Archivi categoria: Verde a Firenze

Storia di un sognatore, Frederick Stibbert

Standard

Frederick Stibbert in armatura per il corteo storico del DuomoC’è una fotografia, un’albumina forse a giudicare dai toni cromatici, che mostra Frederick Stibbert con indosso l’armatura “inglese del 1370” con cui partecipò al solenne corteo per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1887.

È in piedi, leggermente di tre quarti, accanto al cavallo riccamente bardato, e ne tiene con la mano sinistra il morso. Dietro di loro, un grande portale aperto che li inquadra come una quinta teatrale. Forse la ripresa è stata fatta nel giardino della Villa di Montughi, perché di lato si intravedono arbusti e foglie. Quello stesso giardino in cui oggi, dopo la pioggia, perle di cielo rotolano sulle grandi foglie di Stelizia. A terra, è posato l’elmo dall’inconfondibile cimiero – un angelo che si stringe le braccia al corpo – che Stibbert aveva fatto realizzare per l’occasione.
AcquaAllora, non aveva ancora cinquant’anni, se la fotografia non è stata ripresa a posteriori, eppure sembra un uomo molto più anziano. Volge con naturale sicurezza il volto verso la macchina fotografica, piegandolo appena sulla spalla sinistra. Socchiude gli occhi, come a schermarli dalla luce o a soppesare chi ha di fronte, ma guarda fisso in camera, senza sorridere.

Non si sorrideva in verità, nel 1887, guardando un obiettivo.

Immagino che la maggior parte delle persone si sentisse allora piuttosto imbarazzata a mettersi in posa davanti a un apparecchio fotografico, e infatti spesso hanno sguardi tesi, opachi, o forzati. Forse si sentono in qualche modo giudicati, o messi alla prova. Forse tentano semplicemente, in uno sforzo disperato, di tenere gli occhi bene aperti, di non sbattere le palpebre, vanificando così la seduta di posa, per il tempo necessario a imprimere l’immagine sulla lastra di vetro.

Non Frederick Stibbert. Lui guarda fisso in camera, senza esitazione e senza tentennamenti. Soppesa noi, che lo guardiamo a distanza di più di un secolo dalla sua morte. Non dimentichiamo che era un uomo di mondo.

Lo chiamano sognatore. Lo chiamano eccentrico. Un riccone eccentrico con la morbosa fissazione per le armature antiche, per le chincaglierie esotiche, per spade e fucili.

Ma chi era davvero? Quello sguardo penetrante si fa beffe delle etichette che gli vengono attribuite.Cavalcata dettGuerrieri giapponesiCavalcata dett 2Frederick Stibbert eredita giovanissimo, alla morte precoce del padre, una enorme fortuna. Studiare non gli piace. O almeno non gli piace seguire i percorsi consueti. I suoi tutori pensano che presto dilapiderà il suo patrimonio. E in effetti, il giovane spende. Spende per acquistare oggetti meravigliosi in giro per il mondo. Eppure le fosche profezie non si avverano. Frederick Stibbert non è un avventato.

Pian piano prende forma l’idea di una creazione personale grandiosa, a cui dedica tutta la vita, senza diaframmi: la sua casa è il museo, il museo è la sua casa. La Villa di Montughi viene accresciuta, ristrutturata, adeguata alle proporzioni di una collezione che si arricchisce per decenni. Nuove passioni sbocciano con il tempo, e Stibbert le coltiva tutte, le asseconda tutte. I mezzi non gli mancano. Le sale si susseguono, non fredde sfilate di oggetti, ma ambientazioni, atmosfere, come frammenti di vita un tempo vissuta, congelata in un istante che mai sfiorisce.

Il progetto prende la sua forma definitiva alla sua morte, l’atto finale che suggella scelte consapevolmente perseguite. Stibbert lascia la sua casa, la sua collezione, il “suo museo”, come amava definirlo, con i suoi 56000 oggetti, oltre a un patrimonio in denaro di 800 lire, corrispondente oggi a qualcosa come 2 milioni di euro, alla Gran Bretagna, paese di origine del padre, con la possibilità di recesso a favore della città di Firenze, che ne entra in possesso nel 1908. A quale condizione? Che il “suo museo” sia aperto al pubblico, e resti per sempre così come lui l’ha ordinato.
Soffitto StibbertUn sognatore, sì. Un visionario, forse. Ma non chiamiamolo eccentrico. La sua visione era guidata da una volontà ferma, dalla traiettoria pulita e ineluttabile come una freccia scagliata contro un bersaglio. Questo dicono i suoi occhi a chi lo guarda dietro l’obiettivo.

