Timidi frammenti color indaco si riversano fluttuando nelle pozze d’acqua che il nubifragio si è lasciato dietro, la notte scorsa. O sono forse porte improvvisamente aperte, solo per oggi, verso un’altra dimensione, dove il cielo dimora in terra e le nubi si nascondono fra le radici degli alberi?
Coriandoli di foglie argentee orlano la superficie dell’acqua, si ispessiscono sui sentieri trasformandoli in morbidi tappeti, e se apparentemente possono sembrare solo uno scherzo bonario, disteso sul bosco da qualche folletto silvestre, sono in realtà testimoni di una furia degli elementi difficilmente immaginabile, ora che le dita del sole riscaldano le punte delle foglie, sfiorandosi in una reciproca carezza a mezz’aria.
Gli stessi frammenti di cielo scorrono nel ruscello, si affrettano verso la cascate e si infrangono sulle rocce solo per ricomporsi dopo qualche voluta di danza, là dove i raggi trafiggono il tetto volante degli alberi e si diffondono a terra come in una caverna.
L’aria è spessa nella Valle dell’Inferno, nascosta fra i rilievi preappenninici sopra Santa Brigida, fra il Mugello e il Valdarno, pochi chilometri da Firenze che misurati in termini non convenzionali possono dilatarsi nello spazio e anche nel tempo. È spessa e calda ma senza inganni ed esalazioni oltremondane, solo il tepore quasi palpabile che si sprigiona dal sottobosco, investe l’olfatto, ottunde il rumore dei passi, addormenta i rami e risveglia insieme i riflessi multicolori dei coleotteri.
Dunque perché chiamarla Valle dell’Inferno se ti avvolge come in un nido? La domanda continua a risuonarmi dentro finché l’immobilità dei rami non assume i connotati dell’incantesimo.
Cercherai invano l’uomo, negli sprazzi di sole che infrangono la volta della Valle dell’Inferno. Solo il respiro trattenuto degli alberi, in un’incomprensibile stasi vegetale, e delicate ali di coleottero sotto la loro scorza metallica. Sarà questo il motivo del nome?
L’uomo lo ritroverai più in alto sul crinale, ma solo in segni sparsi e consunti, dove i rovi abbracciano i muri di qualche casolare, e sulla cima del Monte Rotondo, dove il lacerto di muro di un non più ravvisabile castello si protende ancora ostinato, come ad indicare una strada ancora più su. Solo scendendo nuovamente a valle i segni si fanno più concreti, a lato dei sentieri indicati da segnavia spolverati di licheni.
Il post è stato scritto all’indomani del nubifragio che ha colpito Firenze il 1 agosto 2015