo intero buttate giù di pancia, per poi limarle fino a raggiungere tre colonne, quattro al massimo. Quando, pochi anni dopo, avrei incontrato le pagine limpide e purissime di Marguerite Yourcenar sarebbe stato amore a prima vista. Quei compiti scolastici, indimenticati, sono stati prima di tutto un inno precoce al piacere di leggere, alla voglia di sapere, al sogno e all’indipendenza.

16_John Steinbeck, “La perla” – ovvero la perdita dell’innocenza

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Steinbeck, la perlaLa canzone della famiglia, sprigionata dal paziente lavoro domestico di Juana e dal giocoso vagito di Coyotito, accompagna con la sua melodia dolce ma potente il risveglio di Kino, un giovane e poverissimo pescatore di perle del Golfo di La Paz, in Messico. Il confortevole dispiegarsi di un rituale sempre identico a se stesso, gli occhi di Juana aperti sul cuscino, la focaccia calda, l’apparire del sole fra le onde. Un equilibrio apparentemente immutabile.

Eppure, la spietata violenza del destino irrompe incarnandosi nell’ingannevole bellezza di una enorme, unica meravigliosa perla che Kino trova sul fondo del mare. La canzone della perla ammalia il cuore con la sua promessa di un riscatto sociale mai prima immaginato e che prende forma in desideri quasi mostruosi nella loro grandezza: Kino crede di vedere nell’opalescente superficie della perla un futuro diverso. Vestiti nuovi per sé e Juana, scarpe chiuse per il giorno del matrimonio, un fucile, ma soprattutto, soprattutto la scuola per Coyotito. Coyotito saprà leggere e scrivere, conoscerà, non sarà un oppresso.

La canzone della perla porta inesorabilmente con sé la canzone del nemico: perché la voce si diffonde prima ancora che Kino riesca a decidere in che modo trasformare il sogno in realtà. Intorno alla perla si scatena l’ingordigia e l’avidità degli uomini della città, quelli che hanno già tutto ma vogliono ancora di più. Kino è costretto a combattere, non appena cade la notte, contro coloro che desiderano possedere la perla. Uccide. L’unica via di scampo è la fuga, verso un’altra città dove vendere la perla e trasformarne la canzone nel tintinnio del denaro.

Ma da questo viaggio non si torna vincitori. Lo capisce sin da subito Juana, che tenta invano di sfuggire al maleficio rigettando la perla in mare: Kino è avvinto della vastità dei suoi sogni e non accetta di abbandonarli. Kino e Juana riappariranno nel villaggio dopo appena un giorno di fuga disperata, braccati dai segugi sulle tracce della perla. La piccola famiglia è distrutta per sempre nel bene più prezioso, quell’amore apparentemente banale dal profumo di focaccia, in potente equilibrio con l’universo.

Musiche primordiali si intrecciano in questo brevissimo e intenso romanzo, così scarno ed essenziale nella forma quanto magicamente evocativo. Non servono quasi le parole per disegnare paesaggi, personaggi ed emozioni, basta l’evocazione della musica per dischiudere la porta di un mondo e insieme distruggerlo.

15_Neil MacGregor, “La storia del mondo in 100 oggetti”

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Storia del mondo in 100 oggettiNel 2010 la BBC propone a Neil MacGregor, Direttore del British Museum dalle notevoli doti di comunicatore e protagonista di una strepitosa rinascita dell’istituzione da un passivo di milioni di sterline, di partecipare a una trasmissione radiofonica in cui gli viene richiesto di parlare in pochi minuti di 100 oggetti rappresentativi selezionati fra le collezioni del museo londinese, uno al giorno per 5 giorni a settimana, per 20 settimane.

