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In bianco e nero – La Pieve di Gropina

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Ormai il giorno sta per terminare, e piove, piove incessante e ostile, senza un attimo di tregua.

Non minaccioso, mai: il cielo è uniforme e bianco, senza profondità e senza violenza. Non si accanisce, ma come da una vasca troppo piena, inevitabile, la pioggia continua a riversarsi sulla nostra auto e sui nostri sopralluoghi.

Scorre sull’erba, come un fiume calmo, e proseguiamo a piedi, nonostante gli inviti a tornare indietro. Eppure, non vorrei essere altrove. L’ombrello da cacciatore di colui che ci conduce sul posto, di quelli grandi e verdi, di tessuto a trama un po’ larga, col manico che sembra sgrossato a mano, mi fa così tenerezza. Fragile e nodoso quest’uomo, come lo sono gli anziani. Un abbagliamento studiato nel dettaglio, e adatto al luogo e al clima, i suoi stivali di gomma, il berretto pesante: come retaggi di un passato che non può appartenergli più, come attaccamento al se stesso di un tempo.

E infatti, lui vorrebbe abbandonare l’impresa, ma siamo due e siamo determinate ad arrivare. Non vorrei essere altrove: ogni cosa mi sa di antico, di vecchie abitudini e di avventura. I miei gesti si fanno quasi meccanici. Mi basta stare qua, in un posto che non conosco, ad assaporare la pioggia.Melo giapponeseUna pioggia così, finisce con l’appiattire nella scala di grigi tutti i colori: resiste ancora un poco il rosa caldo dei meli giapponesi, unica macchia viva in un paesaggio come sotto incantesimo. Alla fine, ritornando verso Firenze, ormai all’imbrunire, compare lungo la strada, fra il verde argenteo degli olivi, la mole della Pieve di San Piero a Gropina.

Varcando la soglia, si allontana lo stillicidio della pioggia e con esso ogni rumore. L’incantesimo per cui siamo qui è così completo: l’interno della chiesa è silenzio, è in bianco e nero. Scende una luce diffusa dalle finestre strette e sottili, come feritoie, chiuse da lastre diafane di alabastro, innervato di calde tonalità brune. Non si capisce se sia ancora possibile respirare, in quest’aria densa eppure fredda.

Sarà vero che il nome del borgo, Gropina, deriva dell’etrusco Krupina? Certo è che questa pieve, eretta nel 1016, sorge sui resti di almeno altri due edifici, uno paleocristiano, risalente al V secolo, e uno longobardo, del IX, e che negli scavi eseguiti negli anni Sessanta del ‘900 durante il rifacimento della pavimentazione, sono emersi resti sicuramente di epoca romana.

Le pievi romaniche che si snodano come torri di avvistamento contro i pirati, lungo le pendici del Casentino, con la loro enigmatica antichità, sembrano ponti verso un passato ancora più remoto. Luoghi da sempre santi, di una sacralità innegabile e riconosciuta da una generazione dopo l’altra. Pieve di Gropina internoIn luoghi come questo, con la mente vuota e rimbombante, accendo sempre una candela, che resti ancora un po’ lì ad ardere danzando, quando me ne sarò andata.

Ogni capitello, diverso dai compagni, cerca di narrare una storia diversa, ma la sua voce è così arcaica, così lontana, così arcana, che sembra cantare una melodia senza suono. I codici figurativi che conosco sono spade senza filo e senza punta. Eppure cantano, la scrofa che allatta i piccoli, le sirene del pulpito, le aquile e i pesci e le onde in cui si rincorrono.

Non c’è simmetria, né prospettiva o profondità, in questi intagli di pietra che hanno il calore del legno, eppure ogni dettaglio di questo complesso mondo simbolico, che racchiude i segreti della fede, della vita e della morte, ha la raffinatezza estetica, la purezza, dell’alba del mondo.

Cantano per sé soli, perché non li comprendiamo, mentre due colonne si fondono in un abbraccio.PulpitoPieve di Gropina

La seconda volta – [Tre giorni in Cappadocia]

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Per chi voglia visitare la Cappadocia, Göreme è probabilmente il posto più comodo per fare base, visto che si trova praticamente al centro della regione, ed è collegato comodamente tramite dolmus alle altre cittadine: UçhisarÇavusinÜrgüp, Ortahisar, Avanos, Zelve, molte delle quali d’altra parte si possono anche raggiungere a piedi in giornata, distando pochi chilometri, magari prendendo un passaggio per il ritorno.

A lungo abbiamo esitato, nel programmare il viaggio, se andare davvero in Cappadocia, temendo di ricevere una grande delusione: dopo il primo incredibile viaggio ormai abbiamo elaborato una nostra personale idea platonica di Turchia, in cui la possibilità di condividere un paesaggio mozzafiato con orde di turisti russi in maglie fluo che scattano selfie con selfiestick (con tutto il rispetto, ma la poesia ne risente davvero) non trova facilmente posto.

Ma alla fine ci andiamo, in Cappadocia. Scegliamo, per puro spirito di contraddizione, e anche per mantenere basso il budget giornaliero in uno dei luoghi più turistici del paese, l’hotel più scrauso che sia possibile reperire su Booking.com. In questo non veniamo delusi affatto: la camera è circa sei metri quadrati, il letto è incastrato in una nicchia e stando sdraiato puoi aprire graziosamente la finestra con l’alluce. Il bagno – che pure è presente, per quanto incluso nei sei metri quadrati – è chiuso da una tenda da doccia, con buona pace della privacy.

Da qui possiamo partire per i nostri trekking improvvisati, dopo aver fatto sulla splendida terrazza la tipica colazione composta di pomodori e cetrioli, muniti di una cartina totalmente inadatta a rappresentare la complessità degli intrichi geologici della zona. L’incoscienza ci sospinge come sempre.CappadociaIl primo giorno ci dirigiamo decisi verso il Museo a Cielo Aperto di Göreme, patrimonio dell’Unesco, un complesso imperdibile di chiese, cappelle e monasteri scavati nella morbida roccia, collegati da scalette e affrescati. La coda irta di selfiestick che si presenta alla biglietteria ci convince in circa 5 secondi ad abbandonare il progetto. Dunque, che fare con la nostra ridicola cartina? Saltiamo semplicemente il guardrail, ci allontaniamo dalla strada lungo sentieri segnati nella sterpaglia, e via. Ci dirigiamo, seguendo da un certo punto – imprecisabile – in poi, improvvisati cartelli scritti con la bomboletta su cartone, verso la Valle delle Rose (Güllüdere), una delle mete indicate anche dalla Lonely Planet.