Frederick Stibbert è uno che ha vissuto proprio come ha voluto. Onore a lui. Ha voluto lasciare una traccia duratura del suo passaggio su questa terra, e quella volontà ferma agisce ancora oggi.

Non è incredibile, essere capaci di proiettare così se stessi oltre il più grande degli ostacoli?
Giardino

Informazioni, nebbia, le vite degli altri

Standard

Quando sono in cammino, a volte mi diverte fermarmi a chiedere informazioni inutili così, tanto per incrociare lo sguardo e la voce di qualcuno, per sollecitare un contatto, per aprire uno squarcio nel mistero di una vita sconosciuta.

Quelle vite degli altri che immagino nell’occhio caldo delle finestre illuminate, da incerti frammenti sconnessi: condensa, ombre, pareti colorate, vecchi incongrui lampadari e sommità di librerie. Finestra lungo la via Vecchia Fiesolana

Vorrei incontrare di nuovo quell’anziano signore a cui oggi ho chiesto, in piazza Mino a Fiesole, se dalla via Vecchia Fiesolana sarei potuta tornare a Firenze. Una trovata di una stupidità sconcertante, con cui l’ho costretto a sollevare il suo sguardo azzurro dalle mani incrociate in grembo e a guardarmi, ferendosi con i raggi bassi ma diretti del sole di dicembre. Mani nodose come quelle di mio nonno, mani antiche, mani di orti e vanga. Una casacca verde militare e, sotto, un maglione ruvido da cui sbucava un’improvvida maglietta di Topolino, capelli candidi e quello sguardo enorme e brillante, indimenticabile.

Raramente il segnale lanciato dalla domanda ingannevole si disperde invano: è assai più frequente che anche l’altro desideri in realtà quel contatto, e colga con un guizzo di empatia la realtà così malamente celata.

Si sposta impercettibilmente in modo da entrare nella mia ombra e ripararsi così dal sole, e il suo sguardo ora divertito accompagna una lunga e articolata spiegazione del percorso, altrettanto inutile quanto la domanda che l’ha sollecitata: perché basta davvero imboccarla, quella strada, e lasciarsi andare giù per la discesa a tornanti, superare Villa Medici e una per una le tante ville che fanno da corolla all’antica strada che univa le due città sorelle, per arrivare a San Domenico e da lì a Firenze, discendendo lungo via Boccaccio.

Ma non è forse bello indugiare a scambiarsi futili informazioni in questa giornata di sole, così in alto sopra il mare di nebbia che copre la vallata?

Vorrei incontrarlo di nuovo per dirgli che aveva ragione, che davvero dopo Villa Medici, dopo quel tornante, dove si dipartono due strade che poco più sotto si uniscono nuovamente, ed è indifferente se prendere a destra o a sinistra, il paesaggio su Firenze è proprio bello. Anche se la città è nascosta dalla nebbia, si indovinano lo stesso i contorni del Campanile e di Santa Maria del Fiore, quelle coordinate così inconfondibili per tutti i viaggiatori che scoprono da lontano la città del giglio, anche così trasfigurata dal bagliore latteo che si sprigiona dal basso.

Una fila di cipressi, il muretto scaldato dai raggi del sole: assaporo in silenzio il piacere di chi, accanto a me, ha avuto la buona idea di portarsi un libro, mentre un sommesso brusio d’insetti sale dall’edera che riveste il muretto, prima di riprendere il cammino.Firenze sotto la nebbia 2

Firenze sotto la nebbia

Lucide nuvole rosa e il Tepidario del Roster

Standard

Ieri l’altro, scendendo l’Appennino per arrivare a Firenze, il cuore mi batteva forte. Che puerilità! Finalmente, a una svolta, il mio sguardo si è tuffato nella pianura e ha scorto di lontano come una massa oscura, Santa Maria del fiore e la sua famosa cupola… Ho guardato sovente tante di quelle vedute di Firenze che la conoscevo già e ho potuto camminare senza guida…

Così Stendhal, nella descrizione dei suoi viaggi in Italia, sintetizza l’emozione condivisa da tanti viaggiatori al momento di incontrare finalmente, ad una svolta della strada, la vista di Firenze, città di sogno carica di promesse, adagiata dolcemente nel nido dei suoi colli all’ombra della cupola del Brunelleschi.

