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La seconda volta [Bursa, moschee e castagne caramellate]

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Bursa è la quarta città della Turchia per numero di abitanti, un centro industriale dalla posizione strategica, che ha avuto un’enorme crescita, dilagando a macchia d’olio dalla Cittadella nella piana ai piedi dell’Uludag. Avrei dovuto tenere meglio presente questo dato pianificando la visita, ma arriviamo invece ormai a tarda sera da Istambul, con il traghetto che collega il porto dello Yenicapi con un approdo non meglio specificato sulla riva meridionale del Mar di Marmara, un traghetto preso del tutto casualmente, ultimi posti disponibili o restare a terra.

Così, seguendo meccanicamente la folla, disorientati dal buio, esaliamo su di un autobus che dovrebbe andare a Bursa. Ma è grande Bursa, la quarta città della Turchia! Questa prima sera è un vagare dall’autobus alla metropolitana a un taxi alla città vecchia, finalmente, dove si trova l’albergo.

Se ci arriviamo, infine, è solo merito di un ragazzo che incontriamo in autobus, un’apparizione provvidenziale in una giornata di caos e disorganizzazione. Abbiamo parlato molto, durante il viaggio, perché da quando gli chiediamo aiuto per orientarci nella mappa della città, Aydin ci prende sotto la sua protezione: dall’autobus ci porta alla metropolitana, ci fa entrare con la sua carta magnetica e rifiuta tassativamente di prendere i soldi dei biglietti, ci indica la fermata a cui dobbiamo scendere, che è quella dopo la sua. Finge di dimenticare, ne sono fermamente convinta, di scendere alla sua fermata, e quindi scende alla nostra e ci accompagna fino al parcheggio dei taxi, dove dà indicazioni al tassista, che non spiccica una parola d’inglese, e si dilegua nella notte.Bursa, ingresso alla Ulu CamiEppure abbiamo camminato per una giornata intera a Bursa, visitato la Cittadella e i mercati storici del Kapali Carsi, la Yesil Camii e la Yesil Türbe con i loro arabeschi in maiolica e oro e i tappeti verticali di ceramiche verdi e turchese, fra il pigolare delle scolaresche: ma ricordo adesso solo quell’incontro e, il giorno successivo, ore passate nell’ombra fresca della Ulu Camii, immenso spazio coperto da venti cupole ruotante attorno al riflesso azzurro della fontana di marmo.

Non finisce di meravigliarci la vita palpitante delle moschee, che quando non è l’ora della preghiera sembrano prive di trascendenza. L’entrata filtra un poco il fluire della vita quotidiana: bisogna togliere le scarpe, e chi entra per pregare si lava alle fontane all’ingresso, ma una volta all’interno ognuno declina la propria permanenza in una gamma di atteggiamenti che hanno poco di rituale.

C’è chi prega e chi dorme, disteso in un angolo; c’è un gruppo di donne che ascoltano, sedute a terra, la spiegazione della guida. Ci avviciniamo pur non capendo niente della spiegazione. Una bambina, da poco deve avere imparato a camminare, prende in mano un tasbih e ondeggia instabile ruotandolo sopra la testa, girandosi verso la madre con piccoli gridi estatici. Come in una piazza, la gente va e viene. Mi piace l’odore polveroso dei tappeti, il contatto dei piedi nudi con la loro superficie soffice e calda. I passi non fanno alcun rumore, nello spazio vuoto della moschea, e risuona dunque più limpido, eterno e senza sosta, lo zampillo dell’acqua nella fontana.Bursa, Ulu CamiBursa, Ulu CamiBursa, Ulu CamiBursa, Ulu CamiBursaPersa la cognizione del tempo nella sospensione irreale della moschea, corriamo all’otogar per ripartire alla volta della prossima tappa. Afferriamo al volo un pugno di kestane sekeri, la specialità dolciaria di Bursa: castagne caramellate e rivestite di cioccolato.

Il paesaggio muta insensibilmente, nei sobborghi urbani già irrompe l’altopiano anatolico nei contadini che trasportano a dorso di mulo sacchi e fascine: il cioccolato si scioglie fra le dita prima ancora che in bocca.
OtogarKestane sekeri


Fotografie di Janos Agresti©

In bianco e nero – La Pieve di Gropina

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Ormai il giorno sta per terminare, e piove, piove incessante e ostile, senza un attimo di tregua.

Non minaccioso, mai: il cielo è uniforme e bianco, senza profondità e senza violenza. Non si accanisce, ma come da una vasca troppo piena, inevitabile, la pioggia continua a riversarsi sulla nostra auto e sui nostri sopralluoghi.

Scorre sull’erba, come un fiume calmo, e proseguiamo a piedi, nonostante gli inviti a tornare indietro. Eppure, non vorrei essere altrove. L’ombrello da cacciatore di colui che ci conduce sul posto, di quelli grandi e verdi, di tessuto a trama un po’ larga, col manico che sembra sgrossato a mano, mi fa così tenerezza. Fragile e nodoso quest’uomo, come lo sono gli anziani. Un abbagliamento studiato nel dettaglio, e adatto al luogo e al clima, i suoi stivali di gomma, il berretto pesante: come retaggi di un passato che non può appartenergli più, come attaccamento al se stesso di un tempo.

E infatti, lui vorrebbe abbandonare l’impresa, ma siamo due e siamo determinate ad arrivare. Non vorrei essere altrove: ogni cosa mi sa di antico, di vecchie abitudini e di avventura. I miei gesti si fanno quasi meccanici. Mi basta stare qua, in un posto che non conosco, ad assaporare la pioggia.Melo giapponeseUna pioggia così, finisce con l’appiattire nella scala di grigi tutti i colori: resiste ancora un poco il rosa caldo dei meli giapponesi, unica macchia viva in un paesaggio come sotto incantesimo. Alla fine, ritornando verso Firenze, ormai all’imbrunire, compare lungo la strada, fra il verde argenteo degli olivi, la mole della Pieve di San Piero a Gropina.

Varcando la soglia, si allontana lo stillicidio della pioggia e con esso ogni rumore. L’incantesimo per cui siamo qui è così completo: l’interno della chiesa è silenzio, è in bianco e nero. Scende una luce diffusa dalle finestre strette e sottili, come feritoie, chiuse da lastre diafane di alabastro, innervato di calde tonalità brune. Non si capisce se sia ancora possibile respirare, in quest’aria densa eppure fredda.