Se si vuole, una delle cose più assurde della Cappadocia è che le cittadine hanno una densità di bancarelle di ridicoli souvenir, ristorantini e pensioni che nemmeno la Riviera romagnola a Ferragosto, e le strade sono ingombre di torpedoni come S. Pietro la domenica mattina, però basta saltare il guardrail per entrare immediatamente in un’altra dimensione. Non importa inoltrarsi nella boscaglia per chilometri, bastano pochi metri per essere catapultati in uno dei paesaggi più incredibili che abbia mai visto.

Cappadocia 2In tre giorni, abbiamo camminato per circa venti chilometri al giorno, perdendoci continuamente e ritrovando la strada sempre, semplicemente, salendo più in alto e riorientandoci: Uçhisar arroccata sul suo pinnacolo come un castello di sabbia ha un profilo inconfondibile, ed è perciò il punto di riferimento per eccellenza della Cappadocia.

Sui sentieri che si inerpicano fra i camini delle fate e le intricate volute scavate dalle acque nella tenera roccia vulcanica, non troverai molte persone: c’è troppo caldo, e troppa polvere, evidentemente. Deve essere più comodo ammirare il paesaggio dalle mongolfiere, all’alba, e ritenere così di aver visto la Cappadocia. Cappadocia 3

Ogni valle ha le sue caratteristiche geologiche particolari, ed è perciò unica: ci sono quelle in cui i fianchi delle colline sono stondati, bianchi e soffici come nuvole di zucchero filato, e luccicano al sole in mezzo alle viti color smeraldo. In quelle valli non c’è polvere, c’è sempre un gran silenzio, e ci fermiamo a cogliere qualche ciocca d’uva e a mangiarla, pur temendo il classico arrivo del contadino imbelvito, perché abbiamo dimenticato di portare il pranzo.

Ci sono valli invece dai profili acuti e taglienti, tormentati, in cui strati di roccia rossa si sovrappongono a strati di roccia gialla. In quelle valli si cammina su uno strato spesso e finissimo di polvere morbida come talco, che finisce per colorarti i piedi di splendide nuance arcobaleno, sembra che non finiscano mai ed è davvero difficile orientarsi. Ti prende un po’ di sconforto, ti sembra di esserti perso definitivamente, ma poi avvisti in alto, in mezzo a due pinnacoli, un incongruo insieme composto da una tettoia di canne e un tappeto con intorno un divano e due poltrone: là c’è modo di riposare e di bere qualcosa.

C’è una valle (Valle dell’Amore – Görkündere) in cui enormi blocchi di pietra hanno protetto dall’erosione colonne altissime di sedimenti vulcanici, e ti chiedi come facciano ad essere ancora in piedi, così sottili e apparentemente fragili. In altre, in mezzo agli sterpi bruciati dal sole, improvvisamente appare un giardino verde e curato, e c’è un uomo che con la zappa arieggia il terreno intorno alle bietole.

Nella Valle dei Piccioni (Güvercinlik) incontriamo, del tutto inaspettato, un maestoso albero di gelso rosso, carico di more. Sono anni che non ne mangio e, per quanto possa temere l’ira funesta del contadino turco, non resisto, ne afferro qualcuna, le mani, le braccia, la maglia bianca si tingono di succo come fosse sangue: le more di gelso, ormai del tutto mature, si spaccano solo a sfiorarle. Allora mi metto sotto l’albero e stacco i frutti direttamente con i denti, e sanno di sole e polvere insieme quando esplodono in bocca. Ormai, se i passi che si sentono in avvicinamento sono quelli del suddetto contadino, sarà difficile dissimulare la malefatta: mi vedo già al posto di polizia di Göreme.
Cappadocia 4L’attesa del tramonto è un momento magico, sempre. Quando l’ora si avvicina, desidero sempre restare ferma dove mi trovo, e guardare il paesaggio, seppure immobile, cambiare a vista d’occhio al mutare delle ombre, percepire il momento preciso in cui davvero, indipendentemente dall’orologio, con l’inabissarsi del sole il giorno finisce.

E così abbiamo atteso il tramonto nella Valle di Zelve, seduti su un crinale, le ombre che si allungavano a complicare i già labirintici merletti di cenere vulcanica, il vento fresco che si alzava e l’ultimo autobus che partiva, lasciandoci da soli nel silenzio.Cappadocia 5Cappadocia 6

La seconda volta – [La fine del Ramazan nella Valle di Ihlara]

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IMG_8515_FotorAlla fine del Ramazan si celebra Șeker Bayrami, la Festa dei Dolci, tre giorni di festività con cui si conclude il mese del digiuno. È una di quelle occasioni da trascorrere rigorosamente in famiglia, e dunque la Turchia nei giorni precedenti all’inizio della festa ribolle di vitale fermento: tutti si spostano, tornano dalle città al paese d’origine, caricano sugli autobus a lunga distanza, o sui più domestici dolmus, bambini e anziani genitori per andare in visita dai parenti lontani, recando con sé monumentali pacchi di provviste e doni.

Abbiamo notato, in effetti, un certo andirivieni più intenso del solito, ma senza allarmarci eccessivamente; abbiamo viaggiato un po’ stretti ma niente più.

Poi, durante la festa il paese si ferma, come la bonaccia improvvisamente investe la superficie del mare al calare del vento. I negozi sono chiusi, i taxi non circolano, i dolmus dormono negli otogar. Ci dà questa informazione, come fosse un’inconfutabile rivelazione divina ma con un tono fra l’esterrefatto e l’incredulo per la nostra dabbenaggine, il proprietario dell’Akar Pansion di Ihlara, servendo un enorme vassoio fumante di saç tava: il giorno dopo non ci possiamo sicuramente muovere di lì. Il padre si affaccia dalla porta della cucina asciugando le mani nel grembiule, e annuisce gravemente, suggellando la profezia con un lampo degli occhi profondi, nascosti fra sopracciglia color neve sul volto asciugato dal sole.