Il viaggio in calesse attraverso l’Appennino, provenendo da Bologna, era particolarmente gravoso: la strada era lunga, difficile e non priva di pericoli, ma la fatica era ampiamente ripagata da quel momento unico, magico, in cui la città si svela all’improvviso, avvolta in una bruma irreale o splendente dei riflessi del tramonto. Una visione che tanti viaggiatori, nel Settecento e nell’Ottocento, cullano a lungo, nei febbrili preparativi preliminari al Grand Tour e lasciando alle spalle, una dopo l’altra, le tappe intermedie; e poi quel batticuore, inevitabile, commovente, che Stendhal si rimprovera ma con una punta di tenera condiscendenza per se stesso, per il suo sognare svagato il cielo sopra Firenze.

Questa visione antica e insieme senza tempo, per chi viaggia oggi in treno o in aereo, è quasi irrimediabilmente perduta; per ritrovarne in parte la suggestione ho percorso tante volte, di notte, via Trento appena sopra al Giardino dell’Orticoltura. Siamo nella parte finale della via Bolognese, nel punto in cui il declivio termina e il ponte sul Mugnone segna uno degli ingressi in città.

Interminabili momenti invernali così, l’odore di vento, la bicicletta in mano, la strada deserta, il cielo scuro e la cupola di Santa Maria del Fiore, il cuore per un attimo acquietato.Tepidario del Roster

Poco sotto, il Tepidario disegnato da Giacomo Roster e inaugurato nel 1880 risplende come un’immensa, delicata lanterna dalle nervature di solido metallo, così sfacciatamente ottocentesco con le sue decorazioni in stile moresco, le nicchie neorinascimentali e una fiducia un po’ ingenua per il progresso che allora era forse impossibile non condividere.

Il modello cui Roster si ispirò, apportando tuttavia significative variazioni ornamentali e strutturali, era il celebre Chrystal Palace, che aveva ospitato a Londra, nel 1851, la prima Esposizione Universale e che finì in una nuvola di fiamme, fumo e fuliggine in una notte del 1936. Un doppio ballatoio sospeso in alto, a sei metri di altezza, consentiva un tempo di ammirare le piante curiose ed esotiche che erano conservate nel Tepidario.Tepidario nell'Ottocento

Dopo un lungo periodo di offuscamento e un’intensa campagna di restauri, oggi il Tepidario e il Giardino dell’Orticoltura sono tornati ad essere un riferimento nella geografia del verde fiorentino: una passeggiata, un momento per leggere un libro sotto le foglie… Due volte l’anno, ad aprile-maggio e il primo fine settimana di ottobre, il giardino ospita una preziosa mostra mercato di fiori e piante, al cui richiamo non è facile sfuggire…

Quest’anno, complice l’arrivo dell’autunno, la mia scelta è caduta su una piccola pianta di Pernettya mucronata, avvolta in una nuvola di bacche lucide dal vivace colore rosa acceso. Si tratta di un piccolo arbusto sempreverde dal portamento cespuglioso e compatto, appartenente alla famiglia delle Ericacee, che predilige una posizione in ombra luminosa o a mezz’ombra, non tollera il caldo ed è resistente al gelo senza bisogno di particolari precauzioni. Va tenuta con il terriccio umido ma ben drenato, con annaffiature più abbondanti in primavera ed estate e diradate durante i restanti periodi dell’anno.

All’ultimo momento è saltato nel vaso un piccolo intruso, riuscite a trovarlo?

Pernettya mucronata var. rosea

Perché chiamarla Valle dell’Inferno?

Standard

Timidi frammenti color indaco si riversano fluttuando nelle pozze d’acqua che il nubifragio si è lasciato dietro, la notte scorsa. O sono forse porte improvvisamente aperte, solo per oggi, verso un’altra dimensione, dove il cielo dimora in terra e le nubi si nascondono fra le radici degli alberi?

Coriandoli di foglie argentee orlano la superficie dell’acqua, si ispessiscono sui sentieri trasformandoli in morbidi tappeti, e se apparentemente possono sembrare solo uno scherzo bonario, disteso sul bosco da qualche folletto silvestre, sono in realtà testimoni di una furia degli elementi difficilmente immaginabile, ora che le dita del sole riscaldano le punte delle foglie, sfiorandosi in una reciproca carezza a mezz’aria.

