Il furto di un tozzo di pane conduce il giovane Jean Valjean in galera, e i ripetuti tentativi di evasione ne dilatano la reclusione fino a diciannove lunghi anni: al momento in cui egli ottiene la libertà condizionata nulla rimane dell’uomo che era un tempo. Il suo animo è pieno soltanto di risentimento e d’odio per l’intera società, che l’ha privato insieme della libertà, della gioventù, del futuro e del passato.
Siamo nel 1815: dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo il gelo della Restaurazione spazza via definitivamente l’utopia rivoluzionaria dall’Europa. È il ritorno al potere costituito e alle monarchie.
Ovunque egli si rechi, Jean Valjean è costretto a mostrare il documento che lo marchia indelebilmente come ex galeotto: nessuna locanda lo ospiterà, nessuna porta si aprirà, nessun lavoro gli sarà offerto. Per giorni vaga, in bilico sul sottile margine dell’abisso: se nessuna speranza è data, il suo destino è imboccare la via del male, senza ritorno. Infine, trova insperatamente riparo in casa del vescovo di Digne, Monsignor Myriel, che vive il proprio apostolato in povertà donando ciò che possiede e facendo il bene ogni volta in cui si presenti l’occasione. L’accoglienza è semplice ma piena di calore e bontà, ma durante la notte Jean Valjean non riesce a resistere al maligno fascino incantatore della poca argenteria di casa. I gendarmi lo ricondurranno in catene il giorno seguente davanti a Myriel, che ne impedisce la nuova incarcerazione sostenendo di aver donato lui stesso a quell’uomo ciò che gli è stato trovato addosso. Anzi, nella fretta di andarsene, egli ha dimenticato di prendere i due candelabri d’argento. Jean Valjean è sconvolto: il prelato, per cui lui è niente e che per lui è niente, lo chiama amico e fratello, il prelato pur potendo perderlo definitivamente con una sua sola parola, lo salva.
“Jean Valjean, fratello mio, voi non appartenete più al male, ma al bene. E’ la vostra anima che ho comperato; la tolgo ai pensieri tenebrosi e allo spirito di perdizione e la dono a Dio.”
Inizia dallo sguardo buono dell’anziano vescovo la risalita di Jean Valjean, che riesce a costruirsi una nuova identità e a iniziare una nuova vita a Montreuil-sur-Mer, dove apre una fabbrica e diviene sindaco del paese: per tutti egli è adesso il signor Madeleine, il benefattore. Ma il destino continua ad inseguirlo nella persona dell’ispettore Javert: gli soffia sul collo, gli è vicino, gli è addosso. Ogni qual volta la sua strada sembra appianarsi, un evento inatteso lo costringe ad abbandonare tutto e scappare: di fuga in fuga giunge a Parigi, dove si troverà coinvolto nei moti popolari del giugno 1832.
Non è proprio il caso di riassumere qui l’intera trama di questo romanzo incredibile, che ti tira dentro fin dalle prime pagine e non ti lascia riprendere fiato fino all’ultima: è fin troppo noto. Jean Valjean tiene fede per tutta la vita all’ideale di rettitudine che si è riproposto per redimersi, lottando contro le prove che la sorte continua a imporgli: solo la morte è in grado di donargli quella pace che la vita gli ha negato incessantemente. Ai bivi più terribili che si presentano al protagonista, l’autore analizza i tormenti della sua anima dissezionandone come su un tavolo anatomico le ondate di sentimenti contrastanti: la rabbia, l’orgoglio, il desiderio di riscatto, la nostalgia per una vita non vissuta, la fede, la speranza, l’amore, la rassegnazione. Viviamo al fianco di Jean Valjean, al ritmo dei suoi pensieri e del suo respiro, la terribile notte in cui egli decide di sacrificare la sua nuova, rispettabile esistenza come sindaco di Montreuil per impedire che un innocente venga imprigionato al suo posto; scrutiamo l’oscurità con i suoi occhi, ci sorprendiamo a tentare di anticipare le sue rocambolesche soluzioni di fuga.
Un romanzo in continuo oscillare fra tenebra e luce, fatto di contrasti stridenti fra passato e futuro, fra utopia e realtà, fra spirito e materia. La scrittura di Hugo getta improvvisi fasci di luce nel buio dei bassifondi parigini, ad illuminare squarci di vite, attimi fugaci in cui i miserabili appaiono sul palcoscenico della storia per sprofondare nuovamente nel loro destino irrevocabile, nell’anonimato, nel fango. Quante Fantine, quante Eponine, quanti Gavroche nella pancia del tempo! Personaggi che restano impressi nella memoria, indimenticabili nella loro disarmante e dolente umanità.
Il racconto si dipana, un colpo di scena dopo l’altro, intervallato da memorabili digressioni. Quando ho affrontato la prima, quella sulla battaglia di Waterloo, ho scorso un attimo le pagine in avanti e contato: 50. Ho pensato: nooooo, non mi passa mai più, e mentre io leggo di Napoleone che sta succedendo a Jean Valjean? Invece, fiato sospeso anche in queste sospensioni dell’intreccio. La descrizione della battaglia è intensa e viva, sembra di vedere scintillare sotto gli occhi le armature dei dragoni e di sentire il nitrito dei cavalli. Le pagine dedicate alle fogne di Parigi, dove gli escrementi gocciolanti dalla vita che si consuma in superficie trascinano insieme carogne e cappelli cardinalizi, corde d’impiccati e lustrini, il torsolo di mela insieme al lenzuolo funebre di Marat, sono una riflessione sul trascorrere del tempo, sulla dissoluzione fisica, sul valore delle cose come testimonianza che ho trovato, io che di mestiere faccio l’archeologo, illuminante. La descrizione delle due barricate del 1848, l’una mostruoso prodigio irto del potere sordo del caos, l’altra liscia e fredda di determinazione e precisione matematica, rappresenta le molte facce che può assumere l’opposizione dell’uomo al destino. Già, perché il destino pedina dappresso ciascuno dei personaggi, i docili come i temerari, li incalza, li perseguita, li conduce là dove devono andare… C’è una sola forza, luminosa, che si oppone al destino: l’avvenire. Quell’avvenire che i giovani rivoluzionari sognano sulla barricata, quando non ci saranno più re, non ci saranno più vinti, ma diritti e pane per tutti: il destino di Marius e Cosette abbraccia l’avvenire in nome di tutti coloro che hanno dovuto soccombere.
“Fratelli, colui che muore qui, muore nell’irradiamento dell’avvenire, e noi entriamo in una tomba tutta soffusa di aurora”. Enjolras, più che tacere, si interruppe. Le sue labbra continuavano a muoversi silenziosamente come se continuasse a parlare a se stesso, il che fece sì che tutti, tesi nell’ascoltarlo ancora, lo fissarono. Non vi furono applausi, ma un sussurro serpeggiò a lungo tra gli astanti. Poiché la parola è un soffio, i fremiti dell’intelligenza assomigliano ad uno stormire di foglie.
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