L’avvicinamento ad Ankara, dai finestrini dell’autobus, è un passaggio repentino dalle sconfinate e solitarie piane anatoliche, dalla terra riarsa, dagli alberi annodati, dai cieli che si incontrano con l’orizzonte a distanze incommensurabili, ad una periferia onirica e dilagante, dove nel volgere di una notte sembrano essere sorti abnormi grattacieli, paradigmi del mondo nuovo, attuale, baluardi contro quell’altopiano che segna la memoria di un passato rurale troppo vicino ancora, e che la moderna Turchia in piena ascesa economica forse desidera dimenticare.
All’apparenza, di questi grattacieli la maggior parte sembra ancora del tutto disabitata. Quale urgenza dunque ne ha determinato la nascita, è difficile e insieme spaventoso da dire. È un paese che di terra ne ha così tanta, basta allontanarsi un poco dalle città per vedere dispiegarsi un paesaggio che ha il respiro delle carte geografiche e confini apparentemente illimitati.
Eppure, la terra si consuma velocemente. Quale Turchia sarà fra cinque, dieci, venti anni?Perché Ankara?
In Cappadocia ce l’hanno chiesto tutti, un po’ increduli. Per fare uno scalo, sulla via di ritorno per Istambul?
Perché andare a visitare questa strana enorme città, che ha spodestato solo nel 1923 Istambul come capitale della Turchia? Prima di allora, Ankara era solo uno dei tanti agglomerati urbani che costellano gli altopiani dell’Anatolia centrale, situata peraltro in uno dei luoghi più aridi e inospitali del paese. È a seguito della guerra greco-turca, che sancisce la caduta dell’Impero Ottomano e la nascita della Repubblica, che Ataturk innalza Ankara ad un ruolo che forse non era scritto nel suo destino. Istambul ha il prestigio innegabile, l’antichità, la grandiosità della capitale, il suo innato atteggiamento regale. È stata capitale, nei millenni, di paesi così diversi, e nonostante sconvolgimenti epocali: nonostante le crociate, nonostante la caduta dell’Impero bizantino, nonostante i sultani. Ankara, al confronto, è solo un punto sulla carta, il semplice centro geografico di un paese che desidera essere nuovo.
Mustafa Kemal Ataturk. Questo nome è la chiave del mio desiderio di visitare Ankara. In ogni angolo del paese, c’è un tributo per il fondatore della Turchia moderna. Controverso, certo, un personaggio pericolosamente in bilico fra il volto del tiranno e quello confortante del benefattore, nell’epoca dei totalitarismi incentrati sul culto della personalità del leader.
Ataturk, policromo in mezzo ad una polverosa rotonda stradale, che parla con i contadini; Ataturk, che ti fissa con sguardo imperioso dalle vetrine di souvenirs, ora calamita, ora tazza, ora quadernetto; Ataturk, un poster che assapora il profumo del pane dai muri di ogni panetteria; Atatuk, busto bronzeo in mille giardini diversi.
A volte, sorridiamo dell’ingenuità, così tremendamente al limite fra celebrazione e irrisione, dei tributi che la Turchia offre al suo eroe. Non ne ridiamo, mai, non solo perché in Turchia recare offesa all’immagine o alla persona di Ataturk è un reato, ma perché questa presenza ha un mistero sincero da sondare.
Così, diciamo che andiamo ad Ankara per fermarci una notte, e da lì raggiungere Hattusa, l’antica capitale ittita. Essere un archeologo può talvolta fornire un valido alibi per le proprie stranezze.In ostello, abbiamo due posti in camerata da sei: passiamo del tempo, prima di notte, nel gazebo tappezzato di erba artificiale, un puntino in mezzo ai grattacieli di Kizilay, a raccontare e ascoltare storie. Una coppia di belgi è arrivata in treno da Teheran, un tragitto infinito lungo un giorno intero, ci fanno sognare nuove mete; un finlandese che viaggia solo, beve un sacco di birra e non si capisce che cosa stia cercando, forse solo di infrangere le barriere della propria educazione; due iraniani che passano la loro giornata in camera, sdraiati a osservare il soffitto, in attesa di documenti che non arrivano. Lo so che gli Ittiti aspetteranno. Già la prima sera decidiamo di restare una notte in più.
La Cittadella sembra sia l’unica cosa da vedere ad Ankara, oltre al Museo delle Civiltà Anatoliche, ma le sue stradine rileccate, i muri in cui sono incastonati in modo apparentemente casuale antichi marmi romani, i restauri sfacciati delle palazzine ottomane, stuccano velocemente. Dall’alto, non si vede il confine della città, i grattacieli si dispiegano inafferrabili uno dietro l’altro, sotto un cielo ambiguo che ha l’opacità dello sviluppo non controllato. Gli attimi di verità sono quando lo sfondo si strappa, e contro il paesaggio della modernità si staglia una vecchia casa abbandonata, rannicchiata in se stessa sulle travi imbarcate, o da una porta si intravedono le galline che razzolano in una corte, mura di fango tirate su alla meno peggio in dieci diverse tecniche edilizie tutte ugualmente instabili.E infine, il viale fiancheggiato da leoni ci conduce fino all’immenso piazzale dell’Anit Kabir, il mausoleo di Kemal Ataturk, circondato da un porticato a pilastri rettangolari, di nitido rigore geometrico, come un antico tempio egizio. Il sole, benché sia mattina presto, riverbera implacabile sull’impiantito di travertino, e il cambio della guardia deve essere un tormento per i giovani che lo compiono, i marinai in un’immacolata divisa bianca, su cui gocciola il sudore dai loro volti congestionati dal caldo e dal laccio dell’elmetto.
Ce ne sono, ovviamente, di turisti, ma i più sono volti di scolaresche e famiglie turche, una paziente processione laica che lambisce in silenzio il cenotafio di lucida pietra nera. Mi torna alla mente la visita antropologica al santuario di San Giovanni Rotondo e alla salma di Padre Pio, ma allora le donne piangevano, il pianto rituale delle prefiche, mentre qua si osserva, si saluta e si omaggia, prima di scendere nelle viscere della macchina celebrativa, nel museo dove diorami e cimeli narrano le gesta del padre della Turchia.
Aspettino, gli Ittiti. Ormai, aspettano da millenni. Guardiamo sfilare i volti. Non sappiamo quanto durerà: molte cose, da un anno, sono già cambiate.
Le foto dell’Anit Kabir sono di Janos Agresti©