Sarà vero che il nome del borgo, Gropina, deriva dell’etrusco Krupina? Certo è che questa pieve, eretta nel 1016, sorge sui resti di almeno altri due edifici, uno paleocristiano, risalente al V secolo, e uno longobardo, del IX, e che negli scavi eseguiti negli anni Sessanta del ‘900 durante il rifacimento della pavimentazione, sono emersi resti sicuramente di epoca romana.

Le pievi romaniche che si snodano come torri di avvistamento contro i pirati, lungo le pendici del Casentino, con la loro enigmatica antichità, sembrano ponti verso un passato ancora più remoto. Luoghi da sempre santi, di una sacralità innegabile e riconosciuta da una generazione dopo l’altra. Pieve di Gropina internoIn luoghi come questo, con la mente vuota e rimbombante, accendo sempre una candela, che resti ancora un po’ lì ad ardere danzando, quando me ne sarò andata.

Ogni capitello, diverso dai compagni, cerca di narrare una storia diversa, ma la sua voce è così arcaica, così lontana, così arcana, che sembra cantare una melodia senza suono. I codici figurativi che conosco sono spade senza filo e senza punta. Eppure cantano, la scrofa che allatta i piccoli, le sirene del pulpito, le aquile e i pesci e le onde in cui si rincorrono.

Non c’è simmetria, né prospettiva o profondità, in questi intagli di pietra che hanno il calore del legno, eppure ogni dettaglio di questo complesso mondo simbolico, che racchiude i segreti della fede, della vita e della morte, ha la raffinatezza estetica, la purezza, dell’alba del mondo.

Cantano per sé soli, perché non li comprendiamo, mentre due colonne si fondono in un abbraccio.PulpitoPieve di Gropina

La cupola, la città. Quando tutto sembra in bilico

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Santa Maria del FioreSolo la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore è alta come un palazzo di sei piani, ardita come tutta l’incredibile creazione di Brunelleschi, “erta sopra e’cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani”. La guardo contro luce, volute e rosoni di marmo un po’ scomposti, il sole che filtra ancora, pur guizzando da dietro le colline, attraverso le vetrate porpora e oltremare. Mi volto ancora verso il parapetto: la città è distesa là sotto, la città amata, le strade conosciute, i palazzi con i loro inconfondibili lineamenti, i giardini e le corti nascoste che solo da questa altezza si svelano.

Ma tutto sembra in bilico.

Guardo accanto a me i profili delle mie amiche. Ci attardiamo nel freddo, al tramonto, senza parlare ormai, dopo aver giocato a lungo a indovinare l’identità degli edifici che si distendono sotto di noi, per un inespresso desiderio comune di fermare questo momento. Il gioco ci ha consentito di non parlare di quello che proviamo davvero oggi, ma insieme scava già come un solco di nostalgia.

Un tramonto che ci appare carico di significato. I capelli biondi dell’una e i ricci indomabili dell’altra. Occhi chiari entrambe ma così profondamente diversi: dolci e pacati gli uni, guizzanti di energia gli altri. Siamo diventate amiche abbastanza da adulte da serbare nei nostri rapporti, per quanto quotidiani e intensi, un velo di riserbo che ci impedisce di superare un segno, di sciogliere l’emozione nel gesto.La lanterna di Santa Maria del Fiore

Ancor più che all’interno della cattedrale, quando le scalette claustrofobiche si sono improvvisamente aperte in alto sulla vista della cupola affrescata dal Vasari con la sua immaginifica teoria di demoni infernali, e sul geometrico ordito bianco e nero del pavimento giù in basso, le proporzioni fra le cose sembrano prive di senso. Le persone, giù indicibilmente lontane, si fondono nell’indistinto. Sembra che la città esista indipendentemente da loro e, ovviamente, anche da noi, anche se le nostre mani posate sul ferro freddo della ringhiera sono più concrete delle ombre che tracciano percorsi sui marciapiedi, in basso.

Oggi, anche se siamo qua travestite da turiste, combattiamo sordamente. Una battaglia inutile, ne sono certa, ma che restituisce un po’ di senso alla fatica, allo scoraggiamento, all’impotenza, alla rabbia e alla frustrazione così spesso provati negli ultimi due anni. Evidentemente, c’è qualcosa per cui vale la pena resistere. Quando le proporzioni si perdono, e quando ciò che sembra certo vacilla, è più facile scoprirlo.

Un sollievo si diffonde. La mia passione, che credevo morta, respira ancora. Aggiorniamo continuamente la pagina internet. Piano piano, la petizione raccoglie firme mentre l’ombra della cupola si allunga ancora come un immenso gnomone, divora angoli di strade, si affievolisce infine e scompare. Tramonto su Firenze

Storia di un sognatore, Frederick Stibbert

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Frederick Stibbert in armatura per il corteo storico del DuomoC’è una fotografia, un’albumina forse a giudicare dai toni cromatici, che mostra Frederick Stibbert con indosso l’armatura “inglese del 1370” con cui partecipò al solenne corteo per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1887.

È in piedi, leggermente di tre quarti, accanto al cavallo riccamente bardato, e ne tiene con la mano sinistra il morso. Dietro di loro, un grande portale aperto che li inquadra come una quinta teatrale. Forse la ripresa è stata fatta nel giardino della Villa di Montughi, perché di lato si intravedono arbusti e foglie. Quello stesso giardino in cui oggi, dopo la pioggia, perle di cielo rotolano sulle grandi foglie di Stelizia. A terra, è posato l’elmo dall’inconfondibile cimiero – un angelo che si stringe le braccia al corpo – che Stibbert aveva fatto realizzare per l’occasione.
AcquaAllora, non aveva ancora cinquant’anni, se la fotografia non è stata ripresa a posteriori, eppure sembra un uomo molto più anziano. Volge con naturale sicurezza il volto verso la macchina fotografica, piegandolo appena sulla spalla sinistra. Socchiude gli occhi, come a schermarli dalla luce o a soppesare chi ha di fronte, ma guarda fisso in camera, senza sorridere.

Non si sorrideva in verità, nel 1887, guardando un obiettivo.

Immagino che la maggior parte delle persone si sentisse allora piuttosto imbarazzata a mettersi in posa davanti a un apparecchio fotografico, e infatti spesso hanno sguardi tesi, opachi, o forzati. Forse si sentono in qualche modo giudicati, o messi alla prova. Forse tentano semplicemente, in uno sforzo disperato, di tenere gli occhi bene aperti, di non sbattere le palpebre, vanificando così la seduta di posa, per il tempo necessario a imprimere l’immagine sulla lastra di vetro.