L’iniziale perplessità di MacGregor viene respinta con disarmante semplicità dalla popolare emittente. No, non è un problema parlare di cose che chi ascolta non può vedere, anzi: in questo modo ogni ascoltatore potrà formarsi una sua personale visione dell’oggetto di cui sta seguendo la storia, facendo volare la propria fantasia trasportata dalla magia evocativa delle parole. Il programma ottiene un successo inaspettato e straordinario, da cui scaturisce l’idea per questo affascinante libro.

A ciascun oggetto, illustrato in genere da una, talvolta da due fotografie (di altissima qualità), viene dedicato un testo sintetico e pregnante, di circa 5 pagine. Una pillola breve ma intensa che riassume la sua storia in relazione alla storia mondiale: l’epoca e il contesto in cui è stato prodotto, la sua finalità e i messaggi che poteva veicolare ai contemporanei, il modo in cui culture diverse lo hanno interpretato o usato nel corso del tempo, il motivo per cui è stato perduto o sepolto, la sua riscoperta e il suo significato nel mondo attuale. Partendo da semplici oggetti, siano capolavori celebri come il busto di Ramses II che ispirò la celebre poesia Ozymandias di Shelley o pietre miliari per il loro valore storico, come la stele di Rosetta, o ancora oggetti assolutamente banali in sé, come i cocci di ceramica raccolti su una spiaggia della Tanzania, MacGregor fornisce da vero affabulatore un magistrale saggio di divulgazione storica, intrigante quanto scarno e privo di facile prosopopea, un affresco di ampio respiro della cultura umana dal chopper di Olduvai, uno dei primi prodotti in cui 2 milioni di anni fa si esprime la creatività umana, fino alla lampada solare prodotta in Cina nel 2010.

Un libro da tenere sul comodino e leggere uno o due capitoli alla volta, riflettendo, ricomponendo man mano un mosaico fatto di tessere collegate da fili sottili che legano le epoche e le diverse parti del mondo in una rete di relazioni potenzialmente infinita, che si diramano nello spazio, attraverso le vie di comunicazione, e nel tempo, segnate dai passaggi di mano che gli oggetti subiscono e da cui scaturiscono sempre nuovi significati. Un esercizio salutare: nel volume la storia dell’Europa, che siamo abituati dai nostri programmi scolastici a considerare in una prospettiva centrale e centripeta, è solo una parte in mezzo a tante di questo insieme multiforme e caleidoscopico, in cui da una storia ne scaturiscono sempre di nuove come nel racconto de Le Mille e una notte.

100 oggetti per ricostruire la storia del mondo

14_Aldo Palazzeschi, “Sorelle Materassi”

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Sorelle MaterassiSanta Maria a Coverciano, 1918.

Firenze è lontana, non lambisce ancora con la sua espansione edilizia il paese sonnolento ai piedi di Settignano, fra l’Affrico e il Mensola. Nel loro appartatissimo nido, Teresa e Caterina Materassi conducono un’esistenza monotona fatta di ferrea disciplina e duro lavoro. Cucitrici in bianco e ricamatrici, le due sorelle sono riuscite a riscattare gli sperperi e le dissolutezza del padre, e a conquistare un posto rispettabile nella società: davanti al loro cancello stazionano ad ogni ora del giorno le auto delle signore del bel mondo, contesse marchese ereditiere, che si contendono le meraviglie di seta e taffettà che escono dalle loro mani.

Il prezzo da pagare è tuttavia la vita stessa, che hanno completamente sacrificato alla missione che si sono prefisse. Nel loro laboratorio esse sono altere regine, ma del mondo reale sono completamente estranee, cullate dalle loro ridicole ma commoventi fantasie di esperienze non vissute, di incontri mai avvenuti, di uomini inesistenti che non le hanno amate.

Il tranquillo scorrere della loro esistenza sempre uguale, cadenzata dal rumore del telaio, è interrotto soltanto in occasioni precise e strettamente codificate: la domenica pomeriggio, quando osservano il riposo per mezza giornata, che passano ad addobbarsi riesumando da vecchi armadi e cassettoni vestiti delle nonne e lustrini ormai irrimediabilmente fuori moda, la vendemmia, quando sono di malavoglia costrette a presiedere al rito collettivo del taglio dell’uva nel loro terreno, e per la festa di San Francesco a Fiesole.

