A giudicare dalla descrizione della guida, Olympos era uno di quei luoghi da non perdere, ma in verità devo dire che non mi attirava davvero, e di certo non mi attiravano le famose case sull’albero, che mi puzzavano clamorosamente di acchiappabischeri (detto in gergo tecnico). Ovvero della solita roba che attira gente giusto perchè “non puoi non andarci”, e ti ritrovi in men che non si dica in una mandria amorfa guidata dopo vogliono altri. Sarò prevenuto, lo so, ma quando ciò che è spontaneo viene cristallizato nel must, sento sempre puzza di bruciato.
E così traccheggiavo, nel decidere una delle ultime tappe del viaggio, senza sapere il da farsi.
Ma quello che ci ha convinti ad andare davvero ad Olympos è stato come sempre l’improvviso e l’imprevisto. Ad Ucagiz il nostro solerte albergatore ha sostanzialmente deciso che avremmo dovuto lasciare il paese (una sorta di isola spazio-temporale collegata solo due volte al giorno con il mondo reale) non tramite autostop come noi insistevamo a voler fare, ma insieme ad un trio di altri ospiti, automunito e composto da un italiano, una belga ed una francese (e non è l’incipit di una delle solite barzellette anni ’80). E insomma tanto ha fatto e tanto ha brigato che alla fine Stefano ci ha invitati a salire con loro: pensavamo che ci avrebbero accompagnato fino alla statale e invece il viaggio si è prolungato fino ad Olympos, ed è stato davvero piacevole. Stefano ci ha descritto in toni entusiastici Olympos, ed essendo un antichista ci siamo fidati.
E quindi, un ayran e un caffè turco dopo (ma ve l’ho detto cos’è l’ayran? noooo?! incredibile), ci siamo trovati coi nostri zaini alle soglie di Olympos, che abbiamo raggiunto con il solito dolmus, dribblando l’immenso campeggio di case sull’albero e guadagnando con sollievo il sito archeologico. Abbiamo deciso di tentare l’impresa, e di raggiungere la tappa successiva, Cyrali, passando dalla spiaggia e non tornando sulla statale e poi ridiscendendo nella valla successiva. Zaino in spalla dunque!
E sì: Olympos è proprio bella, è un mondo acquoreo e silvano, in cui il mistero delle architetture antiche, divorate dagli alberi e circondate da innumerevoli rivoli di acqua cristallina, rimane pressochè imponderabile. Il fiume attraversa il sito in tutta la sua lunghezza, e per compiere la visita è necessario guadarlo più volte, fra la morbidezza delle alghe e la compagnia dei girini e dei granchi, mentre finestre cieche da secoli ti scrutano sulle rive, rinfrescate dalla vicinanza dell’acqua.
In mezzo alle foglie, ci sono cartelli redatti forse in un tempo in cui si pensava di strappare alla natura questo luogo, e che indicano ottimisticamente le terme, il teatro, le diverse necropoli. Ma il muro di foglie sembra impenetrabile. Se decidi di perderti un po’ nel labirinto, troverai lacerti di muri di epoche diverse, sarcofagi divelti dalle radici, e la cavea del teatro dove solo gli arbusti attendono forse che la rappresentazione abbia inizio.
Il senso sfugge tuttavia. Perchè anche se il cartello ti dice che ti trovi nelle terme romane, non c’è niente che confermi davvero questa informazione, e Olympos sembra un’immensa metafora della nostra conoscenza dell’antichità: che se una radura permette di vedere un incerto muro, tutto il resto rimane sepolto fra i tronchi. E pensi a tutto ciò che non sapremo mai, di questi mondi che pure ci sembra di conoscere tanto bene, ed in effetti conosciamo bene, a confronto di tanti altri: i canti, le decorazioni delle stoffe, le bisacce di pelle e i mestoli di legno.
La gente, per lo più, utilizza il percorso del fiume per arrivare alla spiaggia, e pochi avvertono il richiamo e si perdono nel bosco. Eppure, basta seguire i mille ruscelli che lo percorrono, non c’è rischio di perdersi. Abbiamo appoggiato i nostri zaini contro un tronco, abbiamo immerso i piedi nell’acqua fredda e limpidissima, accanto al muro di un recinto funerario, osservando nello specchio ondulato la traiettoria di una libellula di un incredibile colore viola.
Ecco, la luce dorata che si sprigionava fra il verde delle foglie e l’azzurro dell’acqua, e il sapore del gozleme che un’anziana signora ci aveva fatto alla fermata del dolmus e che abbiamo assaporato in quell’improvvisato bivacco, fanno parte dei ricordi indimenticabili di questo viaggio. Insieme alla sensazione di poter fare tutto. Eravamo liberi, la nostra casa sulle spalle come le lumache, le nostre provviste nella borsa, i nostri piedi a portarci dove volevamo: potevamo tornare indietro, andare avanti, fermarci per un tuffo in mare, non aveva importanza quanti chilometri avevamo già percorso quel giorno, e quelli che ancora ci aspettavano prima della fine della giornata.
Perchè la giornata era ancora lunga, e ci avrebbe portato dalle acque di Olympos ai fuochi di Chimera. Attraverso la lunga spiaggia che le collega abbiamo raggiunto Cyrali, per poi proseguire in un percorso infinito in mezzo ai campi, mangiando fichi colti dagli alberi e uva semiselvatica scovata in mezzo ai rovi, fino alla nostra pensione.
L’ascesa alla Chimera avviene di notte, quando il fenomeno dei fuochi che scaturiscono dalla terra è osservabile con maggiore facilità. Io non ho capito come avviene, che cosa avviene di preciso e perchè. Però il monte emette lingue di fuoco, in un luogo alieno che è terra di nessuno: un’arida spianata sotto la luna, circondata da ulivi, che lascia poi spazio ad un ripido pendio digradante in mezzo ai pini profumati fino al mare. Ci sediamo accanto ad un fuoco, ne osserviamo la danza. Possiamo fare tutto.
Bellissimo come sempre. Mi sono fatto fare un massaggio ai piedi e alle spalle dopo che ho letto questo episodio. Mi si sentivano dalla fatica…… tua
Infatti l’articolo era per te!