Non Frederick Stibbert. Lui guarda fisso in camera, senza esitazione e senza tentennamenti. Soppesa noi, che lo guardiamo a distanza di più di un secolo dalla sua morte. Non dimentichiamo che era un uomo di mondo.

Lo chiamano sognatore. Lo chiamano eccentrico. Un riccone eccentrico con la morbosa fissazione per le armature antiche, per le chincaglierie esotiche, per spade e fucili.

Ma chi era davvero? Quello sguardo penetrante si fa beffe delle etichette che gli vengono attribuite.Cavalcata dettGuerrieri giapponesiCavalcata dett 2Frederick Stibbert eredita giovanissimo, alla morte precoce del padre, una enorme fortuna. Studiare non gli piace. O almeno non gli piace seguire i percorsi consueti. I suoi tutori pensano che presto dilapiderà il suo patrimonio. E in effetti, il giovane spende. Spende per acquistare oggetti meravigliosi in giro per il mondo. Eppure le fosche profezie non si avverano. Frederick Stibbert non è un avventato.

Pian piano prende forma l’idea di una creazione personale grandiosa, a cui dedica tutta la vita, senza diaframmi: la sua casa è il museo, il museo è la sua casa. La Villa di Montughi viene accresciuta, ristrutturata, adeguata alle proporzioni di una collezione che si arricchisce per decenni. Nuove passioni sbocciano con il tempo, e Stibbert le coltiva tutte, le asseconda tutte. I mezzi non gli mancano. Le sale si susseguono, non fredde sfilate di oggetti, ma ambientazioni, atmosfere, come frammenti di vita un tempo vissuta, congelata in un istante che mai sfiorisce.

Il progetto prende la sua forma definitiva alla sua morte, l’atto finale che suggella scelte consapevolmente perseguite. Stibbert lascia la sua casa, la sua collezione, il “suo museo”, come amava definirlo, con i suoi 56000 oggetti, oltre a un patrimonio in denaro di 800 lire, corrispondente oggi a qualcosa come 2 milioni di euro, alla Gran Bretagna, paese di origine del padre, con la possibilità di recesso a favore della città di Firenze, che ne entra in possesso nel 1908. A quale condizione? Che il “suo museo” sia aperto al pubblico, e resti per sempre così come lui l’ha ordinato.
Soffitto StibbertUn sognatore, sì. Un visionario, forse. Ma non chiamiamolo eccentrico. La sua visione era guidata da una volontà ferma, dalla traiettoria pulita e ineluttabile come una freccia scagliata contro un bersaglio. Questo dicono i suoi occhi a chi lo guarda dietro l’obiettivo.

Frederick Stibbert è uno che ha vissuto proprio come ha voluto. Onore a lui. Ha voluto lasciare una traccia duratura del suo passaggio su questa terra, e quella volontà ferma agisce ancora oggi.

Non è incredibile, essere capaci di proiettare così se stessi oltre il più grande degli ostacoli?
Giardino

La seconda volta – [La fine del Ramazan nella Valle di Ihlara]

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IMG_8515_FotorAlla fine del Ramazan si celebra Șeker Bayrami, la Festa dei Dolci, tre giorni di festività con cui si conclude il mese del digiuno. È una di quelle occasioni da trascorrere rigorosamente in famiglia, e dunque la Turchia nei giorni precedenti all’inizio della festa ribolle di vitale fermento: tutti si spostano, tornano dalle città al paese d’origine, caricano sugli autobus a lunga distanza, o sui più domestici dolmus, bambini e anziani genitori per andare in visita dai parenti lontani, recando con sé monumentali pacchi di provviste e doni.

Abbiamo notato, in effetti, un certo andirivieni più intenso del solito, ma senza allarmarci eccessivamente; abbiamo viaggiato un po’ stretti ma niente più.

Poi, durante la festa il paese si ferma, come la bonaccia improvvisamente investe la superficie del mare al calare del vento. I negozi sono chiusi, i taxi non circolano, i dolmus dormono negli otogar. Ci dà questa informazione, come fosse un’inconfutabile rivelazione divina ma con un tono fra l’esterrefatto e l’incredulo per la nostra dabbenaggine, il proprietario dell’Akar Pansion di Ihlara, servendo un enorme vassoio fumante di saç tava: il giorno dopo non ci possiamo sicuramente muovere di lì. Il padre si affaccia dalla porta della cucina asciugando le mani nel grembiule, e annuisce gravemente, suggellando la profezia con un lampo degli occhi profondi, nascosti fra sopracciglia color neve sul volto asciugato dal sole.

Ma l’inconveniente sopraggiunto non ci farà modificare il nostro piano: il giorno dopo vogliamo essere a Göreme in Cappadocia, dopo aver percorso la Valle di Ihlara, e ci saremo. La camminata nella valle faceva già parte del programma. Vuol dire che invece di tornare a prendere gli zaini, ce li porteremo dietro, come le lumache portano il guscio. In fondo basta percorrere la valle per circa 14 chilometri per ritrovarsi a Selime, sulla strada per Aksaray, dove in qualche modo si dovrà pur fare.

IMG_8513_FotorLa Valle di Ihlara è già quasi Cappadocia, ma non ancora, incastonata e quasi nascosta com’è fra ripidi fianchi rocciosi, brulli e modellati dall’erosione, ma rasserenata dallo scorrere sul fondovalle del Melendiz Suyu, che crea una inaspettata oasi verde, distendendosi con le sue acque fresche e scintillanti, su cui si allungano come lunghissimi capelli ciuffi di alghe, danzanti nella corrente. La osserviamo dall’alto al calare del sole, mentre una mandria di vacche rosse e stanche, visione campestre di infinita malinconia, incrocia il nostro cammino, e ci sembra in fondo una cosa fattibile.

La mattina successiva, zaino in spalla, ci inoltriamo nella valle deserta. Come ci era capitato altrove l’anno precedente, si ripete l’incanto della biglietteria chiusa e sguarnita, i cancelli aperti, e con un misto di timore reverenziale e di incredulità iniziamo a scendere i ripidi gradini che conducono presto al sentiero di fondovalle, dove gorgoglia il fiume. Quella discesa conduce in una dimensione nuova, ammantata di silenzio austero e potente.