La morte improvvisa della sorella Augusta, trasferitasi da giovane con il marito ad Ancora, dove conduce ora una squallida esistenza di vedova, fa piombare come un fulmine nella loro vita il nipote quattordicenne, Remo.

Fin dal primo ingresso di Remo nella storia, una sottile inquietudine si distende nell’incolore vita agreste sin a quel momento descritta nel romanzo.

Il ragazzo compare in piedi in mezzo alla camera della madre morente. Non piange. Non piangerà mai. Osserva. Spettatore impassibile in attesa di iniziare ad agire nel percorso della vita. Basta questo per indurre nel lettore un senso di pericolo imminente che non lo abbandonerà più.

Le zie pure fiutano il pericolo, ma il bellissimo giovinetto che porta la luce e la pienezza della vita nella loro casa le strega, le ammalia, le riduce in catene, succubi alla sua volontà. Irradia un fascino a cui quasi nessuno può sottrarsi: la vecchia Niobe, serva delle zie, è una delle prime vittime, ma ne seguono schiere innumerevoli, uomini e donne sembrano gareggiare per conquistare la sua amicizia, la sua considerazione, il suo amore. Ma amore Remo non ne prova, procede semplicemente e ineluttabilmente nel cammino che ha scelto: la vita è semplice è il suo motto, apparentemente innocuo, e senz’altro il denaro delle zie gli apre possibilità che, povero orfano, non aveva neppure immaginato.Remo

Quell’inquietudine, quel senso di pericolo imminente che Palazzeschi insinua nel lettore all’apparire di Remo piano piano si accresce, gonfia, dilaga: perché crescendo, il giovane alza sempre più la mira, le sue marachelle adolescenziali diventano presto veri peccati, bramosia di denaro, raggiri, mefistofeliche macchinazioni.

Remo, dietro la bella fronte, i capelli ondulati, la bocca perfetta in cui splendono i denti bianchi come un lampo di luce paradisiaca, è un demonio privo di sentimenti, di rimorso, di pudore. Le zie, le trascina nella rovina: i suoi piccoli debiti diventano progressivamente salati conti da pagare, spese che infine divengono insostenibili, in un crescendo teso e inesorabile. Quando i soldi non bastano più, le case e le terre vanno ipotecate.

Sola voce contraria, Giselda, la quarta sorella: Remo non la incanterà mai, lei che un matrimonio sbagliato ha gettato in una prigione di odio e risentimento verso tutti ma soprattutto verso i maschi. Remo non la incanta, ma sa volgere a proprio favore anche la sua ostilità, perché Teresa e Carolina in odio alla sorella sembrano impuntarsi a fare tutto il contrario di quello che consiglia.

Eppure, anche nel momento della rovina finale, non smettono di amarlo mai, nonostante tutto il male che sa procurare loro con un’indifferenza assoluta per i loro sentimenti. Venite a vedere le mie scimmie ammaestrate dice agli amici quando li invita a Coverciano a casa delle zie.

Bellissimo, non è una lettura indolore, Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi. Tutta l’amara ironia che può riservare la vita si rivela dietro il paravento di una scrittura piana, oggettuale, senza inutili voli, dietro una vicenda apparentemente banale nella Firenze di inizio Novecento. Ti avvinghia alle pagine, ti costringe a divorarle una dopo l’altra, in attesa dell’inevitabile crollo, che già si scorge all’orizzonte dopo il secondo capitolo, ma quando? Dopo quante umiliazioni, dopo quale altro durissimo colpo?SORELLE MATERASSI

13_David Le Breton, “Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza”

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Le BretonPoche cose hanno il potere di calmare le mie inquietudini come camminare: le pareti, anche le più familiari, sono sempre troppo strette per contenere i pensieri.

