Chiedere a un lettore quale genere preferisca fra romanzo e racconto è come imporre la fatidica scelta fra poli opposti: Beatles o Rolling Stones, cioccolato o crema, mare o montagna? Nella mia carriera di lettore, ho in genere preferito incondizionatamente il primo, senza preconcetti, ma per inclinazione naturale. Ho letto alcune raccolte di racconti, ma li ho trovati assaggi privi della goduriosa soddisfazione che mi hanno dato i ponderosi tomi che ho divorato negli anni, un finger food che ti lascia l’appetito e in fondo anche un po’ di fastidio.
Adesso che mi sto dedicando a una riscoperta del genere, ho riletto con occhi nuovi Raymond Carver apprezzandolo più di quanto avessi fatto in passato, ma sono gli otto racconti di Bestiario di Cortásar che per la prima volta mi rivelano un piacere inaspettato e fulmineo: la cifra segreta di questo difficile genere letterario.
Julio Cortásar, nella conferenza Alcuni aspetti del racconto, ha paragonato il racconto alla fotografia (e il romanzo al cinema): un mezzo espressivo limitato, per autoimposizione, entro un margine ben definito, che tuttavia si propone di infrangere il limite, offrendo un frammento di realtà ma in modo tale da trascenderlo contemporaneamente, da agire “come un’esplosione che apra su una realtà molto più ampia”. Mentre dunque il romanzo procede per accumulazione, tracciando una strada lentamente verso il lettore, costruendo un percorso in progressivo divenire, il racconto risponde ad una logica diametralmente opposta: la rapidità, la tensione e l’intensità sono le sue uniche armi. Niente perdite di tempo dunque, niente divagazioni e giri tortuosi. In qualche modo, il racconto è più vicino alla condensazione della poesia, alla profondità necessaria dell’archetipo mitico, che al romanzo.
Nei racconti di Bestiario il fantastico si intreccia con il quotidiano, destabilizzandolo, insinuando la possibilità che, in fondo, leggi non del tutto razionali muovano i fatti del mondo. L’esplosione che il racconto provoca non è l’irrompere dell’irreale, non è la rottura dell’ordine, perché l’ordine già rivela di per sé la sua inquietante imperfezione. Come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Bestiario, in cui c’è una tigre che si aggira nella casa in cui la famiglia Funes trascorre le vacanze, e nei suoi paraggi: i protagonisti non sono turbati da questa presenza, che non ha niente di eccezionale e fa parte della normalità delle cose, della routine di cui ciascuno subisce la cadenza. I Funes sono semplicemente costretti a organizzare la propria giornata in base a dove si trova la tigre, a evitare certe stanze della casa, a rincasare o a non uscire, in uno schema così banalmente consolidato da poter essere utilizzato dalla piccola Isabel per consumare la propria vendetta.
Esplosioni che continuano a deflagrare: ho sperato di non aver capito Lontana, incentrato sul tema inquietante del doppio e dello scambio di destini, il racconto che ho trovato più bello, carico di inquietudine e con un finale enigmatico e duro, che continua a riportarti lì, a scorrere le pagine con la segreta speranza di aver interpretato male. Ho seguito il lento rifiorire di Delia e creduto nella sua innocenza, in Circe, fantasticato sulla natura delle presenze di Casa occupata. Ciascuna di queste brevi storie riecheggia un mondo, pieno e denso ma allo stesso tempo aperto, capace di accogliere le proiezioni immaginifiche del lettore. “Ogni racconto durevole è come il seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco”.