Chiese rupestriSui fianchi riarsi della montagna, apparentemente morbidi come nuvole di zucchero filato, fra i massi erratici che sembrano quasi compagni di viaggio, si aprono carichi di promesse gli ingressi delle chiese rupestri, dai nomi poetici ed evocativi, la Kokar Kilise, la Yilanli Kilise, la Sümbüllü Kilise: la Chiesa Profumata, la Chiesa del Serpente, la Chiesa dei Giacinti. Riecheggiano di storie perdute e incomprensibili, da inventare di nuovo, sempre diverse, una storia per ogni viaggiatore che vi giunga all’interno. Tutte ti accolgono con la stessa penombra lacerata da qualche polverosa striscia di sole, che appena lambisce gli affreschi dai vivaci contrasti.

Teorie di ieratici santi, dagli occhi vuoti e cancellati dalla parentesi iconoclasta, ma di cui si indovinano ancora i tratti volitivi segnati da pennellate compatte, si allineano sulle pareti silenziose, campite di tappeti geometrici che si distendono a coprire ogni angolo. Quella roccia che all’esterno, alla luce del sole, si modula semplicemente nelle tonalità dall’arancio al rosso al bruno, è che come se scavandola avesse liberato un mondo nuovo di colori e figure.Il fiume Melendiz SuyuQuesto silenzio surreale accompagna tutto il percorso: sembra uno di quei giorni in cui l’umanità si è nascosta e la natura è rimasta da sola. Di lontano, volteggia una piccola colonia di rapaci attraverso la stretta striscia di cielo racchiusa fra le cime delle colline. Sembra quasi sacrilego avventurarsi, e il viaggiatore si sente osservato.

Sulla sponda del fiume ci sediamo a consumare frutta secca e acqua prima di riprendere il cammino. I fianchi delle montagne si avvicinano, il fiume scivola in mezzo, basta continuare a seguirlo. Infine, nel pomeriggio ormai inoltrato, il respiro della valle si dilata e ci troviamo al termine del percorso, si scioglie l’incanto nelle voci delle persone che finalmente ricominciamo ad incontrare sul sentiero.

A Selime, come ci era stato predetto davvero non ci sono mezzi.

Per la prima – e unica – volta in Turchia, proviamo la sensazione, con i nostri zaini che denunciano chiaramente il nostro status di stranieri, di essere prede. Ci si avvicinano più persone, a turno, che offrono un passaggio in cambio di soldi, dicendo che tanto non troveremo un modo diverso per muoverci quel giorno. Quando cerchiamo un passaggio sui pulmini turistici, gli autisti ci mettono i bastoni fra le ruote e si rifiutano di farci salire, accampando problemi di assicurazioni e controlli, ridicoli per noi che abbiamo viaggiato seduti nei corridoi degli autobus e nei cofani posteriori dei taxi. Ma in effetti, camminando lungo la strada e provando ad alzare il pollice, la macchine che sfrecciano in direzione di Aksaray rispondono suonando il clacson, gli uomini alla guida alzano le spalle e allargano le braccia, tutte le vetture sono colme di nonni nipoti e animali domestici in corsa verso casa, verso la festa.
IMG_8517_FotorQuando ormai, passate alcune ore di inutile autostop, ci stiamo rassegnando, si fermano due ragazzi su una macchina rossa, musica a palla e finestrini completamente abbassati. Una cabrio, praticamente. Loro, vestiti di jeans attillati e camicie squillanti che dovrebbero essere alla moda, ma ti proiettano invece in una serie tv d’infima categoria. Ci fanno cenno di salire e partono lanciati come folli. Non parlano altra lingua eccetto la loro, non ci parlano ma non parlano nemmeno fra di loro.

Più volte, osservando le nude colline sfrecciare ai lati della macchina e a tratti il tachimetro che segna costante fra i 100 e i 120 km/h, mi chiedo se la mia vita non dovrà finire in un avventato sorpasso mediorientale. Ma poi questi enigmatici ragazzi ci porteranno davvero dove ci hanno detto che stanno andando? Non poter guardare in faccia due persone che ti portano in auto e non ti parlano ha un che di poco rassicurante. Gli incontri del pomeriggio hanno lasciato uno strascico amaro.

Arriviamo infine ad Aksaray, e la tensione inizia a sciogliersi quando di nuovo possiamo guardarli in viso: sorridono, rifiutano decisamente qualsiasi cosa per il passaggio, ripartono in una nube sonora che non si è mai interrotta, verso quel loro misterioso impegno che li ha condotti sulla nostra strada, e che resto con la curiosità di conoscere. Prendiamo l’ultimo autobus per Nevsehir, da dove si diparte la ragnatela dei percorsi della Cappodocia. Ci sediamo nell’ultimo sedile, stanchi e ancora silenziosi. Piano piano il dolmus si riempie.

Un ragazzino dal braccio ingessato e fermato al collo con un fazzoletto, poco dopo la partenza si alza dal suo posto a fianco della mamma e ci si siede accanto. Ci osserva, a lungo, incuriosito. Occhi scuri luccicanti come stelle sotto la frangetta nera. Infine rompe il silenzio, col suo coraggio di bambino. Parla per due ore, fa domande, ascolta attento le risposte perché vuole sapere molte cose, un dialogo in lingue eterogenee guidato dalla luce degli occhi.

Dire i numeri con le dita è la cosa più semplice del mondo, e se troviamo un argomento che contenga dei numeri si può parlare così per ore. Così ci dice quanti anni ha lui, otto, quanti ne hanno la mamma e le sorelle che viaggiano anche loro sull’autobus, quanti ne hanno tutte le persone che conosce. Si è rotto il braccio andando in bicicletta, anche questo è semplice da spiegare. Ma un’altra cosa facile da dire è il nome dei luoghi, e così dice i nomi dei paesi che attraversiamo, dei paesi che vediamo lontano sulle colline, di quelli a cui conducono le strade che incrociamo. È facile anche dire il nome delle persone, e quindi ci chiede il nostro, ci dice il suo, ci presenta tutti coloro che siedono nell’autobus, quando scendono e quando salgono.

