All’arrivo, all’aeroporto Sabiha Gokcen di Istanbul, mi sembrò chiaro che non eravamo affatto preparati: non sapevamo nemmeno in che fuso orario ci trovavamo rispetto all’Italia. Beh, sì, avevo letto, ma distrattamente, i passaggi più importanti della guida Lonely Planet, almeno per quanto riguardava quelli che sarebbero stati i nostri primi momenti su suolo turco. Avevo quindi pressappoco in mente dove andare a prendere un mezzo pubblico per spostarci verso il Bosforo e l’otogar di Harem, da dove volevamo partire per Bergama, ma l’impatto linguistico fu straniante, e per un attimo pensai: non ce la possiamo fare. Ci siamo fatti trasportare dagli eventi, e abbiamo preso un mezzo del tutto sulla fiducia, seguendo le incomprensibili indicazioni del bigliettaio del chiosco davanti all’aeroporto. E invece superato quel primo impatto, e preso quel primo autobus per Kadiköy, ogni cosa avrebbe preso il verso giusto.
Ma ancora non lo sapevo, nella luce rosata del tramonto, mentre attraversavamo, stanchi e un po’ frastornati, gli immensi sobborghi che si estendono dal mare ad est e a sud, fino all’aeroporto. Piano piano, tuttavia, la magia la sentivo arrivare, e quella luce, quando ha riverberato sul mare, e quel mare era infine il Bosforo, e in lontananza garrivano i minareti delle moschee fra le traiettorie dei gabbiani, non è possibile dimenticarla.
La città l’abbiamo appena intravista prima del calar del sole, prima che ci avvolgesse nel suo fermo calore la prima notte in Turchia. Avevamo deciso di non fermarci ad Istanbul, ma di proseguire direttamente verso le nostre mete egee ed anatoliche, per riservarci la visita della città alla fine del viaggio. Come quando, gustando una cena, si lascia per ultimo il piatto che amiamo di più, quello che ci fa venire veramente l’acquolina in bocca, il sapore con cui vogliamo concludere il pasto, sperando che persista a lungo in bocca.
Ma nonostante tutto la prima cena in Turchia l’abbiamo gustata ad Istanbul, in quel fugace abbraccio che la città ci ha riservato prima di ripartire. In una piazzetta proprio dietro gli imbarchi di Kadiköy abbiamo scelto un localino, piccolissimo, che offriva dei menù completi a prezzi popolari, e frequentato esclusivamente da gente del luogo. Il posto a sedere, inesistente all’interno del locale, era solo fuori, e fuori non vuol dire in un patinato dehors, ma nella piazza vera e propria, dove erano allestiti bassi tavolinetti e sgabelli, in quel momento ancora vuoti di vivande ma con alcuni clienti già seduti in attesa. Ancora non capivamo proprio niente, abbiamo ordinato del tutto a casaccio e ci siamo seduti, in attesa di cosa sarebbe accaduto. Ad un segnale forse convenuto, dalla cucina si sono riversati nella piazza stuoli di camerieri e cameriere carichi di enormi vassoi monotematici: chi portava l’acqua, chi il pane, chi le minestre, chi i piatti principali, chi le tovagliette e le posate. Ci siamo trovati in un attimo davanti, come tutti gli altri avventori, le nostre bibite, un pane circolare simile ad una focaccia, la çorba (una minestra a base di legumi che abbiamo gustato successivamente più volte, trovandola sempre diversa, come il biscotto di Alice nel Paese delle Meraviglie), due piatti unici diversi a base di carne e accompagnati da riso o yogurt. Ma nessuno iniziava a mangiare… Perchè? Ci guardavamo attorno increduli. Solo dopo abbiamo capito, quando il muezzin dalla vicina moschea ha cantato e tutti hanno iniziato a mangiare, insieme. Ramadam, era il Ramadam. Anche noi abbiamo mangiato allora, con la sensazione di far parte, nonostante la nostra estraneità, ad un rito collettivo. E tutto era incredibilmente buono, semplice saporito e autentico.
Con questa immagine di Istanbul siamo partiti, attraversando al buio il Mar di Marmara, addormentandoci sull’autobus per risvegliarci all’alba, ormai sull’Egeo. L’ho conservata dentro come un richiamo per due settimane, fino ad incontrarla di nuovo, ancora al tramonto, e stavolta sapendo che avremmo attraversato davvero il Bosforo nella luce rosata, venti minuti di battello che separano Europa e Asia.
E’ strano come sia stato, in questi mesi, impellente scrivere di Istanbul, e insieme imbarazzante. Perchè tutto sembra già detto oppure ineffabile, perchè è difficile, più che per altri luoghi, racchiudere nelle parole le immagini, le sensazioni ed i pensieri. Istanbul è un crocevia nello spazio e nel tempo, un varco fra due continenti che consente, passeggiando nelle sue vie, di vivere molte vite. Ed è anche l’apoteosi della città, racchiusa nel suo stesso nome, se è vera l’etimologia che vi vede una corruzione dell’espressione Εις την Πολιν, “verso la Città” o “in Città”. La colonia greca di Bisanzio aveva già un millennio di storia quando divenne Costantinopoli nel 330, capitale dell’Impero Romano prima, dell’Impero Bizantino successivamente e di quello Ottomano poi. L’Eracle colossale, gettato in bronzo da Lisippo per Taranto nel IV secolo a.C. fu portato a Roma nel 209 a.C. e da lì a Costantinopoli, nell’Ippodromo, ed era ancora lì nel 1204, quando fu distrutto dai Crociati e utilizzato per battere moneta. Quante monete si possono ricavare da una statua alta cinque metri? Le porte di bronzo di Hagia Sophia, prima basilica, poi moschea, infine museo, provengono da un tempio pagano e datano al II secolo a.C. Non si può non provare una vertigine, non sentirsi costantemente in mezzo al fluire della storia da tempi immemori e per tempi immemori.
La densità di Sultanhamet, con i suoi incredibili monumenti, l’atmosfera raccolta di Galata, accucciata intorno alla torre genovese, la vita notturna di Nisantasi e Beyoglu, i bambini che giocano per le strade di Fener e Balat, i mercati intorno alla moschea di Fatih, le case di legno sul Corno d’Oro dalle finestre aperte sui cieli.
Di tutto questo, ne abbiamo avuto solo un assaggio.
Era l’epilogo della serie?
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