Ma l’inconveniente sopraggiunto non ci farà modificare il nostro piano: il giorno dopo vogliamo essere a Göreme in Cappadocia, dopo aver percorso la Valle di Ihlara, e ci saremo. La camminata nella valle faceva già parte del programma. Vuol dire che invece di tornare a prendere gli zaini, ce li porteremo dietro, come le lumache portano il guscio. In fondo basta percorrere la valle per circa 14 chilometri per ritrovarsi a Selime, sulla strada per Aksaray, dove in qualche modo si dovrà pur fare.

IMG_8513_FotorLa Valle di Ihlara è già quasi Cappadocia, ma non ancora, incastonata e quasi nascosta com’è fra ripidi fianchi rocciosi, brulli e modellati dall’erosione, ma rasserenata dallo scorrere sul fondovalle del Melendiz Suyu, che crea una inaspettata oasi verde, distendendosi con le sue acque fresche e scintillanti, su cui si allungano come lunghissimi capelli ciuffi di alghe, danzanti nella corrente. La osserviamo dall’alto al calare del sole, mentre una mandria di vacche rosse e stanche, visione campestre di infinita malinconia, incrocia il nostro cammino, e ci sembra in fondo una cosa fattibile.

La mattina successiva, zaino in spalla, ci inoltriamo nella valle deserta. Come ci era capitato altrove l’anno precedente, si ripete l’incanto della biglietteria chiusa e sguarnita, i cancelli aperti, e con un misto di timore reverenziale e di incredulità iniziamo a scendere i ripidi gradini che conducono presto al sentiero di fondovalle, dove gorgoglia il fiume. Quella discesa conduce in una dimensione nuova, ammantata di silenzio austero e potente.

Chiese rupestriSui fianchi riarsi della montagna, apparentemente morbidi come nuvole di zucchero filato, fra i massi erratici che sembrano quasi compagni di viaggio, si aprono carichi di promesse gli ingressi delle chiese rupestri, dai nomi poetici ed evocativi, la Kokar Kilise, la Yilanli Kilise, la Sümbüllü Kilise: la Chiesa Profumata, la Chiesa del Serpente, la Chiesa dei Giacinti. Riecheggiano di storie perdute e incomprensibili, da inventare di nuovo, sempre diverse, una storia per ogni viaggiatore che vi giunga all’interno. Tutte ti accolgono con la stessa penombra lacerata da qualche polverosa striscia di sole, che appena lambisce gli affreschi dai vivaci contrasti.

Teorie di ieratici santi, dagli occhi vuoti e cancellati dalla parentesi iconoclasta, ma di cui si indovinano ancora i tratti volitivi segnati da pennellate compatte, si allineano sulle pareti silenziose, campite di tappeti geometrici che si distendono a coprire ogni angolo. Quella roccia che all’esterno, alla luce del sole, si modula semplicemente nelle tonalità dall’arancio al rosso al bruno, è che come se scavandola avesse liberato un mondo nuovo di colori e figure.Il fiume Melendiz SuyuQuesto silenzio surreale accompagna tutto il percorso: sembra uno di quei giorni in cui l’umanità si è nascosta e la natura è rimasta da sola. Di lontano, volteggia una piccola colonia di rapaci attraverso la stretta striscia di cielo racchiusa fra le cime delle colline. Sembra quasi sacrilego avventurarsi, e il viaggiatore si sente osservato.

Sulla sponda del fiume ci sediamo a consumare frutta secca e acqua prima di riprendere il cammino. I fianchi delle montagne si avvicinano, il fiume scivola in mezzo, basta continuare a seguirlo. Infine, nel pomeriggio ormai inoltrato, il respiro della valle si dilata e ci troviamo al termine del percorso, si scioglie l’incanto nelle voci delle persone che finalmente ricominciamo ad incontrare sul sentiero.

A Selime, come ci era stato predetto davvero non ci sono mezzi.

Per la prima – e unica – volta in Turchia, proviamo la sensazione, con i nostri zaini che denunciano chiaramente il nostro status di stranieri, di essere prede. Ci si avvicinano più persone, a turno, che offrono un passaggio in cambio di soldi, dicendo che tanto non troveremo un modo diverso per muoverci quel giorno. Quando cerchiamo un passaggio sui pulmini turistici, gli autisti ci mettono i bastoni fra le ruote e si rifiutano di farci salire, accampando problemi di assicurazioni e controlli, ridicoli per noi che abbiamo viaggiato seduti nei corridoi degli autobus e nei cofani posteriori dei taxi. Ma in effetti, camminando lungo la strada e provando ad alzare il pollice, la macchine che sfrecciano in direzione di Aksaray rispondono suonando il clacson, gli uomini alla guida alzano le spalle e allargano le braccia, tutte le vetture sono colme di nonni nipoti e animali domestici in corsa verso casa, verso la festa.
IMG_8517_FotorQuando ormai, passate alcune ore di inutile autostop, ci stiamo rassegnando, si fermano due ragazzi su una macchina rossa, musica a palla e finestrini completamente abbassati. Una cabrio, praticamente. Loro, vestiti di jeans attillati e camicie squillanti che dovrebbero essere alla moda, ma ti proiettano invece in una serie tv d’infima categoria. Ci fanno cenno di salire e partono lanciati come folli. Non parlano altra lingua eccetto la loro, non ci parlano ma non parlano nemmeno fra di loro.

Più volte, osservando le nude colline sfrecciare ai lati della macchina e a tratti il tachimetro che segna costante fra i 100 e i 120 km/h, mi chiedo se la mia vita non dovrà finire in un avventato sorpasso mediorientale. Ma poi questi enigmatici ragazzi ci porteranno davvero dove ci hanno detto che stanno andando? Non poter guardare in faccia due persone che ti portano in auto e non ti parlano ha un che di poco rassicurante. Gli incontri del pomeriggio hanno lasciato uno strascico amaro.