Quando infine arriva alla sua fermata, scrivo sulla cartina, in corrispondenza del suo paese, Acigöl, un puntino vago sulle strade della Cappodocia, senza stelline a contrassegnare qualcosa di notevole da vedere, il suo nome. Mustafa. Allora davvero ci rilassiamo sui sedili, ci guardiamo e i nostri occhi sono bagnati di commozione: sottovoce, ci diciamo che tutti i momenti di quel giorno ci hanno portato lì, e gli occhi luminosi di Mustafa che saluta con la mano, incorniciato nel finestrino, hanno già cancellato le sensazioni spiacevoli delle ultime ore.IMG_8516_Fotor


La seconda volta era nel luglio 2014

15_Neil MacGregor, “La storia del mondo in 100 oggetti”

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Storia del mondo in 100 oggettiNel 2010 la BBC propone a Neil MacGregor, Direttore del British Museum dalle notevoli doti di comunicatore e protagonista di una strepitosa rinascita dell’istituzione da un passivo di milioni di sterline, di partecipare a una trasmissione radiofonica in cui gli viene richiesto di parlare in pochi minuti di 100 oggetti rappresentativi selezionati fra le collezioni del museo londinese, uno al giorno per 5 giorni a settimana, per 20 settimane.

L’iniziale perplessità di MacGregor viene respinta con disarmante semplicità dalla popolare emittente. No, non è un problema parlare di cose che chi ascolta non può vedere, anzi: in questo modo ogni ascoltatore potrà formarsi una sua personale visione dell’oggetto di cui sta seguendo la storia, facendo volare la propria fantasia trasportata dalla magia evocativa delle parole. Il programma ottiene un successo inaspettato e straordinario, da cui scaturisce l’idea per questo affascinante libro.

A ciascun oggetto, illustrato in genere da una, talvolta da due fotografie (di altissima qualità), viene dedicato un testo sintetico e pregnante, di circa 5 pagine. Una pillola breve ma intensa che riassume la sua storia in relazione alla storia mondiale: l’epoca e il contesto in cui è stato prodotto, la sua finalità e i messaggi che poteva veicolare ai contemporanei, il modo in cui culture diverse lo hanno interpretato o usato nel corso del tempo, il motivo per cui è stato perduto o sepolto, la sua riscoperta e il suo significato nel mondo attuale. Partendo da semplici oggetti, siano capolavori celebri come il busto di Ramses II che ispirò la celebre poesia Ozymandias di Shelley o pietre miliari per il loro valore storico, come la stele di Rosetta, o ancora oggetti assolutamente banali in sé, come i cocci di ceramica raccolti su una spiaggia della Tanzania, MacGregor fornisce da vero affabulatore un magistrale saggio di divulgazione storica, intrigante quanto scarno e privo di facile prosopopea, un affresco di ampio respiro della cultura umana dal chopper di Olduvai, uno dei primi prodotti in cui 2 milioni di anni fa si esprime la creatività umana, fino alla lampada solare prodotta in Cina nel 2010.

Un libro da tenere sul comodino e leggere uno o due capitoli alla volta, riflettendo, ricomponendo man mano un mosaico fatto di tessere collegate da fili sottili che legano le epoche e le diverse parti del mondo in una rete di relazioni potenzialmente infinita, che si diramano nello spazio, attraverso le vie di comunicazione, e nel tempo, segnate dai passaggi di mano che gli oggetti subiscono e da cui scaturiscono sempre nuovi significati. Un esercizio salutare: nel volume la storia dell’Europa, che siamo abituati dai nostri programmi scolastici a considerare in una prospettiva centrale e centripeta, è solo una parte in mezzo a tante di questo insieme multiforme e caleidoscopico, in cui da una storia ne scaturiscono sempre di nuove come nel racconto de Le Mille e una notte.

100 oggetti per ricostruire la storia del mondo

Lucide nuvole rosa e il Tepidario del Roster

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Ieri l’altro, scendendo l’Appennino per arrivare a Firenze, il cuore mi batteva forte. Che puerilità! Finalmente, a una svolta, il mio sguardo si è tuffato nella pianura e ha scorto di lontano come una massa oscura, Santa Maria del fiore e la sua famosa cupola… Ho guardato sovente tante di quelle vedute di Firenze che la conoscevo già e ho potuto camminare senza guida…

Così Stendhal, nella descrizione dei suoi viaggi in Italia, sintetizza l’emozione condivisa da tanti viaggiatori al momento di incontrare finalmente, ad una svolta della strada, la vista di Firenze, città di sogno carica di promesse, adagiata dolcemente nel nido dei suoi colli all’ombra della cupola del Brunelleschi.

Il viaggio in calesse attraverso l’Appennino, provenendo da Bologna, era particolarmente gravoso: la strada era lunga, difficile e non priva di pericoli, ma la fatica era ampiamente ripagata da quel momento unico, magico, in cui la città si svela all’improvviso, avvolta in una bruma irreale o splendente dei riflessi del tramonto. Una visione che tanti viaggiatori, nel Settecento e nell’Ottocento, cullano a lungo, nei febbrili preparativi preliminari al Grand Tour e lasciando alle spalle, una dopo l’altra, le tappe intermedie; e poi quel batticuore, inevitabile, commovente, che Stendhal si rimprovera ma con una punta di tenera condiscendenza per se stesso, per il suo sognare svagato il cielo sopra Firenze.

Questa visione antica e insieme senza tempo, per chi viaggia oggi in treno o in aereo, è quasi irrimediabilmente perduta; per ritrovarne in parte la suggestione ho percorso tante volte, di notte, via Trento appena sopra al Giardino dell’Orticoltura. Siamo nella parte finale della via Bolognese, nel punto in cui il declivio termina e il ponte sul Mugnone segna uno degli ingressi in città.

Interminabili momenti invernali così, l’odore di vento, la bicicletta in mano, la strada deserta, il cielo scuro e la cupola di Santa Maria del Fiore, il cuore per un attimo acquietato.Tepidario del Roster

Poco sotto, il Tepidario disegnato da Giacomo Roster e inaugurato nel 1880 risplende come un’immensa, delicata lanterna dalle nervature di solido metallo, così sfacciatamente ottocentesco con le sue decorazioni in stile moresco, le nicchie neorinascimentali e una fiducia un po’ ingenua per il progresso che allora era forse impossibile non condividere.

