02.07.2016
L’albergue municipal di Estella è pervaso alla sera da un’atmosfera leggera e festosa, da sagra paesana: la penombra delle camerate si svuota al tramonto e il patio si riempie per la consueta cena, sbrigativa e improvvisata, in cui il gusto del cibo è completamente subordinato alla necessità di incamerare una certa quantità di energia per il giorno successivo, e al desiderio di condividere esperienze e pensieri.
Per la prima volta viaggio, con deliberata premeditazione, senza un libro nel bagaglio. Sulle fredde scale in travertino che portano al piano delle camerate, si allineano volumi lasciati chissà da chi, chissà da quanto tempo, che portano i segni non dissimulabili della strada percorsa per arrivare sin qui, dove sono diventati un peso o si sono semplicemente fermati.
Scorro i titoli, fino al primo libro in italiano: Le confessioni di Agostino.
Dai meandri della memoria riemergono frammenti e immagini della prima lettura dell’opera, un compito scolastico trasformatosi inaspettatamente in piacere autentico, la voce infantile che giunge dall’intima distanza di una casa vicina: «Prendi e leggi, prendi e leggi» a consolare e indirizzare la vita di Agostino… «Non volli leggere oltre né mi occorreva». Un rituale semimagico che talvolta ho ripetuto, nel tempo, senza mai conquistare quella pace: «appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». Apro allora a caso il libro, e leggo «ma il cielo e la terra ti contengono dunque, o Signore, dal momento che tu li riempi?»
Dal momento che terra e cielo, pieni di qualcosa che non si lascia definire, sono una costante di questi giorni, porterò con me Agostino.
Al mattino, salendo fino al monastero di Irache dove la famosa fontana del vino stilla infelice solo poche gocce di nettare, una coltre di nubi, sospesa sotto il cielo, fluttua così in basso da infrangersi contro un contrafforte di bianche scogliere, lontano, ricamandole di mistero. Mi fermo ad osservarle, a lungo, nell’aria immobile e già calda, affascinata da quel crinale affacciato nel vuoto, che si tinge di rosa mentre il sole avanza nel cielo. Ma forse qualcuno lo percorre nello stesso istante, osservando qualche dettaglio a me invisibile del luogo in cui mi trovo e trovandolo incredibilmente attraente…
Attraversando l’ultimo tratto della Navarra ed entrando nella Rioja, il paesaggio cambia di nuovo volto, il Cammino si distende in un ondulato fondovalle dove i campi di grano, ormai mietuti, lasciano il posto ai vigneti, in un susseguirsi di rapide pennellate dai colori contrastanti. Ci accompagnano fino a Torres del Río le stesse nuvole basse, che sfiorano le colline senza trasformarsi in pioggia, fondendosi con l’orizzonte come il tocco di pennello che conclude l’opera.
Non ci sono molti motivi validi per fermarsi a Torres del Río, un altro agglomerato di case basse, cemento e facciate di pietra in anacronistico accostamento. L’elenco è banale: la stanchezza, che in effetti oggi si fa sentire di meno, il caldo e il desiderio di togliere le scarpe dopo quasi trenta chilometri di cammino.
Ma la signora Mari Carmen apre la Chiesa del Santo Sepolcro al tardo pomeriggio.
Restiamo dunque, solo per passare un’ora immemore nell’ombra fresca della cupola, innervata dalla geometria mistica dei costoloni e dalla vibrazione del vuoto. Se in basso il ghigno di qualche animale fantastico ricorda ancora la multiforme varietà del mondo, lassù in alto la forma si dissolve in una metafisica perfezione.
Fantastico! Ogni parola é incatenata alle emozioni! La tua mano scrive a colpo di cuore…
😍😍😍
Emozionante… come al solito.