Arriviamo infine ad Aksaray, e la tensione inizia a sciogliersi quando di nuovo possiamo guardarli in viso: sorridono, rifiutano decisamente qualsiasi cosa per il passaggio, ripartono in una nube sonora che non si è mai interrotta, verso quel loro misterioso impegno che li ha condotti sulla nostra strada, e che resto con la curiosità di conoscere. Prendiamo l’ultimo autobus per Nevsehir, da dove si diparte la ragnatela dei percorsi della Cappodocia. Ci sediamo nell’ultimo sedile, stanchi e ancora silenziosi. Piano piano il dolmus si riempie.

Un ragazzino dal braccio ingessato e fermato al collo con un fazzoletto, poco dopo la partenza si alza dal suo posto a fianco della mamma e ci si siede accanto. Ci osserva, a lungo, incuriosito. Occhi scuri luccicanti come stelle sotto la frangetta nera. Infine rompe il silenzio, col suo coraggio di bambino. Parla per due ore, fa domande, ascolta attento le risposte perché vuole sapere molte cose, un dialogo in lingue eterogenee guidato dalla luce degli occhi.

Dire i numeri con le dita è la cosa più semplice del mondo, e se troviamo un argomento che contenga dei numeri si può parlare così per ore. Così ci dice quanti anni ha lui, otto, quanti ne hanno la mamma e le sorelle che viaggiano anche loro sull’autobus, quanti ne hanno tutte le persone che conosce. Si è rotto il braccio andando in bicicletta, anche questo è semplice da spiegare. Ma un’altra cosa facile da dire è il nome dei luoghi, e così dice i nomi dei paesi che attraversiamo, dei paesi che vediamo lontano sulle colline, di quelli a cui conducono le strade che incrociamo. È facile anche dire il nome delle persone, e quindi ci chiede il nostro, ci dice il suo, ci presenta tutti coloro che siedono nell’autobus, quando scendono e quando salgono.

Quando infine arriva alla sua fermata, scrivo sulla cartina, in corrispondenza del suo paese, Acigöl, un puntino vago sulle strade della Cappodocia, senza stelline a contrassegnare qualcosa di notevole da vedere, il suo nome. Mustafa. Allora davvero ci rilassiamo sui sedili, ci guardiamo e i nostri occhi sono bagnati di commozione: sottovoce, ci diciamo che tutti i momenti di quel giorno ci hanno portato lì, e gli occhi luminosi di Mustafa che saluta con la mano, incorniciato nel finestrino, hanno già cancellato le sensazioni spiacevoli delle ultime ore.IMG_8516_Fotor


La seconda volta era nel luglio 2014

15_Neil MacGregor, “La storia del mondo in 100 oggetti”

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Storia del mondo in 100 oggettiNel 2010 la BBC propone a Neil MacGregor, Direttore del British Museum dalle notevoli doti di comunicatore e protagonista di una strepitosa rinascita dell’istituzione da un passivo di milioni di sterline, di partecipare a una trasmissione radiofonica in cui gli viene richiesto di parlare in pochi minuti di 100 oggetti rappresentativi selezionati fra le collezioni del museo londinese, uno al giorno per 5 giorni a settimana, per 20 settimane.

L’iniziale perplessità di MacGregor viene respinta con disarmante semplicità dalla popolare emittente. No, non è un problema parlare di cose che chi ascolta non può vedere, anzi: in questo modo ogni ascoltatore potrà formarsi una sua personale visione dell’oggetto di cui sta seguendo la storia, facendo volare la propria fantasia trasportata dalla magia evocativa delle parole. Il programma ottiene un successo inaspettato e straordinario, da cui scaturisce l’idea per questo affascinante libro.

A ciascun oggetto, illustrato in genere da una, talvolta da due fotografie (di altissima qualità), viene dedicato un testo sintetico e pregnante, di circa 5 pagine. Una pillola breve ma intensa che riassume la sua storia in relazione alla storia mondiale: l’epoca e il contesto in cui è stato prodotto, la sua finalità e i messaggi che poteva veicolare ai contemporanei, il modo in cui culture diverse lo hanno interpretato o usato nel corso del tempo, il motivo per cui è stato perduto o sepolto, la sua riscoperta e il suo significato nel mondo attuale. Partendo da semplici oggetti, siano capolavori celebri come il busto di Ramses II che ispirò la celebre poesia Ozymandias di Shelley o pietre miliari per il loro valore storico, come la stele di Rosetta, o ancora oggetti assolutamente banali in sé, come i cocci di ceramica raccolti su una spiaggia della Tanzania, MacGregor fornisce da vero affabulatore un magistrale saggio di divulgazione storica, intrigante quanto scarno e privo di facile prosopopea, un affresco di ampio respiro della cultura umana dal chopper di Olduvai, uno dei primi prodotti in cui 2 milioni di anni fa si esprime la creatività umana, fino alla lampada solare prodotta in Cina nel 2010.

Un libro da tenere sul comodino e leggere uno o due capitoli alla volta, riflettendo, ricomponendo man mano un mosaico fatto di tessere collegate da fili sottili che legano le epoche e le diverse parti del mondo in una rete di relazioni potenzialmente infinita, che si diramano nello spazio, attraverso le vie di comunicazione, e nel tempo, segnate dai passaggi di mano che gli oggetti subiscono e da cui scaturiscono sempre nuovi significati. Un esercizio salutare: nel volume la storia dell’Europa, che siamo abituati dai nostri programmi scolastici a considerare in una prospettiva centrale e centripeta, è solo una parte in mezzo a tante di questo insieme multiforme e caleidoscopico, in cui da una storia ne scaturiscono sempre di nuove come nel racconto de Le Mille e una notte.

100 oggetti per ricostruire la storia del mondo

La seconda volta – [Egirdir e Sagalassos, città antiche e moderne incastonate fra le vette]

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EgirdirArriviamo a Egirdir in un tramonto rarefatto, quando la montagna distende il suo vasto corpo stanco sull’acqua madreperlacea. Egirdir è uno smilzo funambolo sospeso sulla superficie senza onde, legato ancora alla sponda da un nastro sottilissimo ma ormai sul punto di sciogliersi per permettergli di iniziare il volteggio. È un fanciullo in calzamaglia verde che esegue il suo numero per la corte delle vette millenarie, su cui domina di lontano il turrito Davraz Daği.