Molto meglio il vento, molto meglio il freddo, molto meglio il buio se occorre, se quella è l’ora dell’assalto, piuttosto che lasciarli ad avvilupparsi lì, nel gorgo.

È una cosa che è stato necessario imparare, accettare. Ci sono persone che riescono a prendere la vita alla leggera, a scrollare le spalle, a non farsi sopraffare, a sfoderare un salutare sorriso al momento giusto. Ci sono persone che soffrono di inquietudine. Io ho l’inquietudine. A volte senza un motivo distinguibile con chiarezza. Per quanto possa sforzarmi di lasciarla sedimentare, di avvicinarmi con cautela a raccogliere col retino la schiuma che si forma per buttarla via, tornerà.

Sentieri solitari che ho cercato sin da un’infanzia che capisco, adesso, spesso incomprensibile per chi mi stava vicino.

Camminare è un esorcismo salutare, a patto di abbandonare l’inutile pretesa di lasciare indietro se stessi, ma di entrare ancora più profondamente in un io scomposto e percepito nelle sue parti vitali.

Quanto sia inutile quella pretesa, lo descrive Petrarca in una bellissima lettera, rievocando l’ascesa compiuta con il fratello al Monte Ventoso, nel 1335. In cima alla vetta, lo spettacolo del paesaggio lo induce a meditare sugli anni ormai trascorsi. Allora, apre a caso le Confessioni di Sant’Agostino (citando così dottamente, in un sublime gioco di specchi, Agostino stesso, che spinto da un misterioso Tolle lege apriva a caso il Vangelo, e leggeva quel fatidico versetto che ne avrebbe determinato la conversione), e legge: E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, e dimenticano se stessi. In collera con se stesso, per l’attaccamento alle cose terrene, ripercorre come una furia i sentieri fino a valle, deciso ormai a volgere lo sguardo dentro di sé, allo spirito.

Cuore, occhi, gambe, sangue. Odorato, respiro, volontà. Come animali. Voltarsi indietro e ripercorrere con lo sguardo la strada fatta. Distacco e leggerezza. Questo libro, piacevole ma certo non indimenticabile, non ha aggiunto niente al mio amore per i sentieri, se non dare maggiore sostanza e desiderio a un progetto di viaggio già da lungo tempo meditato e per il quale, ormai, serve solo la bella stagione.IMG_2730IMG_2728

10_Italo Calvino, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”

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Italo Calvino - Se una notte d'inverno un viaggiatoreI regionali che partono da Roma Termini in direzione di Albano, Velletri e Frosinone sono caldi in inverno come in estate; sono rumorosi, affollati, stanchi crocevia di esistenze. Anche quando, salendovi, sembrano vuoti, inesorabilmente si riempiranno prima della partenza, costringendo i viaggiatori a una forzata convivenza in cui telefonate, litigi, odori, valige ingombranti, cani e gomiti si intrecciano senza pietà, fino alla prossima stazione (forse questo che ho accanto adesso scende), fino alla propria destinazione. Un mosaico le cui tessere, ogni giorno, sempre si scompongono, e sempre si ricompongono a formare un quadro di insindacabile omogeneità. Quante volte ho preso questi treni? Non lo ricordo. Un fluire di oscillazioni fra due stazioni, il treno appeso alla fuga prospettica dei fili elettrificati, sempre uguali a sé stesse.