Santa Brigida - Valle dell'Inferno 2Santa Brigida - Valle dell'InfernoGli stessi frammenti di cielo scorrono nel ruscello, si affrettano verso la cascate e si infrangono sulle rocce solo per ricomporsi dopo qualche voluta di danza, là dove i raggi trafiggono il tetto volante degli alberi e si diffondono a terra come in una caverna.

L’aria è spessa nella Valle dell’Inferno, nascosta fra i rilievi preappenninici sopra Santa Brigida, fra il Mugello e il Valdarno, pochi chilometri da Firenze che misurati in termini non convenzionali possono dilatarsi nello spazio e anche nel tempo. È spessa e calda ma senza inganni ed esalazioni oltremondane, solo il tepore quasi palpabile che si sprigiona dal sottobosco, investe l’olfatto, ottunde il rumore dei passi, addormenta i rami e risveglia insieme i riflessi multicolori dei coleotteri.IMG_1450IMG_1460

Dunque perché chiamarla Valle dell’Inferno se ti avvolge come in un nido? La domanda continua a risuonarmi dentro finché l’immobilità dei rami non assume i connotati dell’incantesimo.

Cercherai invano l’uomo, negli sprazzi di sole che infrangono la volta della Valle dell’Inferno. Solo il respiro trattenuto degli alberi, in un’incomprensibile stasi vegetale, e delicate ali di coleottero sotto la loro scorza metallica. Sarà questo il motivo del nome?

L’uomo lo ritroverai più in alto sul crinale, ma solo in segni sparsi e consunti, dove i rovi abbracciano i muri di qualche casolare, e sulla cima del Monte Rotondo, dove il lacerto di muro di un non più ravvisabile castello si protende ancora ostinato, come ad indicare una strada ancora più su. Solo scendendo nuovamente a valle i segni si fanno più concreti, a lato dei sentieri indicati da segnavia spolverati di licheni. IMG_1470IMG_1475Antico segnavia Pontassieve


Il post è stato scritto all’indomani del nubifragio che ha colpito Firenze il 1 agosto 2015

Aspettando il Giardino dell’Iris

Standard

Uno dei luoghi più belli di Firenze è, a mio parere, il Giardino dell’Iris: un luogo appartato e silente, che apre le porte ai visitatori in un periodo molto limitato dell’anno, dal 25 aprile al 20 maggio… Sarà anche per questo, ma quando penso al Giardino dell’Iris mi torna in mente sempre una lettura adorata durante l’infanzia, Il giardino segreto di F.H. Burnett: nel romanzo una piccola orfana, Mary Lennox, viene affidata alle cure dello zio, che vive in Inghilterra in una sontuosa ma assai triste residenza. Nelle sue esplorazioni, la bambina scopre l’esistenza di un angolo chiuso e inaccessibile del parco, un giardino segreto, appunto, dove ha trovato una tragica morte la moglie dello zio. Riescita ad entrare nel giardino, Mary lo trova in abbandono e riuscirà a farlo rivivere… Naturalmente questo sarà il prodromo per un lieto fine che vede lo zio liberato dal nostalgico ricordo della moglie e il cugino di Mary, malato e segregato in casa, finalmente guarito. Beh, detta così la storia non appare delle più avvincenti, ma la descrizione del giardino segreto, e anzi la sola possibilità della sua esistenza, mi ha sempre fatto sognare. Il Giardino dell’Iris è ben altra cosa, è inutile dirlo: è un piccolo paradiso curatissimo, ma il suo essere nascosto per buona parte dell’anno accende la fantasia.

Manca poco, ormai, e sono in trepida attesa, anche perché gli iris sono fiori bellissimi, e il Giardino ne conserva di tutti i colori e di infinite varietà: la visita dello scorso anno mi ha incantato.

In quell’occasione, parlai a lungo con uno dei giardinieri, chiedendo la soluzione di un annoso dilemma: quasi tre anni fa, all’arrivo nei 12mq, piantai alcuni rizomi di iris, di tre diverse varietà, in tre fioriere, di quelle rettangolari per i terrazzi. Non hanno mai fiorito, e temevo di aver sbagliato alla grande, ma in fondo in fondo, perversamente mi dicevo che forse non era colpa mia, e che è proprio impossibile la fioritura di questo fiore in vaso. Non ultimo, l’esposizione a sud del terrazzo forse non era delle migliori.

