Non importa vederla davvero: ovunque tu sia nell’Arcipelago toscano, non potrai evitare di avvertire la presenza muta e inaccessibile di Montecristo, anche quando la sua sagoma inconfondibile non è visibile all’orizzonte, sospesa sopra un velo scivoloso di vapore che la solleva sulla superficie del mare ma solo quel tanto che le impedisce ancora di staccarsene e fluttuare magica a mezz’aria.
Ma Montecristo forse non è davvero un’isola: è una montagna dal cuore di roccia fredda e compressa, ormai dimentica del potere del fuoco; è una piramide, silenziosa e ieratica, che continua ad affondare con il medesimo angolo i suoi fianchi scoscesi nelle profondità del Tirreno, protendendo verso il cielo solo una minima parte della sua reale estensione, o che forse al contrario appena sotto il pelo dell’acqua si scopre priva di radici e capace di galleggiare sulle onde come una barchetta di carta in un’innocua vasca da giardino, tappezzata di ninfee; è un gigante immobile sotto il tepore di un manto d’odorosa macchia mediterranea.
L’esercizio della fantasia è potenzialmente illimitato: Montecristo serba quasi intatto il suo mistero, tanto complesso – per quanto non impossibile – raggiungerla realmente. Solo una volta ho avuto la fortuna di un fugace incontro: appena il tempo di indovinare il ronzio degli insetti fra i fiori, di immaginare Vittorio Emanuele ed Elena del Montenegro fra le arcate sdentate dell’approdo di Cala Maestra, di scoprire impensabili sfumature di verde e blu nell’acqua che si insinua fra gli scogli, e la visione era scomparsa. Ma da allora non ho smesso mai di popolare l’isola di avventure e di storie, dove spesso mi sono trovata intenta in fantastiche e sempre solitarie esplorazioni. E così, negli anni, ho camminato sulle rocce calde di sole, sondandone a piedi nudi le asperità ormai arrotondate dal tempo, ho pescato diafani gamberetti nelle pozze dove il mare arriva solo durante le tempeste, orlate di minuscoli castelli di cristalli di sale, ho rovistato nei bauli che di certo giacciono abbandonati nelle soffitte della Villa Reale, sollevando sbuffi di polvere e traendone pizzi un po’ ingialliti e uno strascico che chissà come è finito qui, dove balli non devono essercene mai stati.
Il Conte di Montecristo è una lettura che ho rimandato per anni, inconsciamente temendo che la finzione narrativa potesse infrangere uno dei miei più preziosi microcosmi immaginari. Ed è stato incredibilmente bello, invece, tornare ancora una volta su Montecristo, un’isola certo diversa dalla mia, alternativa ma non per questo rivale, e scoprire che, molti anni prima delle mie scorribande, è stato padrone di questo minuscolo reame il protagonista del romanzo, Edmond Dantès.
A dire il vero qualche volta ho provato anch’io a cercare il tesoro che le leggende vogliono sepolto sull’isola, smuovendo sassi nelle cavità e nella Grotta di San Mamiliano, ma senza grande convinzione: era altro quello che cercavo a Montecristo, il potere della libertà illimitata. Per Dantès invece, il bisogno di riscatto ma soprattutto la necessità di vendetta sopra coloro che lo hanno privato in un colpo di tutto ciò che l’avvenire gli dispiegava come una promessa, rende questione vitale il ritrovamento del tesoro. Nelle segrete del Castello d’If, dove è stato detenuto per quattordici anni, l’abate Faria gli ha rivelato come entrare in possesso del patrimonio della famiglia Spada, sepolto in un ben nascosto recesso sull’isola, e da quando riesce in un disperato tentativo di evasione, Dantès ha un unico obiettivo: entrare in possesso del tesoro e schiacciare i suoi nemici.
È Montecristo, l’isola magica, che gli offre la possibilità di iniziare una nuova vita, è qui che egli elabora un complesso piano che, in un crescente delirio di onnipotenza, lo conduce, apparentemente inarrestabile, sulle tracce dei suoi avversari: li ritrova riannodando i fili del passato, li riconosce, li osserva da lontano con la pazienza del ragno, li avvicina e infine li stringe sempre più da presso, ne conquista la fiducia per colpirli nei loro affetti, nelle loro ossessioni, nelle loro debolezze, li intrappola nelle spire di un meccanismo perfetto.
Mille volte, nel corso della storia, appare impossibile al lettore che il disegno ordito da Edmond Dantès possa giungere ad una positiva conclusione: come è possibile che nessuno lo riconosca, che la macchia nel suo passato, per quanto frutto di una volgare macchinazione, non riemerga a perderlo definitivamente? Come possono la sua stravaganza, la sua smodata ricchezza, la sua eccessiva condotta di vita non indurlo a commettere un errore fatale? Ma questi non sono I Miserabili, e chi è vinto una volta non è vinto per sempre. La rete si chiude, serrandoli uno per uno, su coloro che l’hanno un giorno tradito. Eppure Dantès è, dal momento del suo arresto e nonostante lo splendore di cui può circondarsi, un uomo morto. I mille raffinatissimi piaceri che il possesso del tesoro può fargli godere: ville, cavalli, barche, opere d’arte, gioielli, divertimenti, libri, cibo, servitori, donne… Tutto è nulla per lui, tutto divora il fuoco della vendetta. Ma il lieto fine c’è, fra misericordia, perdono e, soprattutto, amore.
Che bello… Mi hai risvegliato ricordi intensissimi del libro. E che bella foto!
😊😊😊quella non è merito mio!!!
Che piacere leggere queste “recensioni”! 🙂
😊😊😊grazzzie…