Un paesaggio pacato, senza suono, senza eccessi, in cui l’apparente immobilità del quadro è il risultato di innumerevoli minutissimi moti: il granchio che si lascia lambire sulla battigia, la foglia che plana roteando senza peso, il sasso che canta sommesso quando il respiro del lago si ritira.

Forse ancor più della prima volta, questa seconda volta in Turchia non posso raggiungere una meta senza immaginarne infinite altre. Quante città perdute in mezzo a queste grandi montagne, quanti sentieri, quante gole ombrose e quante assolate pietraie. Come lo sguardo, volgendosi intorno ad interrogare il perimetro del lago, così anche il pensiero, instancabile, cerca di spingersi sempre oltre, come ad accarezzare almeno tutto ciò che non riesce a possedere. Ogni partenza non può essere che un arrivederci.

SagalassosDi città in città, da un otogar all’altro, si rivelano infiniti insondabili spazi inabitati, deserti, regno della capra e del rettile. Ma non si può escludere che un tempo questo paesaggio non fosse profondamente diverso. Ci sono città accuratamente nascoste sui fianchi delle montagne, dai nomi fantastici ad evocativi.

Su un altopiano dell’Ak Dağ, la Montagna Bianca, andiamo ad incontrare la pisidia Sagalassos, che forse già si cela dietro la Salawassos menzionata nelle tavolette ittite, più di tremila anni fa. Ad inafferrabile altezza, fra 1400 e 1700 metri sul livello del mare, i marmi bianchi distesi a scaldarsi fra gli arbusti spinosi rappresentano un immenso rompicapo archeologico. Ci saranno state risorse a giustificare la grandezza di questa città, ci saranno state strade e motivi per arrivarvi, per raggiungerla dopo un cammino certo faticoso: non solo la maestosa bellezza del luogo.

Bellezza, che parola abusata e logora. Ne detesto ormai il suono, trasformato in stolido vessillo promozionale, così facile e di sicuro effetto. Eppure sotto il bagliore accecante del sole è complicato trovare un altro termine che riassuma i contrasti violenti dei colori, la forza della roccia, la purezza dell’aria e l’enormità dell’abbraccio di cielo e terra in cui ci troviamo stretti.

Sacro. Forse, la parola sacro mi piace di più. In bilico con le spalle alla montagna e il volto esposto al vento che sale dalle gole montane, penso a Delfi, al respiro sotterraneo che emerge dal profondo. Penso alle incisioni rupestri che nella Valle delle Meraviglie, sulle Alpi Marittime, omaggiano il Monte Bego da tempi immemorabili. Penso alla danza dei dervisci, un palmo rivolto al cielo e uno alla terra. Anche Sagalassos in mezzo alle montagne potrebbe roteare così, selvaggia e primordiale.

Alessandro Magno e gli imperatori romani adornarono di merletti di marmo queste solitudini. Quando ripetute serie di terremoti ne ebbero ragione, nel VII secolo della nostra era, semplicemente la città fu abbandonata, senza rimpianti forse, lasciando indietro i complicati intrecci e i sapienti lavori di trapano e scalpello. Mentre altrove le città crescono una sull’altra, o servono da cava per gli insediamenti futuri, in Pisidia sotto la cupa vegetazione le colonne, gli architravi, i fregi scolpiti giacciono come castelli di carte atterrati per scherzo dal soffio di un bambino, che attendono solo, con altrettanta grazia, di essere risvegliati per nuovi giochi.

Ninfeo di SagalassosNinfeo di Sagalassos


La seconda volta era nel luglio 2014

2_Frederick N. Boher, “Photography and Archaeology”

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boherDa quando ho memoria avverto il profondo richiamo del passato, in tutte le sue forme: è una malia da cui è assai difficile guarire, come sanno tutti quelli che la inseguono fino a farne una professione, come gli storici e gli archeologi; un filtro che pervade il presente e il modo di percepire la realtà.

Le fotografie storiche sono una delle sirene al cui canto l’ammaliato non si può resistere. Quella carta ingiallita dal passare del tempo, le macchie che denunciano le vicende che hanno passato e i luoghi che hanno attraversato, gli sguardi delle persone fissati in un attimo ormai trascorso, che ci osservano da profondità incommensurabili. Nei mercatini dell’usato e dell’antiquariato capita di trovarne: chi è specializzato in questo genere le propone spesso ordinate in raccoglitori, suddivise per tematiche o per epoche, così depotenziate e quasi innocue. Più spesso accade di vederne gettate alla rinfusa in qualche vecchia valigetta, in mezzo a flaconi da farmacia in vetro e a rocchetti di filo da cucito, testimoni muti di vite ormai senza nomi, senza legami, prossime a dissolversi. Non ne ho mai acquistate: mi affascinano, ma anche mi inquietano. No, non vorrei portare con me, nella mia casa, questo fardello di vite trascorse.

Il volume di F.N. Boher, elegante e curatissimo, ricco di strepitose illustrazioni, tratta un aspetto particolare della storia della fotografia: il suo rapporto con l’archeologia. Un connubio indissolubile  che si stabilisce fin dal primo apparire della nuova tecnica: sia J.-L. Daguerre, inventore del dagherrotipo, sia W.F. Talbot, inventore della tecnica a sviluppo e del negativo in carta, percepiscono immediatamente l’importanza della fotografia non solo per la riproduzione di monumenti, oggetti d’arte e iscrizioni, e per la conservazione dei dati relativi al loro aspetto, ma anche per il modo di avvicinarsi ad essi e di studiarli. Boher analizza questo rapporto in quattro diversi capitoli che trattano la fotografia archeologica dalle origini a oggi come documentazione della realtà (cap. 1), come pratica nel concreto della campagna archeologica e del viaggio di esplorazione (cap. 2), come oggetto di archivio (cap. 3) e infine come base per lo studio scientifico (cap. 4).

Siamo nel 1839. Pochi mesi dopo l’annuncio della nascita della fotografia, i cinque continenti pullulano già di fotografi che applicano la nuova tecnica per documentare la realtà come essa è: questa è la promessa della fotografia, come annuncia già nel 1844 il titolo del volume di W.F. Talbot, The Pencil of Nature. L’immagine si crea sul supporto sensibile senza l’intervento mistificatore dell’uomo, la natura ritrae se stessa. Questa ingenua convinzione degli albori verrà presto smascherata: se l’uomo non produce fisicamente l’immagine, opera tuttavia una serie di scelte (soggetto, inquadrature, esposizione, per non parlare delle elaborazioni successive, in fase di stampa) che imprimono all’immagine la propria volontà e creano un documento che è altro dalla realtà che rappresenta.