Il giardiniere mi spiegò che sì, gli iris fioriscono anche in vaso, e non importa che sia molto profondo, perché il rizoma tende a svilupparsi in orizzontale e in superficie, senza bisogno di grande interro, anzi, può stare anche un po’ scoperto. Tartassato dalle mie domande, mi disse anche che il troppo sole forse andrebbe evitato, soprattutto in un contesto come quello di una terrazza fiorentina a meridione totale. Al ritorno a casa, ho rinvasato i miei iris in due conche circolari, ampie ma poco profonde, e le ho posizionate in modo da prendere il sole al mattino, ma da essere in ombra durante le ore più calde della giornata. Non li ho mai tolti dalla terra, e li ho lasciati esposti al freddo durante l’inverno. Forse ci ho azzeccato, perché adesso almeno uno sta per fiorire, manca poco: forse fiorisce proprio per l’apertura del Giardino dell’Iris.

Chi viene con me il 25 aprile?Iris

La caccia all’intruso continua

Standard

Passerò accanto al Cereus peruvianus del Museo Archeologico di Firenze almeno una volta al giorno, e ogni volta negli ultimi mesi mi sono chiesto: chissà se quel fiore che ha fatto ad agosto è stato impollinato? E poi, siccome sono un pulcino con la testa molto fra le nuvole, me ne sono sempre dimenticato.

Giunge in mio soccorso la mia amica Fancyhollow, che essendo molto più vispa di me mi ha segnalato che sì, adesso dove c’era il fiore c’è il frutto… E devo dire che è proprio bello, di un colore caldo e autunnale che si addice moltissimo al momento. E notava Fancyhollow che somiglia ad una albicocca: invitante lo è, ma non me la sento di assaggiare se è pure commestibile… L’esperimento che vorrei fare, però, è provare ad estrarne i semi e vedere se germogliano.

Beh, un motivo in più per visitare il Giardino del Museo, no?! La caccia all’intruso continua!Cereus peruvianus frutto

Scoprire l’intruso nel Giardino del Museo Archeologico di Firenze

Standard

Non sono poche le meraviglie, botaniche e non, custodite dal Giardino del Museo Archeologico di Firenze: un tesoro di natura e storia nel cuore della città, che è possibile ammirare tutti i giorni infilando agilmente il naso nell’inferriata che borda il tratto di via della Colonna più vicino a piazza Santissima Annunziata, oppure in modo decisamente più consono il sabato mattina, quando – a meno che non ostino particolari problemi tecnici o meteorologici – è aperto al pubblico.

Si potrà allora passeggiare per i vialetti ripercorrendo le diverse tappe dello sviluppo dell’architettura etrusca nel tempo, dalle tombe a pozzetto villanoviane alle sepolture a camera di epoca ellenistica, e nello spazio, con esempi monumentali provenienti da Veio, Tarquinia, Orvieto, Volterra. Personalmente, amo molto la ricostruzione della Tomba Inghirami di Volterra: trovo sempre commovente lo spettacolo offerto da questo straordinario complesso, con le urne cinerarie dei membri di un’unica famiglia deposte all’interno della sepoltura nell’arco di tre secoli, corrispondenti a ben sei generazioni, che sembrano riuniti in un simposio eterno. E ancora di più amo la scabrosità della pietra vulcanica accarezzata dal tramonto delle due tombe provenienti dalla necropoli del Crocefisso del Tufo di Orvieto, ricoperte da una morbida cascata di edera e di capperi.Giardino museo archeologico (6) (Medium)

Giardino Museo Archeologico (1)Unici elementi “fissi” di questo singolare frammento di paesaggio urbano, le tombe sono immerse nel flusso continuo delle stagioni: alla superficie ghiacciata della grande vasca in inverno succedono le fioriture primaverili, all’aria stanca e sospesa dell’estate i dolci colori autunnali. Le architetture restano lì immobili, a farsi accarezzare del trascorrere del tempo, accogliendo ogni mese che passa e congedandolo al suo volgere, e accettano incessantemente questa rivoluzione continua e silenziosa.

