Da quando ho memoria avverto il profondo richiamo del passato, in tutte le sue forme: è una malia da cui è assai difficile guarire, come sanno tutti quelli che la inseguono fino a farne una professione, come gli storici e gli archeologi; un filtro che pervade il presente e il modo di percepire la realtà.
Le fotografie storiche sono una delle sirene al cui canto l’ammaliato non si può resistere. Quella carta ingiallita dal passare del tempo, le macchie che denunciano le vicende che hanno passato e i luoghi che hanno attraversato, gli sguardi delle persone fissati in un attimo ormai trascorso, che ci osservano da profondità incommensurabili. Nei mercatini dell’usato e dell’antiquariato capita di trovarne: chi è specializzato in questo genere le propone spesso ordinate in raccoglitori, suddivise per tematiche o per epoche, così depotenziate e quasi innocue. Più spesso accade di vederne gettate alla rinfusa in qualche vecchia valigetta, in mezzo a flaconi da farmacia in vetro e a rocchetti di filo da cucito, testimoni muti di vite ormai senza nomi, senza legami, prossime a dissolversi. Non ne ho mai acquistate: mi affascinano, ma anche mi inquietano. No, non vorrei portare con me, nella mia casa, questo fardello di vite trascorse.
Il volume di F.N. Boher, elegante e curatissimo, ricco di strepitose illustrazioni, tratta un aspetto particolare della storia della fotografia: il suo rapporto con l’archeologia. Un connubio indissolubile che si stabilisce fin dal primo apparire della nuova tecnica: sia J.-L. Daguerre, inventore del dagherrotipo, sia W.F. Talbot, inventore della tecnica a sviluppo e del negativo in carta, percepiscono immediatamente l’importanza della fotografia non solo per la riproduzione di monumenti, oggetti d’arte e iscrizioni, e per la conservazione dei dati relativi al loro aspetto, ma anche per il modo di avvicinarsi ad essi e di studiarli. Boher analizza questo rapporto in quattro diversi capitoli che trattano la fotografia archeologica dalle origini a oggi come documentazione della realtà (cap. 1), come pratica nel concreto della campagna archeologica e del viaggio di esplorazione (cap. 2), come oggetto di archivio (cap. 3) e infine come base per lo studio scientifico (cap. 4).
Siamo nel 1839. Pochi mesi dopo l’annuncio della nascita della fotografia, i cinque continenti pullulano già di fotografi che applicano la nuova tecnica per documentare la realtà come essa è: questa è la promessa della fotografia, come annuncia già nel 1844 il titolo del volume di W.F. Talbot, The Pencil of Nature. L’immagine si crea sul supporto sensibile senza l’intervento mistificatore dell’uomo, la natura ritrae se stessa. Questa ingenua convinzione degli albori verrà presto smascherata: se l’uomo non produce fisicamente l’immagine, opera tuttavia una serie di scelte (soggetto, inquadrature, esposizione, per non parlare delle elaborazioni successive, in fase di stampa) che imprimono all’immagine la propria volontà e creano un documento che è altro dalla realtà che rappresenta.
La nascita della tecnica fotografica e i rapidi sviluppi che determinano nel volgere di pochi anni la riduzione dei tempi di posa, la possibilità di preparare precedentemente i supporti, la riduzione dell’ingombro degli strumenti di ripresa consentono di documentare in tempi in precedenza inimmaginabili architetture, scavi, sculture e reperti in ogni parte del globo. Nelle campagne di esplorazione il disegnatore viene sostituito – non immediatamente ma inesorabilmente – dal fotografo. La prima campagna di esplorazione archeologica a fare uso di apparecchiature fotografiche è la spedizione prussiana in Egitto condotta da Karl Richard Lepsius nel 1842-1843: sono passati appena tre anni dalla data di nascita ufficiale della fotografia.
La fotografia sostanzia il soggetto di una verità che il disegno e l’incisione, con la loro dimensione necessariamente mediata e quindi metafisica, concettuale o agiografica, non poteva avere. Ma forse ancor più che nella documentazione, la vera rivoluzione portata dalla fotografia in campo archeologico è, come mette in evidenza Boher, nell’archiviazione e nello studio. L’immagine fotografica consente di avvicinare oggetti lontani nello spazio, di confrontarli, di porli in serie, di praticare montaggi di parti separate dalle vicissitudini storiche o non più esistenti ed è in quanto tale elemento essenziale della metodologia archeologica.
La fotografia archeologica nasce, per così dire, già saggia, con criteri e regole che, una volta fissati, resteranno immutabili e che chiunque abbia partecipato ad uno scavo archeologico ben conosce: li individua chiaramente già W.M. Petrie nel suo Methods and Aims in Archaeology del 1904. Inquadrature frontali o laterali, che descrivano il soggetto nelle sue diverse componenti e nelle sue articolazioni; minimizzazione delle ombre; assenza degli esseri umani e delle loro tracce; inserimento di un termine di confronto dimensionale; uso preferenziale del bianco e nero (a lungo contrapposto al colore, riservato alle riviste e alle pubblicazioni non di carattere scientifico)… E così via. Ma queste poche e inflessibili regole non rendono conto dell’alchimia di queste visioni oniriche sospese in un tempo indefinito. Una delle loro cifre, l’assenza dell’uomo, ne rende impossibile, spesso, decifrare l’enigma della datazione.
Allora nuove e rivoluzionarie, allora prodigio della tecnica: neppure un secolo fa. Il passare del tempo ha trasformato queste fotografie stesse in “reperti” provocando un loro graduale, insensibile ma ormai avvenuto slittamento indietro, nel passato. Vestigia anch’esse di modi di vivere, di vedere, di approcciarsi alla realtà ormai desueti e inafferrabili. Il cielo color crema della stampa all’albumina al di sopra dell’Eretteo è lontano e muto quasi quanto il cielo di Pericle.
È un tema interessantissimo. Credo che la fotografia di opere dell’antichità sia di un fascino unico, ancor più se l’intento del fotografo è di reinterpretare o tradurre emotivamente e coerentemente al proprio tempo ciò che fu ed ancora è.
Anche per me è un argomento affascinante! Le foto antiche in particolare ti coinvolgono in un gioco di molteplici piani temporali: quello in cui l’opera è stata creata, quello in cui è stata fissata dall’obiettivo fotografico e che documenta tutta la sua storia, quello attuale che guarda alla fotografia come una testimonianza di uno stato del monumento e contemporaneamente come la documentazione di un attimo ormai trascorso… Grazie per lo spunto!