Il modello cui Roster si ispirò, apportando tuttavia significative variazioni ornamentali e strutturali, era il celebre Chrystal Palace, che aveva ospitato a Londra, nel 1851, la prima Esposizione Universale e che finì in una nuvola di fiamme, fumo e fuliggine in una notte del 1936. Un doppio ballatoio sospeso in alto, a sei metri di altezza, consentiva un tempo di ammirare le piante curiose ed esotiche che erano conservate nel Tepidario.Tepidario nell'Ottocento

Dopo un lungo periodo di offuscamento e un’intensa campagna di restauri, oggi il Tepidario e il Giardino dell’Orticoltura sono tornati ad essere un riferimento nella geografia del verde fiorentino: una passeggiata, un momento per leggere un libro sotto le foglie… Due volte l’anno, ad aprile-maggio e il primo fine settimana di ottobre, il giardino ospita una preziosa mostra mercato di fiori e piante, al cui richiamo non è facile sfuggire…

Quest’anno, complice l’arrivo dell’autunno, la mia scelta è caduta su una piccola pianta di Pernettya mucronata, avvolta in una nuvola di bacche lucide dal vivace colore rosa acceso. Si tratta di un piccolo arbusto sempreverde dal portamento cespuglioso e compatto, appartenente alla famiglia delle Ericacee, che predilige una posizione in ombra luminosa o a mezz’ombra, non tollera il caldo ed è resistente al gelo senza bisogno di particolari precauzioni. Va tenuta con il terriccio umido ma ben drenato, con annaffiature più abbondanti in primavera ed estate e diradate durante i restanti periodi dell’anno.

All’ultimo momento è saltato nel vaso un piccolo intruso, riuscite a trovarlo?

Pernettya mucronata var. rosea

La seconda volta – [@Istanbul]

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Istambul 3La seconda volta è necessario essere un po’ più coraggiosi, perché è difficile sottrarsi al timore che venga meno la magia e che il disincanto irrompa a colmare senza pietà la distanza fra realtà e immaginazione. La seconda volta, le cose hanno un aspetto usato o sono forse gli occhi ad esserlo, la stessa musica ormai muove pupazzi appesi agli specchietti retrovisori e il vento spira meno fresco nelle strade, senza sollevare polvere di aspettative.

La seconda volta è ancora una volta Ramazan fra i minareti pavesati di lumi della Moschea Blu e nelle aiuole dell’Ippodromo, ancora si stendono tappeti sull’erba e le nonne li cospargono di pomodori e trionfi di miele, ancora si attende a piedi nudi il tramonto riverberato dal canto mentre i gozleme già sfrigolano sulle piastre. Per un attimo il copione sembra già noto e consunto l’amalgama degli ingredienti. IstambulInizia così la seconda volta, nella sera calda di Istanbul. Quella pericolosa sensazione che il momento attuale non possa gareggiare con il ricordo e con l’ideale si infrange immediatamente. Questa volta la notte della città è già un po’ nostra: non ci spaventano la sua complessa topografia, né i suoni di una lingua così diversa dalla nostra. La consapevolezza che parleremo con tutti senza sapere più di dieci parole di turco ci regala una disinvoltura nuova: questa volta non stiamo ai margini della festa ma sappiamo che possiamo sedere nell’erba con gli altri e godere lo strano e poetico risveglio crepuscolare che sta per compiersi.

Afferriamo a casaccio da uno degli enormi vassoi che gli ambulanti, grondando sudore ma senza tradire fatica in volto, fanno volteggiare senza posa per l’Ippodromo, questo millenario cuore pulsante di Bisanzio, un qualcosa di commestibile ma incomprensibile nella sua essenza e nella sua modalità di consumazione. Siamo dunque sprovvisti di tutto, nel nostro stile più caratteristico, eccetto una bottiglietta d’acqua e queste strane polpette in cui si indovina la forma del pugno chiuso che le ha modellate – scopriremo più avanti in quante varianti possono declinarsi queste deliziose çig köfte, carne cruda bulgur e spezie, piccantissime da far venire le lacrime agli occhi: ecco perché la vaschetta si vende sempre accompagnata da foglie di lattuga. Le persone che si affollano attorno, riempiendo pian piano ogni angolo della stretta aiuola fra la Colonna Serpentina e il muro perimetrale della Moschea Blu, scrutano fra lo stupito e il divertito la nostra totale mancanza di organizzazione, e si danno un po’ di gomito fra loro.

È buffo essere così esotici e strani in Turchia. E così, con quel misterioso incantesimo che ci accompagna in questo paese e fa diventare ogni cosa semplice, la nostra mensa si arricchisce lentamente: qualcuno accanto sbuccia cetrioli in quantità per una famiglia numerosa, ed ecco che adesso ne possediamo un paio anche noi, qualcun altro ci posa davanti un piatto colmo di involtini di riso e foglie di vite, un ragazzino porta due bicchieri di aranciata, arrivano dolci, frutta secca e bicchieri di tè bollente, continuamente riempiti, per concludere degnamente la cena. Finché non decidiamo ad alzarci qualcuno continua a portarci qualcosa: almeno sappiamo dire grazie in turco! I giovani sono come sempre curiosi, ci chiedono da dove veniamo, vogliono raccontare se stessi e lo spirito del Ramazan, si parla a lungo in inglese della Turchia e di Istanbul; gli anziani guardano e sorridono con gli occhi, agitano sacchetti di plastica e fanno gesti che vogliono dire: prendeteli e sedetevici sopra, che diamine, l’umidità inizia a sentirsi sull’erba! Istambul 1Per fortuna, anche la seconda volta la magia è intatta.

Il giorno dopo, la luce galleggia acquosa nelle stanze senza finestre del Topkapi, silenziose e ovattate, penetrando in lame dal soffitto, trascorrendo e ondeggiando sulle pareti ricoperte di piastrelle colorate (aggiunte, tolte, sostituite chissà quante volte nei secoli, fino a che i disegni hanno cessato di incorniciare le porte e di dare un senso all’intrico decorativo). Deve esserci il mare, lassù in alto, e noi siamo negli abissi: non si spiega altrimenti il fresco che trasmettono i muri.

Ma soprattutto la città. Camminiamo, vaghiamo per ore senza cercare niente in particolare nelle stradine di Beyoğlu, fra la Torre di Galata, Istiklar Caddesi e il mare, profumo di panetterie e vecchi negozi di antiquariato pieni di cianfrusaglie, bambole e bauli, velocipedi e sciabole. Le lunghissime strade fra Sultanhamet e la Yenikapi sono un susseguirsi ininterrotto di enormi negozi che commercializzano sfarzosi e improbabili abiti da cerimonia in quantità che difficilmente possono trovare un mercato (quanti matrimoni, quante ricorrenze, quante festività devono esserci a Istanbul per giustificarli?), un enigma di difficile comprensione sovrastato dai clacson di onnipresenti ingorghi metropolitani, che si spengono di colpo nei vicoli dove i seminterrati odorano di pelle semilavorata.