Lo scorso anno ho fotografato compulsivamente la fioritura delle magnolie, che riempiva le fronde ma si distendeva anche ai piedi degli alberi, formando un immenso tappeto specchio nei toni del rosa e del bianco. I petali carnosi adagiati nell’erba fresca sembravano chiamarti a togliere le scarpe e camminare a piedi nudi su questo pavimento intarsiato e prezioso.Giardino Museo Archeologico (2)

Questa primavera mi hanno incantato le pansè, un fiore che non ho mai amato particolarmente a dire la verità, con quei petali troppo delicati e facili a stropicciarsi, ma forse solo perchè non l’ho mai osservato bene prima. Chi l’ha inventate era un genio: perchè ci vuole veramente del genio per accostare così il viola e il giallo, il bordeaux ed il bruno, il rosa e il cremisi, e farli digradare rapidamente ma insensibilmente l’uno nell’altro.Giardino museo archeologico (2) (Medium) Giardino museo archeologico (3) (Medium) Giardino museo archeologico (4) (Medium)Poi è stato il momento delle azalee, coltivate in grandi conche di terracotta, degli iris, che inalberano orgogliosamente i loro vessilli nelle bordure lungo il muro, delle rose antiche che ancora in questi giorni profumano di dolci note agrumate.Giardino museo archeologico (5) (Medium)In mezzo a questo incessante tripudio di piante, scelte in genere fra quelle proprie della tradizione medicea e fiorentina, forse pochi notano quello che considero un vero e proprio intruso: un canutissimo Cereus peruvianus v. monstruosus, dalle dimensioni davvero ragguardevoli, soprattutto considerando il fatto che non è coltivato in terra, come si potrebbe anche fare visto che ci troviamo in un giardino, ma in una piccola conca, fra il muro del Museo Topografico e la camera funeraria del Tumulo del Diavolino di Vetulonia. Narra la leggenda che sia stata portata qua, già non piccolissima, da un qualche custode, in un momento di cui non si conserva memoria.

Sono anni che osservo discretamente questa pianta, talvolta con una certa apprensione. La parte terminale del fusto ha sofferto già in passato per qualche gelata, e si presenta in più punti annerita, come se fosse bruciata: ma è una pianta dalla pelle dura, una vera guerriera, un’amazzone, che non riceve altra acqua in estate che quella delle piogge, e che rimane sottoposta alle intemperie d’inverno: non si potrebbe fare diversamente, viste le dimensioni e la posizione in cui si trova.

Se la cava egregiamente, a dire il vero. Tuttavia, negli ultimi tre anni non era mai fiorita. Lo ha fatto una notte di quest’ultimo agosto, e ho avuto la fortuna di scoprire il fiore subito la mattina successiva, visto durano davvero pochissimo: un immenso fiore bianco, dai petali leggermente frangiati, che si sviluppa da un lungo imbuto verde. In questo modo, il centro della corolla diventa il punto più affascinante del fiore, con il suo colore fresco e mattutino, circondato da un fascio di stami bianchi carichi di polline, su cui gli insetti erano già al lavoro alle sette del mattino. Ora che ho avuto la soddisfazione di vederlo in fiore, mi resta solo la curiosità di sapere di più sulla storia di questo Cereus, perchè immagino che deve averne viste di cose… Da dove viene? Chi l’ha portato qui e quando? Chissà che prima o poi non trovi le risposte a queste domande…
Cereus peruvianus 1 (Medium)
Cereus peruvianus 2 (Medium) Cereus peruvianus 3 (Medium) Cereus peruvianus 4 (Medium)

Cosa fa vivere gli uomini

Standard

Ricordo distintamente l’estate fra la quarta e la quinta ginnasio, Anna Karenina nell’edizione Einaudi fra le mani e gli sterminati pomeriggi passati a leggere in una stanza un po’ isolata della casa dei miei genitori, con lame di sole che filtravano appena dalle imposte a illuminare la danza di minutissimi granelli di polvere.

Ho pianto di notte per Anna Karenina come ho pianto successivamente, fra le pagine di Guerra e pace, per Andrej Bolkonskij ferito e disteso nel campo di battaglia di Austerliz, intento a fissare il cielo nella convinzione di vederlo per l’ultima volta, e per Nataša Rostova nel turbinio del suo primo ballo. E poi La sonata a Kreutzer, La felicità familiare, Resurrezione… Mi piaceva rintanarmi in quella stanza, su quella poltrona che mi ricordava tante cose, oppure in un angolo del giardino, dove cogliere qualche susina dell’albero e passare ore così, sognando.