La nascita della tecnica fotografica e i rapidi sviluppi che determinano nel volgere di pochi anni la riduzione dei tempi di posa, la possibilità di preparare precedentemente i supporti, la riduzione dell’ingombro degli strumenti di ripresa consentono di documentare in tempi in precedenza inimmaginabili architetture, scavi, sculture e reperti in ogni parte del globo. Nelle campagne di esplorazione il disegnatore viene sostituito – non immediatamente ma inesorabilmente – dal fotografo. La prima campagna di esplorazione archeologica a fare uso di apparecchiature fotografiche è la spedizione prussiana in Egitto condotta da Karl Richard Lepsius nel 1842-1843: sono passati appena tre anni dalla data di nascita ufficiale della fotografia.

La fotografia sostanzia il soggetto di una verità che il disegno e l’incisione, con la loro dimensione necessariamente mediata e quindi metafisica, concettuale o agiografica, non poteva avere. Ma forse ancor più che nella documentazione, la vera rivoluzione portata dalla fotografia in campo archeologico è, come mette in evidenza Boher, nell’archiviazione e nello studio. L’immagine fotografica consente di avvicinare oggetti lontani nello spazio, di confrontarli, di porli in serie, di praticare montaggi di parti separate dalle vicissitudini storiche o non più esistenti ed è in quanto tale elemento essenziale della metodologia archeologica.

La fotografia archeologica nasce, per così dire, già saggia, con criteri e regole che, una volta fissati, resteranno immutabili e che chiunque abbia partecipato ad uno scavo archeologico ben conosce: li individua chiaramente già W.M. Petrie nel suo Methods and Aims in Archaeology del 1904. StillmanInquadrature frontali o laterali, che descrivano il soggetto nelle sue diverse componenti e nelle sue articolazioni; minimizzazione delle ombre; assenza degli esseri umani e delle loro tracce; inserimento di un termine di confronto dimensionale; uso preferenziale del bianco e nero (a lungo contrapposto al colore, riservato alle riviste e alle pubblicazioni non di carattere scientifico)… E così via. Ma queste poche e inflessibili regole non rendono conto  dell’alchimia di queste visioni oniriche sospese in un tempo indefinito. Una delle loro cifre, l’assenza dell’uomo, ne rende impossibile, spesso, decifrare l’enigma della datazione.

Allora nuove e rivoluzionarie, allora prodigio della tecnica: neppure un secolo fa. Il passare del tempo ha trasformato queste fotografie stesse in “reperti” provocando un loro graduale, insensibile ma ormai avvenuto slittamento indietro, nel passato. Vestigia anch’esse di modi di vivere, di vedere, di approcciarsi alla realtà ormai desueti e inafferrabili. Il cielo color crema della stampa all’albumina al di sopra dell’Eretteo è lontano e muto quasi quanto il cielo di Pericle.

Là dove il cerchio si chiude

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Istanbul 2All’arrivo, all’aeroporto Sabiha Gokcen di Istanbul, mi sembrò chiaro che non eravamo affatto preparati: non sapevamo nemmeno in che fuso orario ci trovavamo rispetto all’Italia. Beh, sì, avevo letto, ma distrattamente, i passaggi più importanti della guida Lonely Planet, almeno per quanto riguardava quelli che sarebbero stati i nostri primi momenti su suolo turco. Avevo quindi pressappoco in mente dove andare a prendere un mezzo pubblico per spostarci verso il Bosforo e l’otogar di Harem, da dove volevamo partire per Bergama, ma l’impatto linguistico fu straniante, e per un attimo pensai: non ce la possiamo fare. Ci siamo fatti trasportare dagli eventi, e abbiamo preso un mezzo del tutto sulla fiducia, seguendo le incomprensibili indicazioni del bigliettaio del chiosco davanti all’aeroporto. E invece superato quel primo impatto, e preso quel primo autobus per Kadiköy, ogni cosa avrebbe preso il verso giusto. Leggi il resto di questa voce

Scoprire l’intruso nel Giardino del Museo Archeologico di Firenze

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Non sono poche le meraviglie, botaniche e non, custodite dal Giardino del Museo Archeologico di Firenze: un tesoro di natura e storia nel cuore della città, che è possibile ammirare tutti i giorni infilando agilmente il naso nell’inferriata che borda il tratto di via della Colonna più vicino a piazza Santissima Annunziata, oppure in modo decisamente più consono il sabato mattina, quando – a meno che non ostino particolari problemi tecnici o meteorologici – è aperto al pubblico.

Si potrà allora passeggiare per i vialetti ripercorrendo le diverse tappe dello sviluppo dell’architettura etrusca nel tempo, dalle tombe a pozzetto villanoviane alle sepolture a camera di epoca ellenistica, e nello spazio, con esempi monumentali provenienti da Veio, Tarquinia, Orvieto, Volterra. Personalmente, amo molto la ricostruzione della Tomba Inghirami di Volterra: trovo sempre commovente lo spettacolo offerto da questo straordinario complesso, con le urne cinerarie dei membri di un’unica famiglia deposte all’interno della sepoltura nell’arco di tre secoli, corrispondenti a ben sei generazioni, che sembrano riuniti in un simposio eterno. E ancora di più amo la scabrosità della pietra vulcanica accarezzata dal tramonto delle due tombe provenienti dalla necropoli del Crocefisso del Tufo di Orvieto, ricoperte da una morbida cascata di edera e di capperi.Giardino museo archeologico (6) (Medium)

Giardino Museo Archeologico (1)Unici elementi “fissi” di questo singolare frammento di paesaggio urbano, le tombe sono immerse nel flusso continuo delle stagioni: alla superficie ghiacciata della grande vasca in inverno succedono le fioriture primaverili, all’aria stanca e sospesa dell’estate i dolci colori autunnali. Le architetture restano lì immobili, a farsi accarezzare del trascorrere del tempo, accogliendo ogni mese che passa e congedandolo al suo volgere, e accettano incessantemente questa rivoluzione continua e silenziosa.

