3_Lorenzo Scaramella, “Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici”

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scaramellaSi fa presto a parlare di lastre al collodio, stampe all’albumina e calotipi: ma che cosa sono e come si riconoscono? Il libro di L. Scaramella, fotografo e specialista delle antiche tecniche fotografiche, esamina in modo analitico le diverse tecniche che si sono succedute dalla nascita ufficiale della fotografia (1839) fino ad oggi per la produzione di negativi e di positivi. Un libro certamente molto tecnico e destinato a un pubblico settoriale, ma che si legge con piacere e regala spunti di riflessione interessanti sulla storia del mezzo fotografico e l’evoluzione della cultura visiva.

Dal punto di vista tecnico, la storia della fotografia si può suddividere in tre ere principali, in ciascuna delle quali c’è una predominanza di uno o due procedimenti particolari. Il libro, essendo del 1998, si arresta alle soglie del digitale (se ben ricordo allora le foto digitali a risoluzione piena erano grandi quanto un francobollo e se le avevi non sapevi proprio che farne): adesso siamo di fatto nella quarta era.

Dal 1839 alla fine degli anni ’60 dell’Ottocento coesistono i due procedimenti più antichi, estremamente differenti concettualmente e per aspetto finale. Il dagherrotipo veniva realizzato sensibilizzando una lastra di rame argentato, che viene posta nell’apparecchio dagherrotipico: l’immagine si forma direttamente sulla lastra e viene successivamente stabilizzata. Si tratta di un positivo diretto, unico: dal dagherrotipo non si possono infatti ottenere altre stampe della medesima immagine. La sua unicità e la sua delicatezza (esposto all’aria tende inevitabilmente a ossidare, e deve dunque essere protetto da una apposita custodia) ne fanno un oggetto di lusso. Il calotipo è invece un negativo su carta cerata, da cui si possono tirare innumerevoli positivi, che in questa fase vengono realizzati su carta salata, ovvero su di un semplice foglio di carta di buona qualità su cui viene spalmata (successivamente l’operazione si compie per galleggiamento) prima una soluzione di acqua e sale, e dopo una soluzione contenente nitrato d’argento).

Questi antichi procedimenti possiedono ciascuno un fascino particolare. Il dagherrotipo è davvero un oggetto magico: l’immagine con tutti i suoi dettagli è di una nitidezza sorprendente, che la fa apparire viva; questo effetto è aumentato anche dal fatto che, muovendolo, l’immagine appare successivamente positiva e negativa, e sembra danzare. Poiché l’immagine si trova su una superficie riflettente, guardandola essa si arricchisce dei riverberi dello spazio che si trova attorno all’osservatore, acquisendo la sua profondità e i suoi colori, e l’osservatore stesso entra a far parte dell’immagine attraverso il suo riflesso. L’osservazione di un dagherrotipo è un’esperienza temporale del tutto particolare. Le carte salate, invece hanno in genere un aspetto opaco, ma il loro fascino risiede nel fatto che l’immagine si forma nelle fibre stesse della carta, acquisendo una piacevole morbidezza di piani e di toni. Un aspetto molto interessante, che Scaramella mette più volte in evidenza, è che i precursori della sperimentazione fotografica avevano per obiettivo la realizzazione di immagini direttamente positive della realtà: il concetto di negativo/positivo, a cui noi siamo ormai abituati e che diamo per scontato (ma lo sarà ancora fra qualche decennio? – la fotografia digitale non lo contempla, e i nativi digitali non conoscono il brivido di incertezza che si prova ad “andare a sviluppare un rullino”), era allora sentito come una limitazione nella capacità della fotografia di porsi come “pencil of nature”.Memnon

Queste tecniche vengono soppiantate a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento dalla rivoluzione del negativo su vetro al collodio (umido o secco) e dalla stampa all’albumina, che costituiscono il binomio per eccellenza fino a circa il 1880. L’evoluzione tecnica consente di ridurre drasticamente i tempi di esposizione: la fotografia si avvia ad essere praticabile davvero ovunque e in qualunque situazione. In questo momento, le vedute di città e paesaggi si animano improvvisamente: nel periodo precedente infatti i lunghi tempi di ripresa non consentivano di fermare l’immagine delle persone in movimento, ragion per cui le città di metà Ottocento sembrano invariabilmente deserte e sospese in un tempo in cui gli esseri umani non esistono più o non sono mai esistiti.

Intorno al 1870-1880 viene introdotto il procedimento alla gelatina sali d’argento che, pur con evoluzioni, miglioramenti e modifiche rimane sostanzialmente quello principale fino all’avvento del digitale: con esso termina l’era della “protofotografia” e inizia quella dell’industria fotografica. Avviene un salto epocale su cui è interessante riflettere: fino a quel momento, in genere ciascun fotografo preparava autonomamente i materiali di ripresa e di stampa (per quanto le carte albuminate fossero disponibili anche in commercio). Era un’epoca di sperimentazione e di fantasia: si diffondevano manuali e riviste che spiegavano i materiali e le tecniche, ma poi ciascuno faceva miscugli e prove per ottenere effetti adatti al gusto personale, aveva i suoi zibaldoni e i suoi ricettari. Da questa sperimentazione nascevano in continuazione procedimenti alternativi a quelli più diffusi, destinati magari a vivere solo una breve stagione, per non parlare delle contraffazioni e delle imitazioni. Non desti stupore trovare fra i fotografi della prima ora tanti medici e farmacisti, gente abituata a mescolare polverine e a produrre pozioni. L’industria fotografica spazza via alla fine dell’Ottocento tutto questo, al grido voi premete il bottone, noi facciamo il resto! (era lo slogan pubblicitario della Kodak nel 1888): certo, la fotografia diventa davvero alla portata di tutti. Il Romanticismo però si arresta alle soglie del Novecento.

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