Un giorno, scorgo in questa sconcertante uniformità spazio-temporale un elemento estraneo, difforme e sospetto. Sopra la rastrelliera, sospeso sopra la mia testa, un lungo tubo di fogli di giornale arrotolati in sezioni di diametro differente (crescenti o decrescenti secondo il punto di vista) e incastrate le une nelle altre: una sorta di cannocchiale cieco. I pendolari che salgono nella vettura vi lasciano scivolare sopra uno sguardo atono e disattento: ma che cosa è questo oggetto, che significa, perché è qui e a che cosa serve? La sua confusa policromia contrasta con le livree tutte uguali delle poltrone, delle tendine, delle pareti grigie del vagone; continuo a fissarla, con il naso rivolto all’insù. Il signore che si accascia nella poltrona di fronte a me segue il mio sguardo e dice: “Ah, quello. C’è un senza tetto alla stazione di Termini che fa questi cosi”. Mi chiedo come questa spiegazione possa essere definitiva come il tono dell’uomo lascia presupporre, visto che per quanto mi riguarda il mistero si infittisce e apre infinite possibilità parallele. Immagino innumerevoli cannocchiali colorati di fogli di giornale, in viaggio sulle linee ferroviarie che si diramano da Roma Termini e innervano tutta la penisola. Raggiungono stazioni sperdute nell’indifferenza generale, finiscono nella spazzatura quando vengono intercettati dagli addetti alle pulizie, solo in rari casi riescono a scendere dal treno e a muovere qualche passo nel mondo reale. Da qualche parte, c’è un uomo invisibile che arrotola fogli di giornale, raggiungendo con paziente perizia una sempre maggiore perfezione del risultato, e invia questo messaggio senza senso in giro per l’Italia. Il treno rallenta alla stazione di Ciampino, mi alzo con fare indifferente. Raccolgo i miei bagagli, afferro il caleidoscopio colorato e scendo dal treno.

Ho ripensato a quel giorno quasi dimenticato, alla sensazione di perdita di senso e allo stesso tempo di una necessaria esistenza di un senso nascosto e inaccessibile nelle pieghe del reale, leggendo (o meglio, rileggendo adesso) Se una notte d’inverno un viaggiatore, ritrovando nell’accumularsi di storie che non verranno poi sviluppate, ma resteranno sospese e senza scioglimento per motivazioni differenti, il clima sospeso di quella giornata, il vorticare di possibili spiegazioni, tutte paradossali, per la presenza di quello strano e incoerente oggetto nel vagone di un treno, la cui evidente inutilità contrastava con l’altrettanto evidente attenzione che era stata posta nella sua realizzazione. Ma perché tutto deve avere un senso?
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9_Alexandre Dumas, “Il Conte di Montecristo”

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Dumas-1Non importa vederla davvero: ovunque tu sia nell’Arcipelago toscano, non potrai evitare di avvertire la presenza muta e inaccessibile di Montecristo, anche quando la sua sagoma inconfondibile non è visibile all’orizzonte, sospesa sopra un velo scivoloso di vapore che la solleva sulla superficie del mare ma solo quel tanto che le impedisce ancora di staccarsene e fluttuare magica a mezz’aria.

Ma Montecristo forse non è davvero un’isola: è una montagna dal cuore di roccia fredda e compressa, ormai dimentica del potere del fuoco; è una piramide, silenziosa e ieratica, che continua ad affondare con il medesimo angolo i suoi fianchi scoscesi nelle profondità del Tirreno, protendendo verso il cielo solo una minima parte della sua reale estensione, o che forse al contrario appena sotto il pelo dell’acqua si scopre priva di radici e capace di galleggiare sulle onde come una barchetta di carta in un’innocua vasca da giardino, tappezzata di ninfee; è un gigante immobile sotto il tepore di un manto d’odorosa macchia mediterranea.