Lo scorso anno ho fotografato compulsivamente la fioritura delle magnolie, che riempiva le fronde ma si distendeva anche ai piedi degli alberi, formando un immenso tappeto specchio nei toni del rosa e del bianco. I petali carnosi adagiati nell’erba fresca sembravano chiamarti a togliere le scarpe e camminare a piedi nudi su questo pavimento intarsiato e prezioso.Giardino Museo Archeologico (2)

Questa primavera mi hanno incantato le pansè, un fiore che non ho mai amato particolarmente a dire la verità, con quei petali troppo delicati e facili a stropicciarsi, ma forse solo perchè non l’ho mai osservato bene prima. Chi l’ha inventate era un genio: perchè ci vuole veramente del genio per accostare così il viola e il giallo, il bordeaux ed il bruno, il rosa e il cremisi, e farli digradare rapidamente ma insensibilmente l’uno nell’altro.Giardino museo archeologico (2) (Medium) Giardino museo archeologico (3) (Medium) Giardino museo archeologico (4) (Medium)Poi è stato il momento delle azalee, coltivate in grandi conche di terracotta, degli iris, che inalberano orgogliosamente i loro vessilli nelle bordure lungo il muro, delle rose antiche che ancora in questi giorni profumano di dolci note agrumate.Giardino museo archeologico (5) (Medium)In mezzo a questo incessante tripudio di piante, scelte in genere fra quelle proprie della tradizione medicea e fiorentina, forse pochi notano quello che considero un vero e proprio intruso: un canutissimo Cereus peruvianus v. monstruosus, dalle dimensioni davvero ragguardevoli, soprattutto considerando il fatto che non è coltivato in terra, come si potrebbe anche fare visto che ci troviamo in un giardino, ma in una piccola conca, fra il muro del Museo Topografico e la camera funeraria del Tumulo del Diavolino di Vetulonia. Narra la leggenda che sia stata portata qua, già non piccolissima, da un qualche custode, in un momento di cui non si conserva memoria.

Sono anni che osservo discretamente questa pianta, talvolta con una certa apprensione. La parte terminale del fusto ha sofferto già in passato per qualche gelata, e si presenta in più punti annerita, come se fosse bruciata: ma è una pianta dalla pelle dura, una vera guerriera, un’amazzone, che non riceve altra acqua in estate che quella delle piogge, e che rimane sottoposta alle intemperie d’inverno: non si potrebbe fare diversamente, viste le dimensioni e la posizione in cui si trova.

Se la cava egregiamente, a dire il vero. Tuttavia, negli ultimi tre anni non era mai fiorita. Lo ha fatto una notte di quest’ultimo agosto, e ho avuto la fortuna di scoprire il fiore subito la mattina successiva, visto durano davvero pochissimo: un immenso fiore bianco, dai petali leggermente frangiati, che si sviluppa da un lungo imbuto verde. In questo modo, il centro della corolla diventa il punto più affascinante del fiore, con il suo colore fresco e mattutino, circondato da un fascio di stami bianchi carichi di polline, su cui gli insetti erano già al lavoro alle sette del mattino. Ora che ho avuto la soddisfazione di vederlo in fiore, mi resta solo la curiosità di sapere di più sulla storia di questo Cereus, perchè immagino che deve averne viste di cose… Da dove viene? Chi l’ha portato qui e quando? Chissà che prima o poi non trovi le risposte a queste domande…
Cereus peruvianus 1 (Medium)
Cereus peruvianus 2 (Medium) Cereus peruvianus 3 (Medium) Cereus peruvianus 4 (Medium)

Turchia on the road 10 (congedo)

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Siamo giunti al termine di questa avventura, e ci congediamo dalla Licia trascorrendo una giornata a Phaselis, una di quelle giornate folgoranti, con il cielo di un azzurro intenso e il mare liscio e pacificato come mai ci è apparso nelle settimane precedenti. Phaselis è un antico porto, sviluppato su tre insenature naturali che dovevano fornire un approdo sicuro e anche piacevole, direi! Le rovine di edifici, banchine, strade e acquedotti sono disseminate in mezzo ad un bosco di pini, dal verde brillante, che diffondono un aromatico profumo.

Le scale degli approdi affondano pigramente nell’acqua vitrea, e ci lasciamo contagiare dal ritmo e dal fluire delle onde. Basta non affacciarsi alla prima delle tre baie, che lì ci sta la masnada furente vomitata da barconi pesantemente kitch, inspiegabilmente propensa a non allontanarsi in cerca di un po’ di pace. Ma noi siamo davvero stanchi, dopo quasi due settimane di galoppate, e quindi per questa volta diamo solo un’occhiata superficiale al sito invece di schiacciarci quelle quattro-cinque ore come siamo soliti fare, e ci concediamo qualche ora di relax sulla spiaggia.

Phaselis (1) Phaselis (3)Che poi è il caso di dirlo, il sito arriva direttamente sulla spiaggia, dove si affacciano mausolei e sarcofagi, esposti dalle mareggiate in un perfetto esempio didattico di stratigrafia archeologica che ci si potrebbe fare il matrix in un nanosecondo. Un ultimo sarcofago giace sul fondo marino, a pochi metri di distanza dalla battigia. Immagino un paradiso degli archeologi che prendono allegramente il sole compilando schede US e scavano con la trowel stando comodamente sdraiati sull’asciugamano…
Phaselis (1) Phaselis (2)Poco dopo, avremmo preso un dolmus per Antalya, e da lì saremmo tornati a Istambul. Al termine del viaggio, abbiamo calcolato che in tutto abbiamo percorso più di 2000 chilometri, ripartiti fra 3 traghetti, 6 autobus urbani e 4 extraurbani, 3 tram, 39 dolmus, 7 passaggi in auto, 4 tratte in bicicletta e innumerevoli chilometri a piedi…

Ma non mi sento sazio di questo paese, e per il prossimo anno mi scopro già a sognare l’Anatolia centrale e la Cappadocia, il Mar Nero e il Lago di Van, il Nemrut Dag e l’Ararat. E anche per la Licia, non mi sento di dirle addio ma solo arrivederci…

Turchia on the road 9 (dall’acquoreo mondo di Olympos al fuoco di Chimera)

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A giudicare dalla descrizione della guida, Olympos era uno di quei luoghi da non perdere, ma in verità devo dire che non mi attirava davvero, e di certo non mi attiravano le famose case sull’albero, che mi puzzavano clamorosamente di acchiappabischeri (detto in gergo tecnico). Ovvero della solita roba che attira gente giusto perchè “non puoi non andarci”, e ti ritrovi in men che non si dica in una mandria amorfa guidata dopo vogliono altri. Sarò prevenuto, lo so, ma quando ciò che è spontaneo viene cristallizato nel must, sento sempre puzza di bruciato.