Solo un po’ più tardi ho iniziato a dipanare la complessità delle riflessioni sul senso della storia e sul mistero della vita, e a interessarmi a lui, a Lev Tolstoj, al tormento intellettuale e profondamente religioso che lo ha accompagnato per tutta la vita, dagli anni scapestrati della gioventù fino alla tragica fuga dalla famiglia e da se stesso intrapresa ormai ottantaduenne, e che lo avrebbe condotto alla morte.

I suoi Diari sono la testimonianza viva di questa ricerca costante, di questa tensione verso l’alto: perchè “ciò che conta è solo fare della propria vita qualcosa di intero, razionale, bello”.
IMG_5744E quindi, amo guardare il cielo, soprattutto in mezzo al luccicare delle foglie, e non posso guardare un cielo senza pensare al Principe Andrej ad Austerliz.

Eppure ieri, mentre osservavo un cielo particolarmente bello al di sopra del Parco della Villa il Ventaglio, un angolo poco noto di Firenze dove è possibile andare a fare pace col mondo, se ce n’è bisogno, mi è tornato in mente un racconto breve di Tolstoj, scritto nel 1881, che si intitola Cosa fa vivere gli uomini. Pensato come una sorta di parabola per gli strati rurali della popolazione russa, da poco liberati dalla servitù della gleba e da poco ammessi all’istruzione scolastica, il racconto ebbe un vero boom editoriale al momento della pubblicazione, mentre oggi è ingiustamente poco noto.

La semplicità disarmante dell’intreccio rivela profondità dense di significato, e un messaggio pieno di speranza.

Il poverissimo calzolaio Semen, di ritorno a casa, incontra presso una chiesetta di campagna un giovane completamente nudo, infreddolito e quasi privo di parola. Vinta la propria resistenza, decide di vestirlo col proprio mantello e di portarlo a casa, dove la moglie, Matrena, accoglie il nuovo venuto con l’ostile resistenza di chi deve privarsi del pane per sfamare l’ospite inatteso. Ma anche il cuore di Matrena si scioglie, tuttavia, di fronte all’innocenza del giovane. Quando la donna gli offre infine un pasto caldo, Michaijl sorride.

Il giovane inizia a lavorare per Semen, ed in breve diventa talmente abile da costituire un valido aiuto per il calzolaio, i cui affari iniziano a decollare. Un giorno, un ricco possidente si reca dal calzolaio per commissionare un paio di stivali, portando con sè la pelle necessaria, e ordinando con tracotanza che glieli facciano resistenti e durevoli. Michaijl sorride una seconda volta, e prepara non un paio di stivali, ma un paio di babbucce da morto. Le disperate proteste di Semen, terrorizzato per la certa ira del signore, si spengono quando giunge la notizia che egli, tornando a casa, è morto per strada.

La terza volta, Michaijl sorride quando una donna entra nella bottega con due bambine, a cui vuol comprare delle scarpine, e racconta che non sono figlie sue, ma di una povera vicina, morta quando le piccole erano ancora in fasce, e che lei ha voluto prenderle con sè, finendo per amarle come se fossero sue.

Ma perchè sorride così misteriosamente, Michaijl? Perchè egli è un angelo, che ha osato ribellarsi all’ordine del Signore di portare via l’anima di una donna, commosso dal fatto che ella avrebbe lasciato due bambine, da poco venute alla luce, ad una morte certa. Per punizione, è stato inviato sulla terra come uomo, per scoprire che cosa c’è dentro gli uomini, che cosa non è dato agli uomini, e che cosa fa vivere gli uomini. E progressivamente l’ha compreso, e ogni gradino di questa conquistata conoscenza gli ha strappato un sorriso. Negli uomini c’è amore, e l’ha compreso quando Matrena gli ha offerto l’ultimo pezzo di pane che conservava per il giorno successivo. Non è dato agli uomini di conoscere che cosa è bene per se stessi, e l’ha compreso quando il ricco possidente ha ordinato un paio di stivali resistenti e duraturi, senza sapere che di lì a poco avrebbe avuto bisogno di un paio di babbucce da morto. L’amore degli uni per gli altri fa vivere gli uomini, e l’ha compreso quando ha visto le figlie della donna di cui ha dovuto portar via l’anima, salvate, accudite e profondamente amate da una donna che per loro non è niente.

E così l’angelo può dispiegare le ali, e tornare in cielo in una colonna abbagliante di luce.Parco Ventaglio (Medium)Parco Ventaglio (1) (Medium) Parco Ventaglio (2) (Medium)Parco Ventaglio (4) (Medium)

I Fòchi di San Giovanni li faccio anche io!