L’esercizio della fantasia è potenzialmente illimitato: Montecristo serba quasi intatto il suo mistero, tanto complesso – per quanto non impossibile – raggiungerla realmente. Solo una volta ho avuto la fortuna di un fugace incontro: appena il tempo di indovinare il ronzio degli insetti fra i fiori, di immaginare Vittorio Emanuele ed Elena del Montenegro fra le arcate sdentate dell’approdo di Cala Maestra, di scoprire impensabili sfumature di verde e blu nell’acqua che si insinua fra gli scogli, e la visione era scomparsa. Ma da allora non ho smesso mai di popolare l’isola di avventure e di storie, dove spesso mi sono trovata intenta in fantastiche e sempre solitarie esplorazioni. E così, negli anni, ho camminato sulle rocce calde di sole, sondandone a piedi nudi le asperità ormai arrotondate dal tempo, ho pescato diafani gamberetti nelle pozze dove il mare arriva solo durante le tempeste, orlate di minuscoli castelli di cristalli di sale, ho rovistato nei bauli che di certo giacciono abbandonati nelle soffitte della Villa Reale, sollevando sbuffi di polvere e traendone pizzi un po’ ingialliti e uno strascico che chissà come è finito qui, dove balli non devono essercene mai stati.

Il Conte di Montecristo è una lettura che ho rimandato per anni, inconsciamente temendo che la finzione narrativa potesse infrangere uno dei miei più preziosi microcosmi immaginari. Ed è stato incredibilmente bello, invece, tornare ancora una volta su Montecristo, un’isola certo diversa dalla mia, alternativa ma non per questo rivale, e scoprire che, molti anni prima delle mie scorribande, è stato padrone di questo minuscolo reame il protagonista del romanzo, Edmond Dantès.

A dire il vero qualche volta ho provato anch’io a cercare il tesoro che le leggende vogliono sepolto sull’isola, smuovendo sassi nelle cavità e nella Grotta di San Mamiliano, ma senza grande convinzione: era altro quello che cercavo a Montecristo, il potere della libertà illimitata. Per Dantès invece, il bisogno di riscatto ma soprattutto la necessità di vendetta sopra coloro che lo hanno privato in un colpo di tutto ciò che l’avvenire gli dispiegava come una promessa, rende questione vitale il ritrovamento del tesoro. Nelle segrete del Castello d’If, dove è stato detenuto per quattordici anni, l’abate Faria gli ha rivelato come entrare in possesso del patrimonio della famiglia Spada, sepolto in un ben nascosto recesso sull’isola, e da quando riesce in un disperato tentativo di evasione, Dantès ha un unico obiettivo: entrare in possesso del tesoro e schiacciare i suoi nemici.

È Montecristo, l’isola magica, che gli offre la possibilità di iniziare una nuova vita, è qui che egli elabora un complesso piano che, in un crescente delirio di onnipotenza, lo conduce, apparentemente inarrestabile, sulle tracce dei suoi avversari: li ritrova riannodando i fili del passato, li riconosce, li osserva da lontano con la pazienza del ragno, li avvicina e infine li stringe sempre più da presso, ne conquista la fiducia per colpirli nei loro affetti, nelle loro ossessioni, nelle loro debolezze, li intrappola nelle spire di un meccanismo perfetto.

Mille volte, nel corso della storia, appare impossibile al lettore che il disegno ordito da Edmond Dantès possa giungere ad una positiva conclusione: come è possibile che nessuno lo riconosca, che la macchia nel suo passato, per quanto frutto di una volgare macchinazione, non riemerga a perderlo definitivamente? Come possono la sua stravaganza, la sua smodata ricchezza, la sua eccessiva condotta di vita non indurlo a commettere un errore fatale? Ma questi non sono I Miserabili, e chi è vinto una volta non è vinto per sempre. La rete si chiude, serrandoli uno per uno, su coloro che l’hanno un giorno tradito. Eppure Dantès è, dal momento del suo arresto e nonostante lo splendore di cui può circondarsi, un uomo morto. I mille raffinatissimi piaceri che il possesso del tesoro può fargli godere: ville, cavalli, barche, opere d’arte, gioielli, divertimenti, libri, cibo, servitori, donne… Tutto è nulla per lui, tutto divora il fuoco della vendetta. Ma il lieto fine c’è, fra misericordia, perdono e, soprattutto, amore.isola-di-montecristo