Entriamo nelle moschee a tutte le ore per trovare il silenzio o il canto: nella Moschea Blu al mattino presto, nella Moschea di Beyazit sfuggendo al caos del Gran Bazar, nella Moschea di Solimano poco prima che inizi la preghiera e che l’immenso spazio orizzontale definito dalle basse orbite dei candelabri si riempia di gente. Poco prima di imbarcarci, allo scalo di Yenikapi, per Bursa, entriamo nella Küçük Aya Sofya Camii, la piccola Santa Sofia: piccolo gioiello del VI secolo voluto da Giustiniano e Teodora. Le colonne bizantine dai complicati capitelli a traforo, gli architravi in marmo che si incurvano a formare ampi golfi incorniciano le calligrafie cinquecentesche in azzurro e bianco. Non c’è nessuno in questo spazio che odora ancora un poco di polvere e di tappeti ma già respira di vento marino. Finché un gruppo di bambini e bambine irrompe nella moschea, i tappeti ospitano spericolate capriole, le nicchie si trasformano in nascondigli e le volte risuonano di grida e risate.
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La seconda volta era nel luglio 2014

3_Lorenzo Scaramella, “Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici”

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scaramellaSi fa presto a parlare di lastre al collodio, stampe all’albumina e calotipi: ma che cosa sono e come si riconoscono? Il libro di L. Scaramella, fotografo e specialista delle antiche tecniche fotografiche, esamina in modo analitico le diverse tecniche che si sono succedute dalla nascita ufficiale della fotografia (1839) fino ad oggi per la produzione di negativi e di positivi. Un libro certamente molto tecnico e destinato a un pubblico settoriale, ma che si legge con piacere e regala spunti di riflessione interessanti sulla storia del mezzo fotografico e l’evoluzione della cultura visiva.

Dal punto di vista tecnico, la storia della fotografia si può suddividere in tre ere principali, in ciascuna delle quali c’è una predominanza di uno o due procedimenti particolari. Il libro, essendo del 1998, si arresta alle soglie del digitale (se ben ricordo allora le foto digitali a risoluzione piena erano grandi quanto un francobollo e se le avevi non sapevi proprio che farne): adesso siamo di fatto nella quarta era.

Dal 1839 alla fine degli anni ’60 dell’Ottocento coesistono i due procedimenti più antichi, estremamente differenti concettualmente e per aspetto finale. Il dagherrotipo veniva realizzato sensibilizzando una lastra di rame argentato, che viene posta nell’apparecchio dagherrotipico: l’immagine si forma direttamente sulla lastra e viene successivamente stabilizzata. Si tratta di un positivo diretto, unico: dal dagherrotipo non si possono infatti ottenere altre stampe della medesima immagine. La sua unicità e la sua delicatezza (esposto all’aria tende inevitabilmente a ossidare, e deve dunque essere protetto da una apposita custodia) ne fanno un oggetto di lusso. Il calotipo è invece un negativo su carta cerata, da cui si possono tirare innumerevoli positivi, che in questa fase vengono realizzati su carta salata, ovvero su di un semplice foglio di carta di buona qualità su cui viene spalmata (successivamente l’operazione si compie per galleggiamento) prima una soluzione di acqua e sale, e dopo una soluzione contenente nitrato d’argento).

Questi antichi procedimenti possiedono ciascuno un fascino particolare. Il dagherrotipo è davvero un oggetto magico: l’immagine con tutti i suoi dettagli è di una nitidezza sorprendente, che la fa apparire viva; questo effetto è aumentato anche dal fatto che, muovendolo, l’immagine appare successivamente positiva e negativa, e sembra danzare. Poiché l’immagine si trova su una superficie riflettente, guardandola essa si arricchisce dei riverberi dello spazio che si trova attorno all’osservatore, acquisendo la sua profondità e i suoi colori, e l’osservatore stesso entra a far parte dell’immagine attraverso il suo riflesso. L’osservazione di un dagherrotipo è un’esperienza temporale del tutto particolare. Le carte salate, invece hanno in genere un aspetto opaco, ma il loro fascino risiede nel fatto che l’immagine si forma nelle fibre stesse della carta, acquisendo una piacevole morbidezza di piani e di toni. Un aspetto molto interessante, che Scaramella mette più volte in evidenza, è che i precursori della sperimentazione fotografica avevano per obiettivo la realizzazione di immagini direttamente positive della realtà: il concetto di negativo/positivo, a cui noi siamo ormai abituati e che diamo per scontato (ma lo sarà ancora fra qualche decennio? – la fotografia digitale non lo contempla, e i nativi digitali non conoscono il brivido di incertezza che si prova ad “andare a sviluppare un rullino”), era allora sentito come una limitazione nella capacità della fotografia di porsi come “pencil of nature”.Memnon

Queste tecniche vengono soppiantate a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento dalla rivoluzione del negativo su vetro al collodio (umido o secco) e dalla stampa all’albumina, che costituiscono il binomio per eccellenza fino a circa il 1880. L’evoluzione tecnica consente di ridurre drasticamente i tempi di esposizione: la fotografia si avvia ad essere praticabile davvero ovunque e in qualunque situazione. In questo momento, le vedute di città e paesaggi si animano improvvisamente: nel periodo precedente infatti i lunghi tempi di ripresa non consentivano di fermare l’immagine delle persone in movimento, ragion per cui le città di metà Ottocento sembrano invariabilmente deserte e sospese in un tempo in cui gli esseri umani non esistono più o non sono mai esistiti.

Intorno al 1870-1880 viene introdotto il procedimento alla gelatina sali d’argento che, pur con evoluzioni, miglioramenti e modifiche rimane sostanzialmente quello principale fino all’avvento del digitale: con esso termina l’era della “protofotografia” e inizia quella dell’industria fotografica. Avviene un salto epocale su cui è interessante riflettere: fino a quel momento, in genere ciascun fotografo preparava autonomamente i materiali di ripresa e di stampa (per quanto le carte albuminate fossero disponibili anche in commercio). Era un’epoca di sperimentazione e di fantasia: si diffondevano manuali e riviste che spiegavano i materiali e le tecniche, ma poi ciascuno faceva miscugli e prove per ottenere effetti adatti al gusto personale, aveva i suoi zibaldoni e i suoi ricettari. Da questa sperimentazione nascevano in continuazione procedimenti alternativi a quelli più diffusi, destinati magari a vivere solo una breve stagione, per non parlare delle contraffazioni e delle imitazioni. Non desti stupore trovare fra i fotografi della prima ora tanti medici e farmacisti, gente abituata a mescolare polverine e a produrre pozioni. L’industria fotografica spazza via alla fine dell’Ottocento tutto questo, al grido voi premete il bottone, noi facciamo il resto! (era lo slogan pubblicitario della Kodak nel 1888): certo, la fotografia diventa davvero alla portata di tutti. Il Romanticismo però si arresta alle soglie del Novecento.