Standard

San Giovanni Battista è il patrono di Firenze; i festeggiamenti che la città gli riserva, il 24 di giugno, prevedono una serie di liturgie sacre che iniziano con una messa di suffragio, proseguono con una solenne processione per le vie del centro e culminano con l’accensione dei ceri davanti al Battistero, che è al Santo dedicato. Contemporaneamente, in Piazza Santa Croce, si svolge la partita del Calcio storico fiorentino, torneo protocalcistico in cui quattro squadre corrispondenti ai quattro quartieri storici del centro si sfidano per un premio costituito da una vacca chianina.

Ma il momento più bello della festa è sempre stato, per me, lo scoppio dei Fòchi di San Giovanni, un rituale a cui rinuncio veramente malvolentieri. In realtà non ho mai amato particolarmente gli spettacoli pirotecnici, ma questi sono davvero particolari. Prima di tutto la location: i fuochi vengono sparati dal Piazzale Michelangelo, vasto spazio che domina il panorama della città da sud-est, verso la Torre di San Niccolò ed il Lungarno adiacente. Il mio luogo preferito per vederli è dalla spiaggetta sotto San Niccolò, un arenile sull’Arno in cui nel resto dell’anno non metterei piede per nulla al mondo, vista la fauna che si intravede talvolta nell’acqua del fiume, ma per San Giovanni dimentico ogni precauzione igienica e IL posto è: la spiaggetta di San Niccolò. E LA compagnia è fondamentale, fissata per tradizione che sennò la festa non avrebbe lo stesso sapore. E’ bene andare a prendere il posto abbastanza presto (diciamo verso le 19-19,30), stendendo un asciugamano nella posizione adeguata, in modo da vedere i fuochi senza che la torre disturbi troppo la visuale. In loco è possibile acquistare dei cestini pic-nic, ma a noi piace preparare qualcosa da mangiare a casa e portarlo con noi, e con gli anni l’organizzazione si sta molto affinando.

E piano piano lo spazio sulla spiaggetta si riempie di gente, e anche le spallette dei lungarni, i giardinetti intorno alla torre, il ponte appena a sinistra… perchè ognuno ha il suo posto preferito per vedere i Fòchi, e anche questo è toscanità, che a ognuno gli garba fare le cose a modo suo, che è diverso da quell’altri!

Verso le 22.00 le luci dei lampioni si spengono, e lo spettacolo ha inizio. Quasi un’ora di spettacolo pirotecnico, in cui si susseguono stelle e cascate colorate, con l’immancabile tricolore e l’immancabile viola di Firenze. La partecipazione popolare all’evento è intensa e spazia dalle lamentele “perchè l’anno scorso era meglio” e “il sindaco qui il sindaco là” agli “oh-oooooh” e “aaaaaaah” e applausi dei momenti più sorprendenti!

I Fòchi di San Giovanni hanno il potere di emozionarmi. Il perchè non l’ho mai capito. Sarà che stando col naso all’insù, di notte, si può tornare un po’ bambini, che l’aria calda della notte estiva ti avvolge e ti coccola, che si sente vicino il palpitare della gente, il rinnovarsi della tradizione. E’ una di quelle feste legate al volgere delle stagioni, al ciclo perpetuo della natura e della vita, quelle feste che scandivano il calendario dei tempi passati e che oggi non abbiamo più. Perchè ora le feste sono una cosa ben diversa, sono i negozi aperti dopo cena per le notti bianche. E quanto avremmo bisogno, invece, di feste vere. La notte di San Giovanni è una notte magica, non c’è verso, perchè si ricollega ai riti antichi del solstizio d’estate, con il carico di aspettativa per il futuro, per l’andamento delle messi e delle altre colture, come vuole anche il detto tradizionale, diffuso un po’ in tutta Italia: La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il granturco. E quest’anno è anche un onomastico, quindi lo festeggio anch’io con questo nuovo fiore del Thelocactus exaedrophorus, che sembra un po’ un fuoco d’artificio, di quelli che prima scoppia una stella giallo chiaro lanciando migliaia di stelle più piccole che disegnano come un salice in cielo prima di affievolirsi piano piano, e poi dopo ne scoppia un’altra in mezzo, più scura e persistente.

E ora tutti sul Lungarno a vedere i Fòchi, via!thelocactus exaedrophorus - fiore