E così traccheggiavo, nel decidere una delle ultime tappe del viaggio, senza sapere il da farsi.Olympos (2) (Medium)

Ma quello che ci ha convinti ad andare davvero ad Olympos è stato come sempre l’improvviso e l’imprevisto. Ad Ucagiz il nostro solerte albergatore ha sostanzialmente deciso che avremmo dovuto lasciare il paese (una sorta di isola spazio-temporale collegata solo due volte al giorno con il mondo reale) non tramite autostop come noi insistevamo a voler fare, ma insieme ad un trio di altri ospiti, automunito e composto da un italiano, una belga ed una francese (e non è l’incipit di una delle solite barzellette anni ’80). E insomma tanto ha fatto e tanto ha brigato che alla fine Stefano ci ha invitati a salire con loro: pensavamo che ci avrebbero accompagnato fino alla statale e invece il viaggio si è prolungato fino ad Olympos, ed è stato davvero piacevole. Stefano ci ha descritto in toni entusiastici Olympos, ed essendo un antichista ci siamo fidati.

E quindi, un ayran e un caffè turco dopo (ma ve l’ho detto cos’è l’ayran? noooo?! incredibile), ci siamo trovati coi nostri zaini alle soglie di Olympos, che abbiamo raggiunto con il solito dolmus, dribblando l’immenso campeggio di case sull’albero e guadagnando con sollievo il sito archeologico. Abbiamo deciso di tentare l’impresa, e di raggiungere la tappa successiva, Cyrali, passando dalla spiaggia e non tornando sulla statale e poi ridiscendendo nella valla successiva. Zaino in spalla dunque!

E sì: Olympos è proprio bella, è un mondo acquoreo e silvano, in cui il mistero delle architetture antiche, divorate dagli alberi e circondate da innumerevoli rivoli di acqua cristallina, rimane pressochè imponderabile. Il fiume attraversa il sito in tutta la sua lunghezza, e per compiere la visita è necessario guadarlo più volte, fra la morbidezza delle alghe e la compagnia dei girini e dei granchi, mentre finestre cieche da secoli ti scrutano sulle rive, rinfrescate dalla vicinanza dell’acqua.

In mezzo alle foglie, ci sono cartelli redatti forse in un tempo in cui si pensava di strappare alla natura questo luogo, e che indicano ottimisticamente le terme, il teatro, le diverse necropoli. Ma il muro di foglie sembra impenetrabile. Se decidi di perderti un po’ nel labirinto, troverai lacerti di muri di epoche diverse, sarcofagi divelti dalle radici, e la cavea del teatro dove solo gli arbusti attendono forse che la rappresentazione abbia inizio.

Il senso sfugge tuttavia. Perchè anche se il cartello ti dice che ti trovi nelle terme romane, non c’è niente che confermi davvero questa informazione, e Olympos sembra un’immensa metafora della nostra conoscenza dell’antichità: che se una radura permette di vedere un incerto muro, tutto il resto rimane sepolto fra i tronchi. E pensi a tutto ciò che non sapremo mai, di questi mondi che pure ci sembra di conoscere tanto bene, ed in effetti conosciamo bene, a confronto di tanti altri: i canti, le decorazioni delle stoffe, le bisacce di pelle e i mestoli di legno.Olympos (3) (Medium) Olympos (4) (Medium)

La gente, per lo più, utilizza il percorso del fiume per arrivare alla spiaggia, e pochi avvertono il richiamo e si perdono nel bosco. Eppure, basta seguire i mille ruscelli che lo percorrono, non c’è rischio di perdersi. Abbiamo appoggiato i nostri zaini contro un tronco, abbiamo immerso i piedi nell’acqua fredda e limpidissima, accanto al muro di un recinto funerario, osservando nello specchio ondulato la traiettoria di una libellula di un incredibile colore viola.

Ecco, la luce dorata che si sprigionava fra il verde delle foglie e l’azzurro dell’acqua, e il sapore del gozleme che un’anziana signora ci aveva fatto alla fermata del dolmus e che abbiamo assaporato in quell’improvvisato bivacco, fanno parte dei ricordi indimenticabili di questo viaggio. Insieme alla sensazione di poter fare tutto. Eravamo liberi, la nostra casa sulle spalle come le lumache, le nostre provviste nella borsa, i nostri piedi a portarci dove volevamo: potevamo tornare indietro, andare avanti, fermarci per un tuffo in mare, non aveva importanza quanti chilometri avevamo già percorso quel giorno, e quelli che ancora ci aspettavano prima della fine della giornata.Olympos (1) Olympos (2)

Perchè la giornata era ancora lunga, e ci avrebbe portato dalle acque di Olympos ai fuochi di Chimera. Attraverso la lunga spiaggia che le collega abbiamo raggiunto Cyrali, per poi proseguire in un percorso infinito in mezzo ai campi, mangiando fichi colti dagli alberi e uva semiselvatica scovata in mezzo ai rovi, fino alla nostra pensione.

L’ascesa alla Chimera avviene di notte, quando il fenomeno dei fuochi che scaturiscono dalla terra è osservabile con maggiore facilità. Io non ho capito come avviene, che cosa avviene di preciso e perchè. Però il monte emette lingue di fuoco, in un luogo alieno che è terra di nessuno: un’arida spianata sotto la luna, circondata da ulivi, che lascia poi spazio ad un ripido pendio digradante in mezzo ai pini profumati fino al mare. Ci sediamo accanto ad un fuoco, ne osserviamo la danza. Possiamo fare tutto.Chimera