2_Frederick N. Boher, “Photography and Archaeology”

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boherDa quando ho memoria avverto il profondo richiamo del passato, in tutte le sue forme: è una malia da cui è assai difficile guarire, come sanno tutti quelli che la inseguono fino a farne una professione, come gli storici e gli archeologi; un filtro che pervade il presente e il modo di percepire la realtà.

Le fotografie storiche sono una delle sirene al cui canto l’ammaliato non si può resistere. Quella carta ingiallita dal passare del tempo, le macchie che denunciano le vicende che hanno passato e i luoghi che hanno attraversato, gli sguardi delle persone fissati in un attimo ormai trascorso, che ci osservano da profondità incommensurabili. Nei mercatini dell’usato e dell’antiquariato capita di trovarne: chi è specializzato in questo genere le propone spesso ordinate in raccoglitori, suddivise per tematiche o per epoche, così depotenziate e quasi innocue. Più spesso accade di vederne gettate alla rinfusa in qualche vecchia valigetta, in mezzo a flaconi da farmacia in vetro e a rocchetti di filo da cucito, testimoni muti di vite ormai senza nomi, senza legami, prossime a dissolversi. Non ne ho mai acquistate: mi affascinano, ma anche mi inquietano. No, non vorrei portare con me, nella mia casa, questo fardello di vite trascorse.

Il volume di F.N. Boher, elegante e curatissimo, ricco di strepitose illustrazioni, tratta un aspetto particolare della storia della fotografia: il suo rapporto con l’archeologia. Un connubio indissolubile  che si stabilisce fin dal primo apparire della nuova tecnica: sia J.-L. Daguerre, inventore del dagherrotipo, sia W.F. Talbot, inventore della tecnica a sviluppo e del negativo in carta, percepiscono immediatamente l’importanza della fotografia non solo per la riproduzione di monumenti, oggetti d’arte e iscrizioni, e per la conservazione dei dati relativi al loro aspetto, ma anche per il modo di avvicinarsi ad essi e di studiarli. Boher analizza questo rapporto in quattro diversi capitoli che trattano la fotografia archeologica dalle origini a oggi come documentazione della realtà (cap. 1), come pratica nel concreto della campagna archeologica e del viaggio di esplorazione (cap. 2), come oggetto di archivio (cap. 3) e infine come base per lo studio scientifico (cap. 4).

Siamo nel 1839. Pochi mesi dopo l’annuncio della nascita della fotografia, i cinque continenti pullulano già di fotografi che applicano la nuova tecnica per documentare la realtà come essa è: questa è la promessa della fotografia, come annuncia già nel 1844 il titolo del volume di W.F. Talbot, The Pencil of Nature. L’immagine si crea sul supporto sensibile senza l’intervento mistificatore dell’uomo, la natura ritrae se stessa. Questa ingenua convinzione degli albori verrà presto smascherata: se l’uomo non produce fisicamente l’immagine, opera tuttavia una serie di scelte (soggetto, inquadrature, esposizione, per non parlare delle elaborazioni successive, in fase di stampa) che imprimono all’immagine la propria volontà e creano un documento che è altro dalla realtà che rappresenta.

La nascita della tecnica fotografica e i rapidi sviluppi che determinano nel volgere di pochi anni la riduzione dei tempi di posa, la possibilità di preparare precedentemente i supporti, la riduzione dell’ingombro degli strumenti di ripresa consentono di documentare in tempi in precedenza inimmaginabili architetture, scavi, sculture e reperti in ogni parte del globo. Nelle campagne di esplorazione il disegnatore viene sostituito – non immediatamente ma inesorabilmente – dal fotografo. La prima campagna di esplorazione archeologica a fare uso di apparecchiature fotografiche è la spedizione prussiana in Egitto condotta da Karl Richard Lepsius nel 1842-1843: sono passati appena tre anni dalla data di nascita ufficiale della fotografia.

La fotografia sostanzia il soggetto di una verità che il disegno e l’incisione, con la loro dimensione necessariamente mediata e quindi metafisica, concettuale o agiografica, non poteva avere. Ma forse ancor più che nella documentazione, la vera rivoluzione portata dalla fotografia in campo archeologico è, come mette in evidenza Boher, nell’archiviazione e nello studio. L’immagine fotografica consente di avvicinare oggetti lontani nello spazio, di confrontarli, di porli in serie, di praticare montaggi di parti separate dalle vicissitudini storiche o non più esistenti ed è in quanto tale elemento essenziale della metodologia archeologica.

La fotografia archeologica nasce, per così dire, già saggia, con criteri e regole che, una volta fissati, resteranno immutabili e che chiunque abbia partecipato ad uno scavo archeologico ben conosce: li individua chiaramente già W.M. Petrie nel suo Methods and Aims in Archaeology del 1904. StillmanInquadrature frontali o laterali, che descrivano il soggetto nelle sue diverse componenti e nelle sue articolazioni; minimizzazione delle ombre; assenza degli esseri umani e delle loro tracce; inserimento di un termine di confronto dimensionale; uso preferenziale del bianco e nero (a lungo contrapposto al colore, riservato alle riviste e alle pubblicazioni non di carattere scientifico)… E così via. Ma queste poche e inflessibili regole non rendono conto  dell’alchimia di queste visioni oniriche sospese in un tempo indefinito. Una delle loro cifre, l’assenza dell’uomo, ne rende impossibile, spesso, decifrare l’enigma della datazione.

Allora nuove e rivoluzionarie, allora prodigio della tecnica: neppure un secolo fa. Il passare del tempo ha trasformato queste fotografie stesse in “reperti” provocando un loro graduale, insensibile ma ormai avvenuto slittamento indietro, nel passato. Vestigia anch’esse di modi di vivere, di vedere, di approcciarsi alla realtà ormai desueti e inafferrabili. Il cielo color crema della stampa all’albumina al di sopra dell’Eretteo è lontano e muto quasi quanto il cielo di Pericle.